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C’è un esperimento, per chi vuole fare l’attore e per chi ama osservare, che mi piace ricordare. Si chiama «effetto Kulešov». Stiamo parlando della scuola cinematografica russa, quindi di avanguardia. Siamo nel 1919, Kulešov, regista e grande teorico del cinema, e soprattutto del montaggio, un giorno chiamò un attore in studio, il grande Mozžuchin, e gli fece un primo piano dicendogli: «Non devi fare nulla, devi solo guadare l’obiettivo della macchina da presa, non devi fare nessuna espressione». E così fece. Quella stessa immagine, mostrata dopo una tavola imbandita, dopo un cadavere, dopo una bambina che gioca, assumeva un significato diverso: sembrava il primo piano di un uomo affamato, di un uomo triste, o di un uomo intenerito. Eppure era sempre la stessa immagine. Per questo dico agli attori a cui insegno «non recitate!» Se capiscono questo esperimento, hanno capito tutto. Il montaggio ti può cambiare tutto.

Un bravo montatore può usare un momento del tuo volto e crearti un sottotesto a cui tu non avevi minimamente pensato o addirittura fare apparire l’esatto contrario di quello a cui avevi pensato. Sì! L’attore viene manipolato anche così! Ma è bello, no? Potenziano la tua interpretazione facendoti diventare bravo quando non lo sei e molto più bravo quando lo sei. Ma l’attore, che notoriamente è bugiardo, anche se se ne accorge non lo dice, ma più spesso ha un ego talmente esagerato che non se ne accorge proprio.

Sapete cosa diceva Kubrick? (E io sostengo che Stanley Kubrick, insieme a Fellini, sia il più grande di tutti.) Alla domanda: qual è il film perfetto? Lui ha risposto: il contenuto di Chaplin e la forma di Ejzenštejn. Io ho fatto molto tesoro di questo insegnamento.

Quando il cinema è nato era muto. Malgrado questo, naturalmente, si capiva tutto. Poi è nato il sonoro. E nella sua evoluzione ha avuto un picco di massimo splendore, in cui chi creava poteva andare oltre, sempre oltre, e raggiungere livelli altissimi. Poi ha subito un’involuzione. Ma se per lavoro voglio fare l’attore, per forza devo andarmi a riguardare quelli che hanno fatto la storia del cinema: non posso schiamazzare nell’epoca in cui vivo e adeguarmi. Anche oggi si può creare qualcosa, si può inventare. Bisogna solo usare quello che si ha a disposizione. Forse c’è più pigrizia, c’è più rilassatezza, la gente si siede su quello che ha: ma non va bene, perché anche oggi si può eccellere, nonostante siano in pochi a provarci.

Quando il cinema passò al sonoro, con un entusiasmo che avrebbe cancellato tutto il passato, Chaplin andò con i piedi di piombo, prima di mettere in discussione tutto il suo lavoro. Volle capire, non si fermò a quello che dicevano tutti. Fece un esperimento: mise degli elettrodi al cervello e fece passare delle immagini, cercò di capire come il cervello attivasse alcuni ricettori. Voleva capire quanto influisce la parola e quanto l’immagine. Voleva capire scientificamente come il sistema nervoso reagiva alla visione delle immagini e al passaggio delle parole. Il risultato è stato: le immagini agiscono per l’82%, mentre la parola per l’8%.

Il cervello ha bisogno di un tempo per tradurre la parola in immagine, mentre il gesto è percepito immediatamente. La parola può diventare un correttivo per l’immagine sicuramente importante, ma non fondamentale. Chaplin e Keaton hanno realizzato i loro capolavori che sono stati capiti in tutto il mondo senza aver avuto bisogno della parola. E mi piace concludere dicendo che l’immagine, come la musica, fa parte del linguaggio di Dio.

Prendiamo Travolti da un insolito destino... di Lina Wertmüller, con Mariangela Melato. Mi ricordo che c’era una scena in cui eravamo in spiaggia e dovevamo scambiare delle battute: ma pensai, con Lina, di cambiare tutto e farla solo con gli sguardi. La poesia è questo: è qualcosa che non c’è, che non esiste, da ricercare nel bianco che c’è tra un verso e l’altro, perché quello che vuoi raccontare è sempre tra le righe, tra un verso e l’altro. Insomma, in quel film tutto è fatto con gli occhi. E al montaggio funzionava tutto benissimo. Forza e potenza si possono comunicare anche così... anzi spesso è molto meglio.

Perché sono arrivato a parlare di tutto questo? Ero partito dai grafici, dai diagrammi provenienti dall’elettronica, per poi parlare degli animali e di come interpretare un personaggio creando una difficoltà che tiene sveglio lo spettatore, perché, dopo tutti questi discorsi, posso finalmente leggere le battute del copione con tutta la padronanza necessaria. Solo così posso padroneggiare a meraviglia ogni scena che faccio, adattandomi a quello che mi chiedono di fare.

Il mestiere dell’attore è veramente effimero. L’attore agisce e ferma quel personaggio in un momento preciso. Fissa quell’immagine. Però l’immagine nasce da una forma emotiva, dal tuo corpo, dal tuo movimento, in un dato istante. Ma potevi usare altre cose, altri strumenti, altre facce. In generale, non è che ci si piace molto riguardandosi, proprio per questo motivo: nasce sempre una frustrazione, un disagio. Una volta raccontai a Michelangelo Antonioni questo dubbio che mi girava nella testa, e lui mi rispose così: «Sì, Giancarlo, pure a me capita. Prima ho in mente di fare una scena, poi vado sul set e la cambio; quando l’ho fatta la voglio fare in un altro modo, quando la rivedo quasi non mi piace più, perché è un divenire che ora è diverso». Questa è l’angoscia. Questi sono gli artisti. Cerchi di raccontare. Cerchi la bellezza delle cose. Cos’è la bellezza? Un piacere? Dipende. Per chi? C’è una definizione di bellezza? Le cose belle è giusto che occupino uno spazio, quelle brutte no. Ma c’è nell’artista il piacere del raggiungimento di qualcosa di finito? Vedete come si va oltre? E allora io mi fermo, per ricaricarmi, perché di fronte avrò sempre quel bellissimo muro. Il mistero. Il mio credo.

Sono ancora un bambino
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