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Non ho amici giornalisti, non ho amici politici, non ho amici tra le persone che contano. Non ho mai frequentato questo tipo di persone. Non sono mai stato un raccomandato, e non ho mai avuto santi in paradiso. Forse la fortuna un po’ mi ha aiutato. Quando mi guardo allo specchio, mi dico che ho fatto bene così. L’indipendenza è stata una conquista formidabile. Così come la solitudine. E la libertà. Tutte componenti fondamentali delle mie giornate. Ho passato la vita a ragionare su come si fa il mestiere dell’attore, che poi è una cosa che nessuno sa davvero. È sempre stata una faccenda seria, per me, la professione. E tenere i piedi per terra è stato il primo passo.

 

Oggi sembra che la vita sia solo intrattenimento, forse perché la maggior parte della gente non ha più una vita propria. Invece, per me, la base su cui poggiare è sempre la stessa: le piccole cose, quelle più semplici. Un tempo, le storie che dovevo interpretare erano più complesse. La preparazione mi impegnava molto.

 

Oggi capisco subito. So quello che vogliono da me e glielo do. Facendogli credere che sia straordinario. Ma solo io so cosa sto facendo. Perché il cinema di oggi è questo. E vive una delle sue fasi di più profonda involuzione. Nella mia vita ho assistito al picco massimo: la fine della commedia all’italiana e lo splendore dei grandi registi. Ho lavorato con i migliori. E ora purtroppo non ci sono più. Sono loro che mi hanno fatto crescere continuamente, di giorno in giorno. Perché con il regista si crea una simbiosi che nessun altro rapporto umano può avere.

Nella mia vita sono sempre stati importanti i maestri. Quelli che hanno aperto le strade prima di te. Lo so che a volte nomino persone che alla gente di oggi non dicono più nulla, o al massimo rievocano un lontano passato. Ma è necessario avere sempre in mente i punti forti, i nomi di quei grandi che ti hanno suggerito un pensiero, una frase, un concetto che ti ha fatto crescere. Quelli che hanno creato un solco per terra, come a dire: ora, da questa parte ci sono io e chi vuole stare con me, dall’altra il resto del mondo. E quelli, sì, sono gli stessi che hanno messo molto in alto l’asticella da saltare, facendo in modo che tutti noi dovessimo guardarla lassù come riferimento. E non arrivi a certi livelli se dentro non hai qualcosa che gli altri non hanno.

Io ho fatto il cinema, quando era grandioso. E allora il lavoro dell’attore andava preso molto seriamente. La preparazione da secchioni era fondamentale, per riuscire ad avere una parte. Per ogni personaggio facevo un lavoro a sé: spezzavo il copione, creavo diagrammi sull’emotività. Una rappresentazione grafica. Così era immediato visualizzare nel divenire del tempo tutto ciò che avevo pensato del mio personaggio, una specie di elettrocardiogramma. Usavo molto i colori: ne assegnavo uno a ciascun personaggio e lo mettevo dentro una griglia. Così, per ogni scena, coglievo a colpo d’occhio chi era sul set con me: il verde alla sesta scena, il giallo alla terza e poi lo rincontro alla ventinovesima, e così via. Sono sempre stato attratto dalle dinamiche dell’interpretazione e dal suo sviluppo nel tempo. In platea, lo spettatore ogni dieci minuti si stanca, quindi devi continuamente dargli delle piccole scosse elettriche, devi continuamente riprenderlo con la tua capacità di farlo sentire nella storia in modo intrigante. Vengo dall’elettronica, ho fatto studi scientifici, la mia formazione è questa. Perciò la scienza, la matematica, i diagrammi, gli assi cartesiani rientrano in tutti i miei discorsi e nei miei lavori. Nella vita di tutti i giorni, insomma, io ragiono sempre come un perito elettronico.

 

Quando è iniziata la decadenza del cinema italiano? Cosa è successo? Quando ha iniziato a involvere, a regredire? Me lo sono chiesto per tanto tempo. Man mano che vivevo i vari decenni. Da solo, riflettevo e tiravo le mie conclusioni. L’arrivo del romanzo a fornire la trama ha fatto perdere subito la fantasia a molti sceneggiatori. La storia era già scritta, gli attori dovevano solo eseguire. Questi sono stati i primi sentori, i primi campanelli d’allarme. I capolavori di un tempo avevano alle spalle grandi registi, grandi sceneggiatori, grandi direttori della fotografia, grandi attori. E soprattutto grande coraggio. C’era il coraggio di raccontare qualcosa che non esisteva ancora. C’era il coraggio di creare personaggi. Anche macchiette, ma sempre di personaggi inventati si trattava. Il coraggio stava anche nell’abilità di buttarsi oltre. Oltre quello che già era stato prodotto. E di conseguenza il cinema era un continuo divenire di immagini nuove, di scene inedite, di proposte intelligenti.

Ma anche oggi ci sono dei nomi che apprezzo. Toni Servillo è un attore davvero incantevole. Ha la capacità di cambiare personaggio muovendo solo un sopracciglio, un vero mostro di bravura. E Paolo Sorrentino con La grande bellezza ha fatto un film realmente stimolante. Si vede che come regista butta sul tavolo idee nuove, e crea. Intorno ha molto, o ha poco, non lo sappiamo, ma è evidente che lui non si ferma. Va avanti, prosegue nel suo viaggio. E io salgo sempre volentieri a bordo, se è lui a darmi un passaggio e a guidare. È coraggioso, Sorrentino.

 

Tra gli attori americani, invece, Jack Nicholson è quello che metto in cima alla mia personale classifica degli ultimi trent’anni di cinema. È quello che mi incuriosisce di più, ancora oggi. L’ho doppiato tante volte, e c’erano giorni in cui tornavo a casa pensando e ripensando a come aveva interpretato alcune scene. C’erano volte in cui fermavo il doppiaggio perché mi incantavo a guardarlo, io come spettatore, dimenticandomi che ero lì per altro. Nicholson raggiunge livelli altissimi di recitazione. Ha una follia irraggiungibile. È forse meno bravo tecnicamente di altri, ma è il più imprevedibile. Uno che inizia la carriera facendo Easy Rider, e fa quei gesti, quelle facce, quei rumori, è una forza della natura. È la sua imprevedibilità, fuori dalle regole, che lo rende straordinario. Siamo alle solite: il difficile oggi è mettersi giacca e cravatta e vivere nella normalità – perché l’attore che indossa giacca e cravatta apparentemente ti fa vedere che vive come una persona qualunque, è questo il personaggio più difficile da far passare. Se poi eccedi e vai nella follia o nella stravaganza, allora puoi fregare il pubblico. Ma lo puoi fare una o due volte, poi devi trovare un equilibrio diverso. Jack Nicholson è semplice nel fare il suo personaggio, ma è la sua interpretazione che ti porta in un’altra dimensione. È come se lo dichiarasse: con me entri in un mondo parallelo.

 

Dustin Hoffman è mio amico e ogni tanto ci sentiamo. L’ultima volta siamo stati due ore al telefono a parlare di decadenza del cinema: mi ha parlato del problema della sceneggiatura, di come anche da loro adesso tutti ormai si accontentino di raccontare storielline. Le sue parole mi hanno fatto riflettere. Sull’involuzione del cinema, la pensa come me: i film tratti dai romanzi hanno spinto molti a prendersela comoda, anche se ci sono ancora persone come noi che vogliono sperimentare. Vogliamo creare. Dateci la possibilità di farlo. La fantasia da cui siamo pervasi ci rende irrequieti. Il coraggio. La capacità di andare oltre. La fantasia. Guardare una cosa e pensare agli squarci che ti apre. Oltre. Viaggi con la testa. Metafore. Immagini su immagini. Filosofia. Il tutto.

 

Tra gli attori del passato, anche Paul Newman mi faceva lo stesso effetto. Così come Gregory Peck. Gente che ho guardato e riguardato, per capire dove stava il loro segreto. Tutti uomini normali, mossi da qualcosa di interiore, che forse è difficile conoscere ma che si avverte fin da subito: andavano oltre la normalità della figura. Attori che ti accendono un fuoco dentro, che ti danno qualcosa che non avevi immaginato. La loro recitazione dona finalmente il piacere di pensare che oltre alla realtà, all’omologazione, c’è ben altro. E allora voliamo. Non ci deve bastare la realtà. Voliamo in alto, più che possiamo. Anche loro sono dei maestri da cui apprendere, perché ti fanno vedere questa magia e come praticamente può avvenire, lì, sullo schermo. Il loro lavoro è immediato: ti svelano il loro segreto, e tu lo capisci solo guardandoli.

Ci sono già loro che lo hanno fatto prima di noi. Hanno aperto una via, una nuova strada. Eccola, non fermiamoci all’istinto, o men che meno alle banalità. Con una buona struttura alla base, con una solida consistenza di fondo, c’è tutto un altro mondo da raggiungere.

 

Se devo scegliere il film più coraggioso che ho fatto dico Sessomatto. Ricordo che i critici avevano distrutto Film d’amore e d’anarchia, sbeffeggiando stupidamente il personaggio di Antonio Soffiantini detto Tunin. Restai fermo un anno, dopo quelle critiche: volevo addirittura smettere di fare questo mestiere. Ma come?! Non hanno capito ciò che ho fatto con tanto amore e con tanto coraggio? E come mai per me è tutto così chiaro?! Proprio per questo creammo una sfilza di personaggi farseschi, ciascuno protagonista di un episodio di Sessomatto. Ho affondato il coltello nella piaga, o muori o sopravvivi, ho messo alla prova me stesso: la farsa, il modo più bieco di fare l’attore. Domenico, Cesaretto, Enrico, Lello, Giansiro, il donatore di sperma, Michele Maccò, Saturnino, il dottor Bianchi. Tutte maschere, ognuna con un dialetto diverso. Passavo otto ore al giorno al trucco, e guardandomi allo specchio mi spaventavo.

 

La follia sta nell’aver pensato una cosa del genere. Ma il lavoro che c’è stato dietro è certosino, da monaco tibetano. Io sono sempre stato un artigiano della recitazione. Non ho mai improvvisato niente, ho sempre avuto una preparazione molto solida alle spalle. In un film come quello, in cui c’era da fare un personaggio la mattina, poi il pomeriggio cambio di trucco e vestiti, e via con altro, e la sera cambio, via con un altro ancora, ecco, be’, per fare Sessomatto dovevi avere dentro una carica, una molla, una dinamite, che ti motivava giorno dopo giorno. Fortunatamente il film andò benissimo, e fu per me la cura perfetta: potevo continuare a fare l’attore.

 

È per questo che la mia dinamite è sempre stata una sola: fare bene l’attore. Non ho mai fatto una parte tanto per farla. Non ho mai lasciato che la mia recitazione uscisse come usciva. No, mai. Come per un piatto di pasta, mangiato assaporando bene i sapori. Alla stessa maniera, la mia dedizione al lavoro è sempre stata questa. E ho sempre avuto grande stima per le persone a cui piace fare bene il proprio mestiere, come piace a me. Le mie origini me lo impongono. Quando ero piccolo tutti intorno a me lavoravano con orgoglio, con fatica, con totale coinvolgimento spirituale e fisico. La nonna in cucina, mio padre nei cavi sottomarini, i contadini liguri nei campi. Non importa se sei un attore o un pescatore. Per me conti alla stessa maniera.

Sono ancora un bambino
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