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Dopo Lo sbarco di Anzio ho avuto il tempo di procurarmi un dialogue coach, una persona che mi diceva come pronunciare le frasi e le battute. Nelle produzioni americane il tempo concesso a un attore per prepararsi a un film è immenso. È come se avessero più rispetto del mestiere dell’attore. Gli forniscono anche l’active coach, cosa di cui io non ho mai usufruito, anzi l’ho sempre trovato ridicolo: per farli entrare nella parte, l’active coach discute con loro del personaggio e li aiuta a recitare le varie scene.
Questo tipo di organizzazione lo trovai quando feci Il profumo del mosto selvatico, con Anthony Quinn e Keanu Reeves. E per me fu un’esperienza stranissima, diversa da come uno se la può immaginare. C’erano a disposizione tantissimi giorni, per alcune scene. La mattina presto, non è che si cominciava a girare subito, prima c’erano gli esercizi di rilassamento. Un’ora o due, con tutti quelli del cast in cerchio o in fila a fare grandi respirazioni. Tutti insieme. Con la musica dolce in sottofondo. Io prendevo molto in giro Anthony Quinn, che era il mio amico sul set. Con lui avevo già fatto anni prima Il segreto di Santa Vittoria, e lì lo avevo conosciuto bene e capito la sua fantasia, il suo mondo interiore. Quanti trucchi del cinema mi ha insegnato!
Sul set con Anthony ridevo per ogni cosa. Anche lui partecipava agli esercizi della mattina, ma li faceva senza prendersi sul serio, a differenza di tutti gli altri. «Giancarlo, vieni pure tu», mi diceva apposta davanti a tutti, con quel suo vocione e in italiano perfetto, e ben sapeva che io non facevo quel tipo di preparazione. Ma lui si divertiva, si muoveva come un grillo agile in mezzo agli altri apposta per farmi ridere. E io gli dicevo: «Dai, alla tua età, che puoi fare ’ste cose? sei solo un ruffiano, sei una puttana, io non mi abbasso a tanto...» E lui mi rispondeva: «Ma l’attore dev’essere una puttana! Basta non farlo capire troppo!» Quanto era simpatico!
Sul prato, sotto il sole. Con calma, mentre tutti gli altri facevano gli esercizi seriamente. Poi era il momento della preparazione delle scene senza la cinepresa: uno seduto davanti all’altro, gli attori dovevano dire le battute. Per sciogliersi, per creare qualcosa dalla sceneggiatura. Anche quella era una pratica a cui non ero certo abituato. Keanu Reeves che si doveva prendere tutto quel tempo per entrare nel personaggio, con a fianco la sua active coach che gli suggeriva come farlo, insomma, una cosa lunghissima, sfiancante. Io mi dovevo mettere lì come tutti, a ogni scena, mica potevo sottrarmi, uno davanti all’altro, su una sedia: una cosa veramente assurda, dal mio punto di vista. Per il mio modo di intendere la professione, è umiliante! Ma gli americani sono così. Prendono molto a cuore l’immedesimazione, e per entrare nel personaggio devono stare male, sentire il dolore, pensarlo nella vita normale. Per questo io dico che sono uno che interpreta un personaggio, lo rappresento, lo espongo. Perché poi nel mondo del cinema ci sono quelli che si sfigurano, che si trasformano, che stanno male, per entrare nella parte. E questo non l’ho mai capito.
Quando venne il momento del dialogo preventivo con Keanu Reeves, sulla sedia uno davanti all’altro, ebbi qualche esitazione. Mi dissero che lui era un tipo un po’ nevrotico, anche se lo avevo già capito. E quindi volevo defilarmi. Volevo fingere di avere altro da fare, per entrare solo al momento del ciak. Ma non ce la feci. Arrivai perfino al punto di dire ad Alfonso Arau (il grande regista di Come l’acqua per il cioccolato), un messicano tanto simpatico con il quale avevo un rapporto di profonda confidenza: «Io sono più esteriore, più tecnico, mi spiace, ma il vostro metodo non è il mio, io non rivivo dentro di me le situazioni, le interpreto. È pericoloso con Keanu perché è troppo sensibile»; ma niente, non voleva sentire ragione. Per loro le mie erano scuse, e soprattutto dovevo agevolare Keanu Reeves nella preparazione della sua scena. E va bene. Decisi di farla. Boh, mi sembrava tutta una grande perdita di tempo. Ma stiamo parlando del 1995, magari oggi non avviene più tutto questo.
Insomma, ci sedemmo uno davanti all’altro. Dovevo dire le mie battute e farlo arrabbiare. In quel momento si poteva anche inventare. Ci si insultava a vicenda. A un certo punto diventai veramente aggressivo con le parole. Perché doveva essere un crescendo, nel copione era scritto così. E lui entrò talmente nel personaggio da pensare che quelle cose gliele stessi dicendo per davvero, si mise a piangere e scappò, andò a nascondersi in un posto senza farsi trovare da nessuno, e per quel giorno non girammo. Avevo detto fin dal principio che era meglio farla direttamente davanti alla macchina da presa. Io ripetevo: «Guardate che il vostro metodo è pericoloso», ma nessuno mi dava retta. Io credo nel metodo mimetico, nel gioco. Il metodo di immedesimazione in cui credono loro è rischioso. Perché ti cambia la mente. Ti cambia la vita. Non tutti capiscono quando si arriva a un punto dell’immedesimazione in cui bisogna fermarsi. Dopo questa scena, sono andato dal regista e gli ho detto: «Lo sapevo che era pericoloso, ti avevo avvertito... abbiamo perso un giorno di lavoro». Una piccola soddisfazione.
Un altro film in cui c’era un attore con una forte propensione al metodo Stanislavskij era Vipera di Sergio Citti, con Harvey Keitel, girato agli inizi del 2000. Keitel è un attore molto particolare. È un grande devoto di Stella Adler, e durante le riprese girava sempre con il suo libro sotto il braccio: lei aveva riscritto per gli americani il sistema dell’Actors Studio, dell’immedesimazione, una bibbia per loro. Keitel aveva molto a cuore la preparazione del personaggio, ci entrava dentro con tutto se stesso, e lo vedevi caricarsi sul set, con l’active coach che a ogni scena lo fomentava dicendogli cose che lo facevano sentire bene o male a seconda di quello che doveva interpretare. Be’, la scena che dovevamo girare prevedeva Keitel con l’ascia in mano (solitamente al cinema le asce sono finte, quella invece era proprio vera: una di quelle pesanti, affilatissima), e io sdraiato sotto. Nel film io avevo stuprato la figlia, e lui con l’ascia in mano mi dice: «Io quando avrò l’ascia sollevata darò uno stop per fermare le riprese perché mi devo caricare». Per me era una cosa allucinante! Durante il fermo di macchina lui diventava rosso, si caricava forte, per via delle frasi che gli diceva l’active coach sulla sua famiglia e la sua vita privata. E appena dissero «motore, azione», io ebbi paura! E così trovai il modo di scappare sotto il letto appena riprendemmo la scena... poteva ammazzarmi veramente, da quanto si era caricato! Per questo dico che l’immedesimazione fa male: quelli che la mettono in pratica sentono veramente dentro di loro il personaggio e il suo turbamento, senza finzione.
Ma queste sono scemenze, cose che a ripensarci mi fanno ridere. Episodi del genere accadono sempre sul set. Ho sempre vissuto le riprese come un momento di gioco, di divertimento, quindi quando racconto un aneddoto lo faccio con il sorriso di chi non si prende sul serio e di chi si guarda da fuori e ride su ogni cosa. Spero che il senso si capisca. Ma perché soffrire per fare questo mestiere? Sono masochisti, io no.
Due film in cui mi sono divertito tantissimo sono stati gli 007 con Daniel Craig. Lui è uno tosto, uno bravo, uno che si prepara tantissimo. È l’inglese con la faccia da inglese. Abbiamo fatto insieme sia Casino Royale, nel 2006, sia Quantum of Solace nel 2008; il primo con la regia di Martin Campbell, il secondo diretto da Marc Forster. In entrambi ero l’agente segreto René Mathis, un personaggio che mi sono inventato quasi da zero: leggendo la sceneggiatura non avevo capito da che parte stava Mathis, con 007 o contro? Ero andato a chiedere al produttore e mi aveva risposto che dovevano ancora decidere. La stessa cosa mi aveva risposto il regista. Nessuno mi diede una spiegazione! E così feci una spia che era talmente spia da essere spia con se stesso: un personaggio aperto a cui potevano dare le due interpretazioni. Il loro problema era se morivo o no, se potevo stare nell’altro film, in Quantum, o no. Infatti, guardando Casino Royale non si capisce che fine faccio. Un anno dopo, addirittura un anno dopo, decisero di mettere Mathis anche nell’altro. Mathis era un piccolo jolly per loro.
Ma una storia che mi piacerebbe raccontare, a proposito delle grandi produzioni americane in cui ho lavorato, è legata a Francis Ford Coppola. Perché loro, gli americani, hanno sempre avuto un’idea di noi così, molto alla buona, molto poco seria: pensano che se qualcuno di loro mi propone un film, allora io posso spostare o cambiare le date dei set di un film italiano in cui sto lavorando. Credono che sia tutto più mobile, più facile da gestire. Be’, molte volte ho dovuto dire no agli americani, perché magari ero impegnato in un film italiano più piccolo e a basso costo, magari per la televisione. Perché se uno firma un contratto poi lo deve onorare. Mica si può cambiare idea all’ultimo momento. È pazzesco pensarlo, è immorale e impossibile. Mentre gli americani pensano che una roba del genere si possa fare. Boh, forse qualcuno lo fa. Io no. Io non cambio idea all’ultimo, se arriva uno che mi propone più soldi o una parte migliore. Rinuncio, piuttosto. Tutto sta sempre nella mia voglia di andare a casa la sera pensando di non aver fatto un torto a nessuno.
Quando Francis Ford Coppola mi chiese di interpretare un personaggio di Apocalypse Now, insistette molto per avermi. Io avevo già firmato i contratti per due film, uno di seguito all’altro: dovevo fare prima Il male oscuro e poi ’O re. E mentre facevo il film di Monicelli, Coppola mi chiamò la seconda volta, per propormi una parte in New York Stories, nell’episodio «La vita senza Zoe». Si trattava di un film collettivo, composto da tre storie dirette da altrettanti registi: oltre a Coppola, Martin Scorsese e Woody Allen. Insomma, capitò per caso che Monicelli si facesse male in un incidente stradale e che fossimo costretti a rimandare la produzione italiana.
Così, volai a New York e firmai per fare il film con Coppola. I patti erano che in una settimana saremmo riusciti a girare tutto. Dovevo interpretare suo padre, musicista, che era stato il primo flauto del nostro grande Arturo Toscanini; l’impegno delle battute era una cosa da poco, quindi ero tranquillo. Quando arrivai a New York, tuttavia, mi salì la paura di non sapere recitare la parte che Coppola aveva pensato per me, quindi chiamai il mio amico Murray Abraham, una persona generosissima, e appena atterrato mi chiusi in albergo con lui, per farmi leggere tutto il copione da uno che aveva l’accento giusto, e il tono giusto per i dialoghi. Ecco, lui è uno bravo. È uno che mi incuriosisce. Un attore così lo puoi soltanto amare. Abraham, con il suo Oscar per Amadeus, è tra i miei attori preferiti al mondo. Una volta finita la preparazione, vado da Coppola. Ma invece che una settimana, mi tenne tre settimane. Una produzione enorme. Mai vista prima. Ricordo con piacere un aneddoto che riguarda i preparativi di quel film, ora lo racconto.