5
Con l’America ho sempre avuto un rapporto di amore e distacco. Amo alla follia l’Arizona, tanto che per un certo periodo ho addirittura pensato di trasferirmi lì. Il resto non mi ha mai appassionato altrettanto, ma d’altra parte ho frequentato gli Stati Uniti soprattutto per lavoro. New York è una città chiusa, violenta, la gente non sta in strada e ti può capitare di non incontrare nessuno se non frequenti un luogo di ritrovo. Fa sempre freddissimo d’inverno, caldissimo d’estate, ed è molto difficile coltivare delle amicizie. Le persone si ritrovano nelle case, o alle inaugurazioni dei locali, e sono sempre divise per settori: quelli del cinema, gli antiquari, gli amanti dei quadri. Si va nei ristoranti a mangiare solo per parlare di lavoro. Francis Ford Coppola ci portava sempre in un locale italiano molto famoso. Fu durante uno di quei pranzi che mi chiese chi fosse l’autore delle musiche di Film d’amore e d’anarchia. E fu sempre nel corso di uno di quei pranzi che mi propose di fare Apocalypse Now: chiese a me di interpretare il personaggio del fotoreporter, lo stesso che poi valse un Oscar a Dennis Hopper. Quando mi fece quella proposta ero impegnato in un altro film in Italia e dovetti rifiutare.
Una volta ricevetti una telefonata da William Friedkin, il regista di Il braccio violento della legge: mi aprì le porte di casa sua; fu una delle persone che mi incuriosirono di più. Il nostro incontro avvenne dopo che vinse l’Oscar per L’esorcista: e aveva tantissime gigantografie di foto del film alle pareti, malgrado non avesse nemmeno le stanze arredate. Mi offrì di fare Sorcerer, che in inglese significa «stregone», anche se poi nella versione italiana il titolo diventò Il salario della paura. Si trattava di un remake a episodi di Vite vendute di Henri-Georges Clouzot, tratto dal romanzo di Georges Arnaud. Sorcerer era il nome di uno dei due autocarri usati per realizzare il trasporto di nitroglicerina. Lui voleva che facessi la parte che aveva interpretato Folco Lulli, l’italiano, uno dei quattro malviventi che dovevano trasportare l’esplosivo attraverso le paludi, le valli, le montagne, la giungla. Per convincermi mi elencò il cast del film, un gruppo di attori di tutto rispetto, tra cui Roy Scheider. Era una produzione gigantesca che doveva durare tre mesi, e avevano intenzione di dormire nei sacchi a pelo, in posti sperduti in mezzo alle montagne, per poi venir trasportati in elicottero in luoghi ancora più impervi nella giungla. Io avevo alcune questioni famigliari da risolvere in Italia, quindi rifiutai il ruolo.
A un’altra di queste cene newyorkesi conobbi Andy Warhol. Parlo di quarant’anni fa. Si portava sempre dietro una macchina fotografica, una Polaroid in pelle, e un registratorino Sony. Aveva questo modo di lavorare: fotografava e registrava le conversazioni di tutti noi. Le persone che stimolavano la sua curiosità le invitava poi nel suo studio, la Factory, per intervistarle, fotografarle, per studiarle, era la sua arte, il suo metodo. Fece la stessa cosa con me. Accettai l’invito e andai da lui il giorno seguente. Lo studio era al quinto o sesto piano di un edificio al centro di Manhattan, e Warhol mi fece tante foto e un’intervista, che pubblicò sul suo giornale, Interview. Fu molto piacevole trascorrere del tempo con lui. Mi presentò i suoi collaboratori, che erano tantissimi. Alla cena successiva me ne presentò altri ancora, e io discorrevo con tutti, poi magari mi accorgevo di aver parlato con Allen Ginsberg, o con il capo della Paramount. Una sera finimmo al concerto di Bob Dylan, e a parlare con noi si unì anche Warren Beatty. Quelli erano anni così. Erano posti così.
Il mio albergo preferito a New York era l’Algonquin, sulla 44esima strada, a Manhattan, che ho scoperto dopo con grande stupore essere lo stesso di Scott Fitzgerald ed Ernest Hemingway. Il mio ristorante preferito invece si chiamava Helen, gestito da una francese cicciona. Credo che questi posti esistano ancora, ma non li frequento più tanto. All’interno del locale facevano anche cabaret e piano lounge, e una sera mi capitò di essere invitato a un tavolo con Warren Beatty, Bob Fosse, George Lucas e Harrison Ford. Quelli erano anni in cui tutti facevano tutto, stavano tra loro, passavano le serate e le nottate così. Ricordo che mi presentai a cena dopo essere arrivato il giorno stesso da San Francisco. Avevo con me delle sigarette profumate indiane, si chiamano bidi, che avevo preso durante lo scalo. Ne avevo in tasca una decina, racchiuse in contenitori a forma di piramide. Loro mi videro, mi salutarono e mi chiesero cosa stessi fumando; io sul momento non gli dissi che erano semplici sigarette, le tirai fuori dalla tasca e iniziai a distribuirle a tutti: tenete, tenete, tenete. E loro erano felicissimi, come bambini. Chissà cosa pensavano che fossero. Io ridevo come un matto. E loro pure. Avevo appena distribuito sigarette al gelsomino, al rosmarino, alla cannella, alla camomilla, e loro chissà quali droghe erano convinti di provare. Che simpatici, eh?!
Altri due incontri newyorkesi che ricordo con piacere furono quelli con Richard Brooks e Richard Avedon. Io e Lina Wertmüller eravamo una specie di fenomeno, dopo Pasqualino. Tutti volevano incontrarci. Avedon mi invitò anche nel suo studio e mi fece delle foto. Richard Brooks, invece, si invaghì di me, del mio modo di fare l’attore, e quando seppe che stavo girando un film in Arizona, riuscì a rintracciarmi, mi mandò un volo privato e mi invitò negli Studios della Metro Goldwyn Mayer. Quando lo incontrai era già vecchissimo, un tipo energico, tosto, sigaro in bocca, camicetta estiva a fiori, piedi sulla scrivania. Aveva cominciato la carriera come ciakkista di David Griffith e io mi feci raccontare tantissimi aneddoti. Mi mostrò con orgoglio un tavolinetto di legno in noce massiccio, sgangherato, che si portava sempre dietro in ogni set, perché così poteva darci le botte sopra per far stare zitti tutti: era fiero del rumore che faceva quel tavolinetto, e me lo raccontava come un segreto: era un bambino che confidava un trucco che conosceva solo lui. Brooks nasceva come giornalista di cronaca nera, era uno sceneggiatore bravissimo. E infatti girò A sangue freddo, dal romanzo di Capote, basato sulla storia vera di due farabutti che escono di galera e per fare una rapina finiscono per uccidere una famiglia intera. Un film straordinario, che ebbe diverse nomination all’Oscar. Era un esperto nelle ricostruzioni di cronaca, si vedeva. Anche lui mi propose di fare un film: «Questa è la storia del gioco», mi disse. Era convinto che potesse diventare il film della sua vita. L’obiettivo era girare un film su uno dei vizi più grandi degli uomini, ambientato a Las Vegas. Per me aveva in serbo la parte di «Johnny from Perù». Ma io sono italiano! Embè?, che importa? Avrei interpretato «Johnny from Perù», amante del gioco e del golf. Nel cast c’era anche Ryan O’Neal, di cui avrei dovuto essere l’antagonista. Era convinto della potenza di quel film. Quel giorno, quando andai nel suo studio, mi lesse ad alta voce tutte le scene in cui comparivo anch’io, ridendo come un matto. Era talmente simpatico che gli dissi di sì. Non credo che il film sia stato un grande successo, ma io mi divertii tantissimo. Lo intitolarono La febbre del gioco, e fu il suo ultimo lavoro prima di morire.
Mi misero in un albergo a Las Vegas, vicino a un grattacielo che stavano abbattendo. Il giorno dopo dissi a Brooks che sentivo troppo rumore, e lui mi cambiò la stanza con l’appartamento del produttore! Una sera durante le riprese organizzò la proiezione di Pasqualino con tutta la troupe, perché voleva che tutti conoscessero il mio film, quello per cui lui aveva perso la testa per me. Per fare la parte di Johnny from Perù, prendevo lezioni di golf la mattina, giusto per avere dimestichezza con uno sport che non avevo mai praticato. Quando girammo la scena, che prevedeva una distanza di quindici metri per sei colpi a sei palline differenti, feci andare in buca subito la prima pallina, per caso, era un miracolo; rimasero tutti sbalorditi, fecero un applauso fortissimo e la scena durò undici secondi, un’infinità. Non riuscì a montarla e dopo tre mesi mi fece chiamare con la scusa di dover ri-doppiare alcune scene. Mi mandò l’aereo privato, mi pagò una settimana di vitto e alloggio, e solo quando arrivai nel suo studio mi svelò il motivo della chiamata: voleva regalarmi il girato di quella scena, con tutti gli applausi registrati e i commenti stupefatti di chi era sul set con noi, un po’ per scusarsi per non averla inserita nel film, un po’ perché voleva che conservassi il filmato di quel colpo di fortuna a golf che aveva ricevuto così tanti complimenti, dicendomi: «Guarda che nessuno ci crederà mai se lo racconti: io ho filmato il tuo miracolo!». Che persona straordinaria.
Un altro incontro americano molto suggestivo lo creai io. Andai alla mia agenzia a New York e chiesi i nomi dei registi appena usciti dalla scuola di regia, e loro mi proposero diversi giovani, tra cui anche Ang Lee quando ancora non era nessuno. Mi misi a studiarlo, a capire come lavorava, e mi intrigò parecchio: lo invitai più volte a cena per conoscerlo meglio e mi piacque subito. Era stupito che un attore come me si interessasse a lui, mi adorava, conosceva i miei film. Decisi di commissionargli una sceneggiatura dal titolo Matrimonio per corrispondenza. Iniziammo questo progetto insieme, ma poi non lo realizzammo mai. A Venezia, mentre ritirava il Leone d’Oro per I segreti di Brokeback Mountain, mi ripagò dei miei appoggi nei suoi confronti quando era senza soldi e sconosciuto: davanti ai microfoni di una televisione italiana che lo stava intervistando per il suo film, mi salutò: «Ciao Giancarlo, grazie». Come dire: ti sono riconoscente, sei stato il primo che ha creduto in me, non mi sono dimenticato. È stata una grande soddisfazione. Ora è uno dei registi più interessanti e potenti di Hollywood.
A Los Angeles, invece, andavo sempre ospite da Dino De Laurentiis. Nel suo ufficio accadeva sempre qualcosa. Una volta aveva sul tavolo la sceneggiatura di Terminator e mi chiese se avessi voglia di darle un’occhiata; io incuriosito me la lessi tutta d’un fiato e non espressi un giudizio positivo. Quando mi confrontai con Al Pacino, e gli dissi cosa ne pensavo, mi prese per matto: «Ma che dici? Sarà un successone, farà un sacco di soldi». Aveva ragione lui. Da quella volta capii che più gli americani hanno una sceneggiatura difficile, fantasiosa, piena di effetti speciali, più si appassionano e creano film mostruosamente belli. Perché gli americani sono giovani, noi abbiamo troppi anni di storia che ci pesano: siamo più critici, abbiamo meno coraggio, siamo meno infantili. Ci invidiano pure questo, ma loro hanno la fanciullezza e la spregiudicatezza di chi non ha il peso della storia.
Francis Ford Coppola lo conoscemmo a cena, lui era innamorato del mio Film d’amore e d’anarchia, gli erano piaciute parecchio le musiche di Nino Rota, infatti lo chiamò per fare la colonna sonora del Padrino – Parte II, l’anno successivo.
Robert De Niro invece era amico del mio agente e di Dino. Una volta gli raccontai la storia di Ralph Minichiello, colui che per primo dirottò un aereo da New York a Roma, e De Niro mi convinse a fare un film su di lui, un progetto che tuttavia non si realizzò mai.
Ci fu un altro incontro che mi piace spesso ricordare, quello con Billy Wilder. È difficile pensare a qualcuno che avessi così tanta voglia di incontrare. L’unica altra persona al mondo che ho desiderato così fortemente conoscere, e che poi fu anche l’unica cui chiesi l’autografo in tutta la mia vita, fu Jean-Louis Barrault, l’attore francese nato come mimo, che era stato il mio idolo assoluto da giovane e che vidi al primo anno di Accademia, poco prima di esibirmi in un teatro di Bruxelles. Alla stessa maniera, con lo stesso entusiasmo, incontrai Billy Wilder, un personaggio paragonabile solo a Monicelli, magnifico, mastodontico, immenso, uno che al cinema fece il dramma, fece la commedia, fece tutti i generi più importanti, e tutti a livelli eccelsi. A qualcuno piace caldo, L’asso nella manica, Scandalo internazionale: che capolavori.
Lo incontrai poco dopo che era uscito il mio primo film da regista, Ternosecco. Ne avevo con me una copia, da consegnare all’attore che aveva interpretato la parte del protagonista, George Gaynes. Ci eravamo dati appuntamento da Spago, il famoso ristorante di Beverly Hills, sul Sunset Boulevard. Ci sedemmo e mentre stavamo per ordinare vidi a un tavolino poco distante Billy Wilder. Un altro grande amico, lo sceneggiatore Luciano Vincenzoni, che conosceva bene Wilder, mi aveva raccontato che spesso frequentava quel ristorante. Sapete com’è, quando pensi di voler incontrare qualcuno, e desideri vederlo proprio in un certo posto, e poi ti capita che succeda davvero? Ecco, con Billy Wilder andò proprio così. Quando lo vidi al tavolo, non ci potevo credere! Naturalmente non era solo, con lui c’erano Diana Ross, Sidney Poitier e Michael Caine. Avevo vergogna, mi tremavano le gambe ma volevo andare da lui per fargli i complimenti per i suoi film: è stato uno dei miei guru, non potevo non farlo. E mentre raccoglievo le energie e mettevo da parte la vergogna, e mi stavo per alzare, in quel momento arriva da me il cameriere, si china e mi sussurra: «Il signor Billy Wilder avrebbe l’onore e il piacere di averla al suo tavolo». Non era possibile! Ero al settimo cielo. Andai da lui, molto timido, ma lui si rivelò subito espansivo e solare, «my friend!, my friend!» con il suo americano dal forte accento tedesco: e si mise pure, davanti a tutti i presenti, a citare a memoria in italiano alcune battute dei miei film! Ero imbarazzatissimo. Non solo ero stato chiamato da Billy Wilder al suo tavolo, ma addirittura ripeteva le mie battute: è stato meglio che vincere un Oscar. La sera dopo dovetti tornare in quel ristorante, perché ero stato invitato da qualcun altro che voleva parlarmi di lavoro, e rividi, allo stesso tavolino, Billy Wilder. Era con altre persone, e rifece la stessa identica scena. Non ci tornai più, perché non volevo incontrarlo di nuovo, mi imbarazzava! Dopo capii che aveva il tavolo fisso da Spago e ci andava ogni sera. Così come Woody Allen l’ha in un altro posto. E come Pavarotti lo aveva in un altro ancora.
L’ultimo incontro che voglio ricordare è quello con Woody Allen. Per un certo periodo, io e Lina andavamo a New York per studiare inglese alla Berlitz School. Durante uno dei nostri soggiorni, nel corso di una cena, incontrammo Woody Allen. Lui voleva fare un film con me, un film basato su un romanzo che aveva scritto Lina dal titolo Essere o avere. Ma per essere devo avere la testa di Alvise su un piatto d’argento, la storia di due scrittori, uno bravo che non vendeva niente, e l’altro commerciale che vendeva tantissimo, della rivalità e dell’invidia tra loro. Insomma, ci vedemmo spesso a pranzo e a cena, Woody Allen era un tipo molto piccolo, timido, tanto educato e dolce. Rispondeva sempre «sì, sì» a ogni cosa che diceva Lina, perché aveva una stima irrefrenabile nei suoi confronti. Lina si era data da fare per organizzare questo film con noi due, ma ci fu un imprevisto. Mi invitò a cena in un ristorante dove si esibiva suonando insieme ad altri musicisti, suonavano jazz e si capiva che Woody era proprio felice con il suo clarino. Era felice perché invadeva la sala con le famose e tristissime blue note. Poi, a tavola, davanti a un piatto di spaghetti, spiegò che per lui suonare il clarinetto era un gioco, una specie di cura che agiva su di lui come una sorta di tranquillante, e nello stesso momento mi pregò di riferire a Lina che non avrebbe potuto fare il film prima di cinque anni. Si trattava di un contratto che Allen aveva stipulato con la Orion Pictures che lo obbligava a lavorare per loro per i cinque anni successivi, e lui si vergognava di non riuscire a dirlo a Lina. Lo dissi a Lina, ma lei non volle crederci, reagì prendendo il problema alla leggera: «Massì, dai, sì che si fa...» E io che continuavo a ripeterle quello che mi aveva detto Allen, e lei che insisteva che non era vero.
New York la ricordo con piacere solo per le mie camminate solitarie con in mano la macchina fotografica. Mi capitava spesso di girare la città a piedi e di fotografare qua e là qualsiasi cosa mi capitasse a tiro. Senza inquadrare, solo puntando l’obiettivo. Altre camminate memorabili le ricordo con il registratore in mano: mi piaceva registrare i suoni, mi permetteva di sentirli anche quando tornavo a casa, e di conseguenza viaggiare il doppio, ripensare alle cose e immaginarle nuove e diverse. È probabile che fossi stato influenzato da Warhol. New York è un posto frenetico, rumorosissimo, veloce. Cammino, alzo la testa, vedo palazzi enormi, cieli lontanissimi, taxi che suonano, voci, ambulanze, colori, grattacieli, capigliature assurde. New York è una città densa, puoi anche non amarla ma l’energia che emana ti rimane dentro e sarà un piccolo tesoro da cui attingere.
Los Angeles è un’altra cosa, è un manicomio inconsapevole. Lì è tutto più solare, più aperto, più accessibile. Anche se sono tutti sempre indaffarati a fare qualcosa: incontri un regista e ti dice subito «sto preparando un film», poi magari lo incontri dopo due anni e non ha fatto niente, ma ci tiene a dirti ancora «sto preparando un film»; incontri un attore e ti dice «sto preparando una parte», poi succede che lo rincontri e ti dice sempre la stessa cosa, e tu capisci che quel film non lo farà mai. Tutti devono mostrare che sono in movimento, dare un’idea di speranza continua, sono tutti sempre «in procinto di», hanno un modo diverso di approcciare le giornate. Tutto più volatile, per loro il divenire è un’avventura: questo è il sogno americano.
Ma l’America vera per me è l’Arizona, il mio paese preferito in assoluto. A un certo punto della mia vita volevo andarci a vivere, perché è l’unico posto al mondo che mi fa sentire esattamente quello che sono. L’Arizona ti disarma e ti mette al muro, nudo, per quello che sei. Ti indica dall’alto e ti dice da dove vieni e cosa rappresenti nella vita. È un posto forte, ma allo stesso tempo delicato. Ha i colori più belli che io abbia mai visto, e tutte le sfumature se le è inventate lei, l’Arizona. Ha l’arancione che è proprio arancione. Ha il verde che è il verde più intenso che esista. Ha il nero che ti fa sprofondare e il bianco che acceca. Ha il sole, il più grande che si possa immaginare. Le sue vallate sono tutto, sono la vita e la morte, i sogni, l’oblio. Il Grand Canyon è qualcosa di unico, di immenso, di forte, di assoluto. In Arizona tutto è amplificato, anche le sensazioni: se hai fame, è perché stai morendo di fame; se hai sonno, è perché se non dormi potresti morire; se hai sete, è perché ti vuoi scolare due litri d’acqua in un secondo. Tutto è più intenso e sensazionale. L’Arizona ti accoglie con le braccia aperte e non ti fa più andare via. Tutto è potenziato anche nei fenomeni meteorologici: se viene un temporale, l’acqua scende con gocce grandi come una mano; dura sette minuti; e poi arrivano otto arcobaleni doppi. È una terra generosa che ti rispetta, se tu la rispetti. Non c’è niente per chilometri, e man mano che avanzi vuoi entrare in questo niente.
In Arizona ho finito il mio ultimo film, Ti ho cercata in tutti i necrologi, proprio per trovare la dimensione nascosta dell’uomo in rapporto a Dio. L’uomo in Arizona è piccolo, piccolissimo, è esattamente quello che rappresenta. È uomo. Lo spazio, l’andare verso qualche posto, non ha più alcuna importanza; non ci sono direzioni, non ci sono indicazioni. Io ho girato l’Arizona con tutti i mezzi, a piedi e in elicottero. In Arizona c’è tutto: c’è John Ford e c’è la fantasia, ci sono i personaggi con cui sei cresciuto da piccolo, e altri nuovi che mai conoscerai in nessun altro posto. L’Arizona è uno stato mentale. È un sentimento. È un’idea. Il libro Punto, linea, superficie di Kandinskij è l’Arizona. Solo lì trovi una dimensione, le due dimensioni e le tre dimensioni. L’Arizona è la quarta dimensione. In Arizona ti allontani da tutto e ti avvicini a ogni cosa. Entri nell’animo di chiunque e sei su Marte. Meglio di un’isola, di una barca nell’oceano, meglio di una montagna dolomitica, meglio di un’immersione subacquea. Ognuno deve trovare la sua Arizona da qualche parte.