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Sono cresciuto con un sacco di paure. Oggi ci sono ragazzi che fanno la tesi di laurea su di me. Cosa scriveranno? Non penso di essere importante. Ancora mi sorprendo sentendo un applauso.
Io sono solo uno che si fa mille domande. Sono incuriosito dal dubbio; le mie insicurezze le curo cercando risposte. Una volta ho letto una frase di Milan Kundera che mi ha aperto uno spiraglio su questo mio tormento, diceva: «La stupidità della gente deriva dall’avere una risposta per ogni cosa; la saggezza deriva dall’avere una domanda per ogni cosa». Io, più semplicemente, mi pongo tante domande perché detesto la noia. Sono sempre dinamico, faccio anche due, tre cose insieme. Quando guido, devo sentire i miei cd, che un tempo erano le mie cassette: si tratta di cd che mi sono creato per imparare le battute dei copioni in inglese. È un modo per imparare a memoria, senza memorizzare a tavolino. A forza di ripetere le battute te le ricordi, senza porre attenzione al testo: c’era chi lo faceva dormendo, io lo faccio in macchina mentre guido. Non butto via il tempo: il viaggio in macchina diventa quindi un momento di studio.
Se sono a casa, ho i miei lavoretti da fare: aggiustare mobili, smontare oggetti, costruirne altri. Se sono in giro, guardo tutto quello che ho intorno e chiedo, chiedo sempre a chiunque ho vicino una spiegazione su quel particolare strano che non mi torna. Infatti, chi mi sta vicino dopo un po’ non ne può più di me. Che rompicoglioni Giannini, avranno pensato in tanti.
Il dinamismo è la caratteristica che mi ha sempre accompagnato, nella vita e sul lavoro. Anche sui vari set, nelle scene da girare. Le ho sempre modificate, per rendere tutto più attivo, energico. Ho questa carica dentro, che mi consente di andare sempre oltre la normalità, il senso comune, di entrare nell’immaginazione in un attimo. E ho coraggio. Ecco, nel mio modo di intendere la vita il coraggio è all’apice, è in testa alla classifica delle parole che riempiono le mie giornate.
Dunque: dubbi, domande, curiosità, coraggio, finzione. Queste sono solo alcune delle parole chiave per capirmi. Io ho sempre costruito i miei personaggi e i miei ordigni elettronici con lo stesso metodo, chiedendomi il perché di tutto. Perché devo andare da qui a lì, perché dice quella frase, perché c’è questo sistema di resistenze in un circuito, perché non semplifico così o perché non cambiamo colà. Anche se quando ho cominciato a fare l’attore mi sono detto «però, mi pagano per fare niente», da allora non ho smesso un attimo di prepararmi per qualcosa che verrà. Questa catena mi ha portato personaggi su personaggi, e non si è mai interrotta. Ancora oggi sono pieno di lavoro. Ma io non faccio l’attore, mi diverto. Una volta, a Milano, dovevo rilasciare un’intervista sul lavoro dell’attore, e invece ho parlato per due ore di elettroni e corrente elettrica – questa è la mia fantasia, l’idea della mia vita è questa, tutto è legato insieme.
Al cinema vado pochissimo. Mi basta fantasticare di mio. Sono un bambino. La vera disgrazia è diventare adulti. Gli attori si difendono un po’ più degli altri, sul lato ludico, ma qualcuno si prende tremendamente sul serio. Ai miei ragazzi del Centro Sperimentale ripeto sempre: «Non siete voi a recitare, è il pubblico che recita per voi. Voi attori siete solo un segno. È il pubblico che vuole piangere o ridere. È un gioco. E l’attore è il mago che estrae dal cappello il coniglio, è il plagiatore, è l’illusionista. Se è bravo, la gente ci crede. Quando penso a quello che deve interpretare un malato terminale e se ne sta quattro mesi in corsia a studiare, dico che è pazzo. No, ragazzi, rilassatevi. Fingete. È la cosa più bella, fingere. Io l’ho sempre fatto. Funziona. Credetemi».
Prendete Pasqualino Settebellezze. Quando uscì in America, ci fu un critico del New York Times, il temibile Vincent Canby, famoso per la sua ferocia nel commentare i film, che scrisse: «Giannini riesce nell’impresa di fare quelle facce, quelle espressioni, talmente forti e radicate, che ricordano le insenature del Grand Canyon». Una critica bellissima. Infatti, fui candidato all’Oscar per quella interpretazione. Dopo la serata di gala, mi fecero molte interviste. Ma quando arrivò da me proprio quel critico, e io ho una memoria formidabile, roba da restare paralizzati se mi metto a dire alle persone quando e come ci siamo visti l’ultima volta, dicevo: quando mi si presentò quel critico del NYT, non vedevo l’ora di rispondergli. Come ho fatto io? Ho fatto così: all’inizio ci ho provato a entrare nel personaggio, volevo essere Pasqualino, così ho chiamato un mio amico medico, e siccome dovevo dimagrire, dato che dovevo affrontare il campo di concentramento, chiesi a lui la dieta più giusta da seguire. Lui mi disse: via il pane, lo zucchero, via il sale, caffè amaro, bistecca insipida. Va bene, la mattina del primo giorno di riprese inizio con queste regole: bevo il caffè amaro, non faccio colazione con dolci, non mi fermo per la merenda, eh niente: incominciai a stufarmi già alle quattro del pomeriggio. Nelle pause del set stavo attaccato al telefono a lamentarmi con gli amici: ma dai, come faccio a non mangiare zucchero, sono stanco, mi gira la testa, cose così. Insomma, la dieta è durata un giorno e mezzo. Trovai la soluzione: Pasqualino, magro, smunto, lo farò con il trucco, mi dissi. Infatti, mi inventai l’escamotage per non fare la dieta. Mi ingegnai. Nelle confezioni di Vicks Vaporub c’è un pezzetto di cotone intriso di mentolo e acqua. Se lo passi sotto gli occhi, diventano immediatamente grandi e lucidi. Poi ho preso dell’olio di glicerina, l’ho messo sulla faccia, e spruzzandomi sopra dell’acqua sembravo sempre sudato. Ho preso anche un po’ di nero, l’ombretto va benissimo, e l’ho messo sotto gli occhi, per creare le occhiaie. Ho fatto la faccia un po’ appesa, vestiti larghi, ed ecco che sembravo Pasqualino smunto, smorto, magro e disidratato. Invece stavo benissimo, mangiavo zucchero, bevevo succhi di frutta, facevo merenda. Capito? Piuttosto che fare la dieta, mi invento qualcosa. Totò mi insegnò a mettere il cappello: mi disse che se lo abbassavo sopra le sopracciglia la faccia diventava da scemo, e così feci. E tutta questa risposta la diedi al critico del NYT proprio perché loro, gli americani, credono follemente nell’immedesimazione, che poi è quello che l’Actors Studio insegna agli attori. Loro hanno gente che entra nel personaggio, stando male come stanno male nella finzione. Ma non scherziamo, ragazzi, io mica sono per quella scuola. Io interpreto un personaggio. Io lavoro sul personaggio. Non fatemi fare troppi sforzi, dai, su. È solo un gioco.
Ma prima di me c’è chi aveva già capito tutto con largo anticipo. Da questo punto di vista, il mio maestro è stato Orson Welles in Quarto potere. Lui aveva capito qualcosa più di tutti, già allora. Aveva ventitré anni, gli bastava mettersi il naso finto e la pancia. Tac, tutti ci cascavano. Ci credevano. Mi piace ricordare la sua frase: «Il cinema è il più bel trenino elettrico che sia stato inventato». Anche Laurence Olivier credeva nel gioco e nella finzione cinematografica: esortava tutti a giocare, a divertirsi. Io sono cresciuto con i loro dettami, con le loro regole. Il gioco, la finzione, il divertimento: infatti, in inglese recitare si dice to play e in francese jouer, quindi giochiamo! Gli attori di quel tipo si sono fatti le domande prima di me e hanno trovato il modo di incorniciare una possibile risposta. Poi ce ne sono altre, e altre ancora, ma loro hanno provato a darne una. Con il coraggio. Con la fantasia. Usando ogni rotellina del cervello. Secondo me, anche Orson Welles se ne stava ore e ore sul divano a pensare o a guardare il muro ponendosi mille domande!
Anch’io, con il coraggio e la fantasia, ho interpretato un sacco di parti al cinema. Tutte diverse tra loro. Ogni volta, creavo qualcosa dal niente. Ma senza l’immedesimazione, solo e unicamente con l’interpretazione. L’entrare nella parte, come lo intendono gli americani, lasciamolo a loro. Noi italiani abbiamo la creatività. E con quella dobbiamo andare avanti. Ma avete presente in che razza di paese viviamo?! Un paradiso, che tutti ci invidiano. Con l’Italia sotto gli occhi tutti i giorni, avremo o no avuto qualcosa in cambio? Certo! Grazie all’Italia, noi siamo così. Siamo diversi da tutti. E io non sono altro che uno dei tanti interpreti. Uno di passaggio, che ha preso tutto quello che aveva intorno e l’ha restituito in altra forma. Sono grato all’Italia, e per ricambiare ho messo a disposizione la mia testa. Tenetela, eccola. Eccola nei film, sul palcoscenico, o soltanto come voce. C’è chi ha preso altro e ha restituito in altra forma. C’è chi mi ha guardato e mi ha ringraziato, e chi mi ha mandato a quel paese. Non c’è una soluzione unica, alle domande. C’è una possibile via che può far intravedere una risposta, tutto qui.
Io con la mia iperattività, la fantasia, l’interpretazione ho fatto l’attore in tutti i miei film e per tutta la vita. E non ho mai avuto paura di non essere capito. Forse ho cercato frasi più corte nei dialoghi, per non annoiarmi e non annoiare. Ho sempre cercato la strada più breve, per dire o fare una cosa. Ma non mi sono mai imposto uno stile non mio. Quando ero piccolo e incontravo parole che non conoscevo, erano così esotiche ai miei occhi che andavo a controllarle sul vocabolario. Oggi li vedo i ragazzi, sono così diversi da quando avevo la loro età. Eppure mi incuriosiscono molto ed è con loro che vorrei sempre rapportarmi. Ai giovani d’oggi non si permette più di essere ingenui, li si descrive come una parodia e invece non lo sono, li si vuole cinici, ma è solo un’apparenza. Ce l’hanno la fantasia, va solo stimolata. Amo l’età difficile dell’adolescenza, perché è tormentata e solitaria. Mi ricorda me.