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Lina Wertmüller è la prima persona nell’ambiente cinematografico che mi ha trasmesso tanta libertà, tanta ironia, tanta spensieratezza, e la felicità di fare questo lavoro. Io apprendo sempre molto da chi prima di me ha dimostrato curiosità, intelligenza, umorismo. Lina ha una grande conoscenza del palcoscenico, dei timbri delle voci, delle posture, delle entrate. Sa di macchina da presa, di scrittura, è di una profondità incantevole. Discutendo con lei, diventi il materiale che traduce la sua idea. E lei ti riprende in un modo potente, ti plasma, ti lascia lì, ti immortala. Con lei ho scoperto la dimensione fantastica del cinema, andando sempre oltre e discutendo insieme ogni cosa che si metteva in atto.
Lina è il geniaccio del nostro cinema. Ha sempre avuto una visione della vita, chiamala grottesca, chiamala mascherata, eccessiva, di finzione, che ha toccato l’eccellenza. Ha dominato la finzione cinematografica e l’ha portata all’esasperazione per arrivare al più ampio ventaglio di pubblico che si potesse raggiungere. È in grado di raccontare a tutti quella specie di sentimento che con il cinema tutti vogliono comunicare. Perché l’artista, come l’attore, comunica sentimento. Lo esprime, lo raffigura, lo mostra.
Lina suggerisce sempre qualcosa, è l’occhio esterno, quello che regola, che aggiusta tutto. Io ho imparato moltissimo da lei. È stata anche l’aiuto-regista di Fellini, quindi si può immaginare che gavetta ha avuto. Fellini è un personaggio sbalzato fuori dai sogni e atterrato nella realtà, e lei gli ha fatto da aiuto-regista per anni. Con quelle basi, accanto ai grandi, si può assorbire tutto se si è predisposti ad accogliere: Fellini usava il cinema come piacere e per assaporare i piaceri. Lina ha capito e ha tramandato ai posteri. Non usava l’effetto speciale, il trucco del virtuale, tanto era già virtuale di suo. Il suo cinema era anche molto costruito, il gioco della finzione all’eccesso, ma molto popolare, intelligente, e per me tuffarmi in questa fantasia era il massimo della felicità.
Lina è stata la mia dinamite, in un certo senso. Tendevo alla cupezza, all’inizio della mia carriera, e lei mi ha aiutato a tirar fuori il sorriso. Mi ha insegnato a sdrammatizzare ogni cosa. È stato travolgente lavorare con lei. Il nostro insolito destino. Fu lei a forzarmi all’uso del dialetto, a rendere questa lingua ancora più espressiva e più popolare. Ebbe l’intuizione giusta. Eravamo precursori di molte commedie attuali. Lei scriveva tanto. Scriveva sempre. A casa sua, ogni volta che ci vado, ancora oggi trovo copioni sparsi ovunque. Era un’entusiasta. Una solare. Una combattente. Sapeva affrontare le difficoltà. Trovava la via d’uscita in qualsiasi condizione. Anche la più estrema. E non si è fermata mai. Lavorava giorno e notte. E sapeva valorizzare il lavoro di gruppo, cosa molto rara – con lei si discuteva anche in piena notte, fino alle quattro, alle cinque, alle sei del mattino.
Ho passato mesi e mesi in moviola con lei a guardare rulli che andavano avanti e indietro, a studiare la mia faccia, la luce nel primo piano, l’angolazione della macchina, a verificare le cose che inventavo, a improvvisare sul trucco, sul gioco dell’attore. Dei film che ho girato con lei spesso eravamo anche produttori, o comunque trovavamo noi i soldi per farli. Io e Lina eravamo sempre coscienti di quello che volevamo fare.
In Mimì metallurgico ferito nell’onore spesso facevamo primi piani, la sera, nei gabinetti dell’albergo, perché non avevamo tempo di farli da un’altra parte durante il giorno: mattonelle bianche, una lampadina per avere un po’ di luce soffusa, e io stretto con la sigaretta in bocca, primissimi piani che montati si inserivano perfettamente nelle scene girate anche nel pomeriggio in una piazza in pieno sole. In Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto girai quasi sempre da solo. Mariangela, che si era ferita un piede, non poteva stare sul set, e quindi dovevamo arrangiarci. Ma io e Lina eravamo il re e la regina dell’arrangiarsi. Ce la cavavamo sempre, e alla grande. Spesso sfruttavamo quello che ci diceva l’intuito, il guizzo dell’attimo.
Anche in Pasqualino Settebellezze utilizzammo la scintilla di luce che ci balzava in testa il giorno delle riprese per dar fuoco alla nostra fantasia più estrema. Era un film rischioso: far ridere sui morti è una cosa difficilissima. Eppure ci riuscimmo e guadagnammo pure quattro nomination agli Oscar.
Mimì metallurgico, rivisto oggi, contiene tutto quello che poi è stato il cinema degli anni successivi. Ancora oggi mi fermano ragazze che mi dicono di aver visto il film in internet, su YouTube, o nei canali televisivi dedicati ai classici del cinema. Eppure quando uscì fu molto criticato. Venni additato come una marionetta, come l’attore che si muove con i fili dei burattini. Ma non era così. All’epoca non avevano capito di trovarsi di fronte a uno stile, a un linguaggio diversi. Era stato inventato qualcosa. Ma tutti criticavano usando gli schemi abituali. Certo, le convenzioni, la rigidità di pensiero, la superficialità nei giudizi fanno sempre danni immensi. Nella nostra società, soprattutto.
La parola «stile» spesso non è capita. A volte, in America, prima di leggere un copione domando qual è lo stile. E loro mi rispondono: che cosa vuol dire? Come, che cosa vuol dire?! Così, alla stessa maniera, avvenne nei miei film con la Wertmüller. Che stile era? Comico? Nessuno se lo è chiesto fin dall’inizio, per capirli. Avevamo inventato uno stile. Mimì per tutto il film mantiene una linea, un’andatura ben precisa. E il mio personaggio è inserito in quello stile del film, che non era la realtà, ma tre punti oltre la realtà. Mimì diceva: «Io a quello lì, il mio voto non ce lo do»... e poi finiva invece per fare propaganda per il mafioso. Era un film altamente politico. Dicevo: «Anche se compri un paio di calze, fai politica. Ci metto politica nelle cose di tutti i giorni». Ancora oggi mi chiedono per strada di dire la famosa frase del tradimento, quando parlavo a mia moglie: «Ma, Rosalia, ma che minchia di tradimento jè? Mi fai proprio cascare le braccia! Con uno che fa ’o finanziere, che ave cinque figli, dentro la cabina della gru, e che si chiama pure Amilcare!»
Con i film di Lina, su una struttura portante che mirava a divertire il pubblico, raccontavamo una storia in fondo anche tragica. Noi abbiamo la tradizione della commedia dell’arte, del piangere e del ridere insieme. Abbiamo avuto il grande Eduardo De Filippo, che aveva già segnato la via, aveva tracciato un solco per noi: Pulcinella è un personaggio tristissimo che ti fa ridere perché mentre mangia si mette gli spaghetti in tasca per portarseli a casa e mangiarseli magari un’ora dopo. E anche Mimì finisce in tragedia, disperato, nel deserto giallo di zolfo e pietre, a urlare.
Il mio film preferito è Film d’amore e d’anarchia ed è nato grazie a un episodio che mi piace raccontare. Avevo trovato un libriccino in una bancarella e finii per appassionarmi alla storia. Lo portai a Lina e le chiesi se voleva farlo insieme a me. Era la storia di un contadino che voleva organizzare un attentato. Lei disse sì, e lo facemmo con grande coraggio. Cooptammo anche Mariangela Melato, e il trio divenne un’esplosione fragorosa. Quando in una scena lei dice: «Ma guarda che non bisogna per forza essere un eroe, puoi anche non andare a mettere la bomba...» e Tunin risponde: «Ma a me, quando avrò ammazzato Mussolini, mi faranno anarchico?» capisci tutto. Quello è un poeta. Uno che pensa una cosa del genere è oltre, è un marziano. Tunin aveva quest’anima pura da uomo semplice e onesto. E poi c’era la frase finale di Errico Malatesta: «Voglio ripetere il mio orrore per attentati che oltre che essere cattivi in sé sono stupidi perché nuocciono alla causa che dovrebbero servire... Ma quegli assassini sono anche dei santi e degli eroi... e saranno celebrati il giorno in cui si dimenticherà il fatto brutale per ricordare solo l’idea che li illuminò e il martirio che li rese sacri». Mammamia, che roba. Mi emoziono ancora.
Io mi addoloravo e mi addoloro ancora se penso al personaggio che ho creato. C’era tormento. C’era ansia. Invece ci fu qualcuno che criticò Film d’amore e d’anarchia usando parole fortissime, dure, piene di rancore. Scrissero del mio personaggio: «È giusto che un cretino così faccia quella fine». Come ho già detto, rimasi fermo un anno. A pensare. Io faccio film che danno idee. Ma non invio mai dei messaggi. Non lancio appelli. Creo. Ho idee. Cerco sempre di raccontare che cos’è l’essere umano in quella situazione. In senso lato. Non è che passo il messaggetto. O mi metto a fare un film politico. Per quello guardo il telegiornale e mi trovo davanti un’infinità di scene vere che rappresentano la realtà. Io interpreto l’essere umano, in situazioni anche paradossali, o tragiche, o comiche. Il film politico lo ha già fatto in maniera mostruosa Francesco Rosi, con Le mani sulla città. Quello è il film politico per eccellenza. È il mostro sacro che racconta tutto, su quel genere. Ma è lì in alto, inarrivabile. Rosi ha raccontato un momento, e lui era specializzato in quello. Lo voleva fare. E ce la fece insieme a tutti quegli attori straordinari che assoldò. Fantastico. Anche Salvatore Giuliano era geniale. Lì addirittura ci mise la sua voce per raccontare la mafia e certe situazioni dell’epoca. Ecco, o sei a quel livello, o sei altro.
Se io sono così convinto di aver fatto questa cosa, ma nessuno la capisce, be’, mi chiesi per un anno, cosa lo faccio a fare questo mestiere? È meglio se faccio l’elettronico, allora. O è meglio se me ne vado in Brasile a studiare i satelliti artificiali. Questo pensavo. Vado avanti, o cambio? Perché devo fare tutta questa fatica, questo lavoro serio su me stesso, per far passare dei concetti, se poi nessuno li capisce? Non li faccio per una nicchia. Sono stato abituato troppo presto a fare l’attore per tantissima gente. E così mi sono costruito. Sicurezza dopo sicurezza. Giorno dopo giorno. Ce la dovevo fare. Tutti dovevano capire. O perlomeno darmi la possibilità di fargli arrivare qualcosa.
Facendo l’attore, esponi te stesso. È difficilissimo. C’è la vergogna, devi superarla. Se faccio una cosa che deve far ridere, be’, deve far ridere. Non c’è alternativa. Altrimenti, devi cambiare lavoro. Non puoi annoiare. È faticoso perché metti in gioco il tuo fisico, il tuo pensiero, la tua psicologia, il tuo sguardo, il tuo divenire nel tempo. Tutti mi hanno visto crescere e invecchiare.
PS: Torno su Film d’amore e d’anarchia. Quella di Tunin è una storia vera. Io pensai a tre immagini di base per costruire la figura di Michele Schirru, il contadino sardo anarchico: una solida quercia, lo sguardo di una mucca e il sorriso di un gatto. Con Lina decisi di dargli una diversa provenienza, il nord Italia. Gli cambiai il dialetto e lo feci parlare mescolandone tre: il lodigiano, il bresciano e il bergamasco. La voce era diventata bassa e afona, il colore dei capelli biondo-rosso. Il volto pieno di lentiggini di varie dimensioni. Le orecchie a sventola costrette in due grossi cerotti, nascosti dietro. Il collo era quasi sparito. Ai piedi portavo due scarponi, con dentro ognuno una suola di piombo di due chili, per ottenere una camminata pesante, contadina, diversa. Con il costumista, Enrico Job, pur essendo in agosto, ci inventammo un vestito pesantissimo: un maglione di lana scozzese, due pantaloni, uno sopra all’altro, di una stoffa molto spessa, perché quando camminavo, era come se camminasse una quercia.
A lavoro finito mi guardai allo specchio e mi dissi: «Madonna, sono finto, sono proprio finto! Si vede che sono truccato, con tutte queste lentiggini...» Ma mi sono detto «no!», io credo nella storia, la mia sfida è proprio questa: gli spettatori si devono dimenticare come mi propongo e devono entrare dentro la forza di questa storia, l’umanità, l’anima del mio personaggio. Poi venni premiato a Cannes, in giuria c’erano anche Ingmar Bergman e Ingrid Bergman. Venni a saperlo all’ultimo momento, perché girava voce che non ci sarebbe stato un italiano premiato. E poi successe anche che Coppola mostrò il film a Marlon Brando, e lui disse: «Perché mi avete sempre nascosto questo attore?» E io che ero rimasto fermo un anno. E io che mi ero visto allo specchio dopo il trucco e credevo di sembrare un mostro. All’estero invece poi mi hanno capito. Per me fu non solo una rivincita, ma anche una sorpresa. Dietro a questo PS c’è anche un consiglio: fai sempre quello che vuoi, se ci metti passione, se ci metti dedizione, se ci metti tanto (e serio) lavoro, magari oggi ti criticano, ti dicono che non sei bravo, ma domani raccoglierai i tuoi frutti. Devi sempre credere in quello che fai. Lo diceva già qualcun altro prima di me. Prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono, poi vinci.