Trentotto
Alle tre e mezza erano davanti al portone della casa di Beppe Sacchi. Nervosi tutte e due.
Maledizione.
Gilardi si domandò se avesse fatto bene a chiederle di seguirlo. Ma Beppe Sacchi rivoleva sua moglie. Avrebbero parlato. Ormai il resto non lo riguardava più.
Premette il pulsante sulla pulsantiera esterna, soltanto per avvertirlo che era arrivato perché il portone era aperto. E salirono al terzo piano. Gilardi suonò il campanello: la porta esterna era socchiusa, quella interna, di legno con lo spioncino, era chiusa a chiave. Cercò di forzarla e suonò nuovamente. Al terzo tentativo, senza cercare una spiegazione, ridiscese e bussò al custode.
«L’ingegner Sacchi mi aspettava alle tre e mezzo, ho suonato ma non viene ad aprire. Sa se è uscito?»
«No… io non l’ho visto».
«Lei ha le chiavi di casa dell’ingegnere?»
«Sì, quelle di scorta». Le cercò sullo schedario appeso alla parete e gliele mise sul tavolo. «Quelle».
«No, mi scusi. Deve salire lei ad aprire. Le ha date a lei, queste chiavi, non a me».
«Ma devo lasciare la portineria…E poi io non posso aprire la porta».
«Sì, che può, se glielo chiede sua moglie. E che ci mette? Sale, apre e ridiscende».
Avendolo convinto, salirono insieme. Ma quando furono davanti alla porta, dopo aver riconosciuto la moglie con un’occhiata, il custode cominciò ad agitarsi brontolando. «Io ho la chiave esterna, non questa. La porta è aperta, è dentro che è chiusa. Doveva dirmelo. Ma non ha visto che ci sono le doppie porte, qui? Ma ha suonato?» E intanto si era attaccato al campanello. «Ha suonato?»
«Mi pare che lo stia facendo anche lei».
Cercò di forzare la maniglia e si accorse che era una porta vecchia, probabilmente anche con una serratura vecchia.
«Venga, spinga anche lei».
Non si chiese perché la porta fosse chiusa dall’interno: ora voleva entrare a ogni costo.
«Ma è matto? Vuole buttar giù la porta? Magari dorme… che cosa fa?»
Gilardi lo obbligò a spingere con forza contro la porta, era un uomo robusto con larghe spalle e braccia muscolose. Al terzo o quarto tentativo la porta cedette. Si ruppe il legno in una giuntura che consentì a Gilardi di introdurre la mano, facendosi male, e di recuperare la chiave che era nella serratura all’interno.
«Ecco, ha fatto un bel disastro… e adesso che cosa gli dico? Chi la paga?»
«Venga dentro con noi».
«Ma neanche… perché? Io che c’entro?»
«Entri, avanti». E lo spinse con forza oltre la porta.
Adriana Santini si appoggiò con le spalle al muro, era pallida. «Che cosa sta succedendo?»
«Non lo so». Chiamò Sacchi ad alta voce. «Beppe, dove sei?»
La donna iniziò a percorrere il corridoio che avevano di fronte, conosceva la casa. L’ultima porta a destra, in fondo, era lo studio di Beppe. Sulla porta si fermò: e cominciò a urlare.
«Noo… Noo…»
La raggiunsero insieme. Era rimasta sulla porta, le mani sugli occhi, la testa piegata in avanti. E urlava a bocca spalancata.
L’ultima stanza, a destra: il salotto-studio che conosceva. Oltre la porta a vetri la stanza era in penombra, con gli scuri chiusi e le tende tirate. Una radio da qualche parte gracchiava, come se non fosse sintonizzata su una stazione precisa.
E Beppe Sacchi era lì, in mezzo alla stanza, a un metro e mezzo da terra, appeso alla trave più alta del soffitto. Gli bastò toccargli la mano per capire che era morto da meno di un’ora.
«Morto? Ma perché?»
Troppo difficile da spiegare. Persino per lui, che ormai sapeva la verità.
«Misericordia» biascicò il portiere, facendosi il segno della croce. «Che facciamo?»
«Noi, niente. Chiamo la polizia».
«Perché?» Non si riferiva alla polizia, ma a quel gesto assurdo che l’aveva sconvolta.
«Inutile fare domande ai morti, Adriana: non rispondono». Erano arrivati in cucina e da una bottiglia presa nel frigorifero versò due dita d’acqua in un bicchiere. «Ne vuole anche lei?»
«No, grazie… io scendo se qui non servo… Io vado».
«Sì, certo. Preferirei che non ne parlasse prima dell’arrivo della polizia. Anche per riguardo verso gli altri inquilini».
«Dovere, dovere». Si portò due dita in croce sulle labbra. «Zitto, certo. Lei stia tranquillo». E fece un gesto verso di lei che poteva essere di condoglianze.
Intanto aveva chiamato Scalzi e in fretta gli aveva chiesto di salire. Poche parole, soltanto quelle indispensabili.
«Siamo qui, come d’accordo: l’hai ammazzato tu? Come, suicidio?» Gli sembrò una domanda inutile. «Tu non ti muovere. Avviso Viscardi e salgo. Aspettami lì».
Erano seduti in cucina. Lei tremava ancora. «È un suicidio, vero?» Conosceva la risposta. «Perché l’avrà fatto? Un gesto così assurdo… Non ci si ammazza più in quel modo, oggi tutti hanno una pistola. Anche lui. E impiccarsi mentre aspetta noi due… Ma perché? Scemo anche in questo, se voleva incolpare noi non doveva chiudere la porta interna…» Il mestiere che prevaleva sull’imbarazzo.
«Non voleva incolpare noi, non era così stupido. Ha voluto dirci qualcosa».
«A noi due?»
«A noi due».
«Ma tu che sospetti avevi? Non crederai che sia lui la bestia nera…»
«Non lo so. Ma era l’unico a sapere che quel giorno io ero in via Lerici, mi stava indicando la strada al cellulare».
Fece una smorfia. «Coincidenza».
«Probabile. Ma era uno dei pochi a conoscere il posto e l’ora in cui vado a correre nel parco. Quando eravate ancora insieme ogni tanto ci veniva con me. Una coincidenza anche questa? Inoltre hanno trovato terriccio e peli del cane che io ho ammazzato, nella sua macchina».
«Ti voleva morto?»
Gilardi tentò di sorridere. «No, ora lo sappiamo. Quella bestia non era addestrata a uccidere. Ma tutti quegli indizi diretti a me non erano casuali».
«La bestia nera?» Agitò le mani. «Voleva dirti… Assurdo. Beppe era un debole, un pusillanime. Non avrebbe mai agito da solo…»
«Con Cuotolo, lui non c’entrava niente, ma tutto quel chiasso della stampa intorno a me e al mio cane gli ha dato l’idea. In porto lui era un dirigente di un’assicurazione, ma conosceva i retroscena, e ne ha approfittato. Gli hanno dato due cani che non avrebbero fatto male a nessuno… da quello che ho cominciato a capire… La polizia ci sta lavorando».
«E io non ne so niente?»
«Ci stanno lavorando. Anzi, prima che arrivino vado a vedere se ti ha lasciato una lettera».
Tornò nello studio. Quel corpo in mezzo alla stanza. Una scaletta, di quelle pieghevoli a tre gradini, rovesciata da un lato.
La casa era vecchia e i soffitti ancora alti, con le travi di legno imbiancate. Aveva scelto al centro la più alta. La corda sembrava di quelle robuste con cui si legano le boe in mare. Lo stupì il vestito di grisaglia come se fosse pronto a uscire o a ricevere, appunto, sua moglie e un amico. Aveva allentato il colletto della camicia, ma aveva la cravatta. Rossa, forse a piccoli disegni che non riusciva a distinguere.
Mentre osservava questi particolari stava guardandosi attorno per rendersi conto della situazione. Sul tavolino accanto alle poltrone tre bicchieri e una bottiglia di whiskey. Nessuna lettera.
Usando un fazzoletto spostò e rimise a posto alcuni oggetti che erano su un tavolo davanti alla finestra. Un’agenda, carte e cartellette. Un mazzo di chiavi. Un computer. Due paia di occhiali.
Sembravano messi in quell’ordine perché fossero esaminati in quell’ordine. Da chi?
Tornò a guardare il tavolino accanto alla poltrona: una fotografia incorniciata di sua moglie, la bottiglia e tre bicchieri. Il costosissimo puro malto di dodici anni.
Girò la testa per dare un’altra occhiata all’ambiente e studiare la situazione, stupito di quell’ordine meticoloso, persino maniacale.
Li aspettava.
Li aspettava insieme, sua moglie e l’amico di scuola, il rivale delle gare di nuoto. Quello più alto e più bello di lui. Il campione.
Li aveva voluti testimoni di un gesto di qualcosa che avrebbe voluto dire a entrambi, nei rispettivi ruoli. Un avvocato e un pubblico ministero del tribunale di Napoli che era anche sua moglie. Una donna che probabilmente, in modo sbagliato, aveva persino amato.
Li aveva voluti insieme, testimoni di un gesto che aveva, per ciascuno, un significato diverso.
Chi era veramente Beppe Sacchi, l’elegante manager conteso nei migliori salotti napoletani? L’amministratore delegato di una delle più importanti società di assicurazioni del mondo, che gestiva i rapporti internazionali anche nel porto di Napoli? L’individuo che con quel gesto assurdo li aveva messi entrambi in serio pericolo, ora che la bestia nera, chiunque fosse, sapeva che loro conoscevano la verità?
Chi era Beppe Sacchi?
Ritornò verso il tavolino, si accorse che era intarsiato con legni chiari e scuri, e di bella fattura. Lo sfiorò con la mano. E tra i bicchieri, all’improvviso, vide qualcosa che subito non aveva notato.
Abbassò la testa e strinse le labbra. La sua mano ora stava tremando.
Tra i bicchieri, e in modo che risaltasse sul fiorame più chiaro del ripiano, una maschera nera.
La sollevò con due dita e se la fece scivolare in tasca.