Diciassette

Mentre guidava, Giacomo si fece raccontare la telefonata.

«Ci capisci qualcosa? C’è un legame con la sentenza di dieci anni fa?»

«Direi di no, ma non mi sento di trascurare questa pista, ha ragione Gilardi».

«E quando mai non ha ragione, quello?»

«Già, quando mai? ‘In prigione si sentono molte cose’, forse qualcosa che riguarda quel tale, quel Cuotolo… se Galasso vuole vederci è perché ha qualcosa da raccontare. Starlo a sentire costa poco. Proviamoci».

Aveva parcheggiato la macchina sul bordo della strada, una strada di campagna tutta buche e polvere. Tra i sassi e le rocce dei bordi spuntavano il verde e il rosso di cespugli polverosi che resistevano a qualunque condizione climatica. Riconobbe il posto. I tre gradini di pietra che dal bordo della strada conducevano a un piano di cemento sotto il berceau di legni e rami. Il tavolo, lo stesso tavolo di allora, le due panche ai lati. Una sedia a capotavola. Dirimpetto la porta di legno verde, un po’ scorticata, che si apriva verso la casa. Davanti a quel muro sberciato che in qualche punto mostrava le pietre con cui era stato costruito, come se ci fosse rimasta da sempre, una vecchia. Con il capo grigio e scoperto, gli occhi chiusi, le labbra aperte nella fatica del respiro. Le mani incrociate sul grembiule di lanetta a quadri grigi e verdi.

Al loro saluto non aprì gli occhi. Non rispose. Ma la porta si aprì e apparve una donna piccola e robusta di seno e di fianchi, con gli occhi scuri sotto le sopracciglia ben disegnate, i capelli corvini raccolti alla nuca. Le calze grosse arrotolate al polpaccio e i piedi infilati in zoccoli di legno e cuoio.

«Chi siete e che volete?» Senza un sorriso, ma con un forte accento napoletano.

«Ci aspetta Salvatore Galasso, è qui, vero?»

«Sì, lo chiamo. Mettetevi comodi, ora arriva».

Prima di sedersi sulla panca opposta a quella che aveva scelto Ricky, Giacomo si chinò verso la donna che ora aveva mosso la testa. «Come sta? Si ricorda di me?»

Un segno della croce rapido e approssimativo. Bisbigliò qualcosa che sapeva di Madonna. Aveva aperto gli occhi, chiari, acquosi, immobili.

«Voi siete?»

«Sì, sono io, si ricorda?»

«Non si ricorda più di niente» disse la donna, che era tornata sulla porta. «La malattia… non ci ha più la testa. Ma sedevi, avanti. Che ora Salvatore arriva subito…»

Ed era arrivato. Come se lo ricordava, con le braccia muscolose istoriate dai tatuaggi, il petto forte sotto la maglietta sottile, il mento molle, i capelli lunghi raccolti sulla nuca con un elastico. Il viso aveva soltanto dieci anni di più, ma era ancora riconoscibile.

Si fermò a capo del tavolo e li guardò, prima uno e poi l’altro. Prima Ricky, e scosse la testa. Poi Giacomo, e fece di sì.

«Di lei mi ricordo, ma l’avvocato era alto, molto alto… non è questo».

«No, infatti. Sono l’avvocato Riccardo Russo, socio nello studio dell’avvocato Gilardi. Che in questo momento è occupato in tribunale e ha chiesto a me… all’epoca del processo io ero già in studio. Forse se ne ricorda».

Galasso si sedette e fece di sì con la testa, appoggiando il mento al petto nudo che usciva dalla scollatura della maglia. «Comunque io volevo parlare con quell’avvocato lungo e sempre muto… Quello una cosa l’ha detta, allora, e poi l’ha fatta. Uomo leale. Ha promesso che avrebbe fatto dare una pensione e dei soldi a mia madre per la morte di mio padre, e l’ha fatto. Io queste cose non le dimentico. È stato leale con un delinquente. Uno come ero io all’epoca, senza testa. Mia madre ha avuto il rimborso e la pensione, che basta a lei, finché vivrà, ed è bastata a me per sposarmi e avere un figlio. Mia moglie l’avete vista». Alzò la testa, come un gallo che fa chicchiricchì. Invece chiamò, forte: «Amalia! Il caffè…» E a loro: «Ora arriva». Guardò Cataldo. «Lei quel giorno c’era…»

«Sì, sono un investigatore e lavoro spesso con Gilardi e il suo studio. Quel giorno c’ero, per questo oggi sono tornato. Che cos’hai da dirci?»

«Piano, che fretta avete? Ora ci beviamo il caffè, e poi vi dico perché ho detto a quell’avvocato Giardino che volevo parlarvi. Ma prima il caffè».

«Che cosa ti sembra, a essere fuori?»

«’Na benedizione. E se non avessi avuto mia madre, prima che si riducesse in quel modo, e Amalia l’avete vista, sarebbe stata dura. Non sai di chi fidarti, non sai chi sono e che cosa vogliono da te. Ma questo è sacrosanto: tutti, ma proprio tutti, vogliono qualcosa. Soldi, cibo, le mutande pulite, che giuri il falso, che li ascolti… Misericordia…» e abbassò la voce, «e tutto per una donna che non valeva niente. L’ha ammazzato lei, e mi giurava di no, che lo voleva vivo… magari s’è presa pure colpe che non aveva. È ricca, lo sapevate? Il marito suo le ha lasciato tutto, casa, fabbrica, soldi… in cambio del divorzio. Lo sapevate?»

«No. Ma avrà modo di pensarci».

«Forse, ma di pentirsi, no. Mai. Quella non è femmina che si pente».

Era tornata Amalia con le tazzine, la caffettiera e un piattino di biscotti. «Statevi seduti, ’o cafè l’ho fatto ora. Qua ci sta lo zucchero».

«Ora vai, che devo parlare».

«E tua madre?»

«Lasciala, che ci capisce? Lasciala».

«Allora vado all’asilo a prendere il bambino».

«E vai, sì…» La guardò allontanarsi e fece di sì con la testa, come se seguisse un pensiero che non avrebbe espresso. Sorseggiò rumorosamente il caffè, con soddisfazione. Sembrava contento. E forse lo era davvero.

«Adesso dicci perché siamo qui».

«Sì… aspettate». Prese le tazzine e i biscotti e reggendoli con le due mani li portò dentro. Si sentì un rumore di cocci che sbattevano, probabilmente le tazzine nell’acquaio, uno scroscio d’acqua. Poi silenzio.

E Salvatore riapparve sulla porta, si era infilato un golf di lana grigia.

Quando si rimise a sedere fu chiaro a tutti che ora avrebbe parlato.

«In galera noi avevamo la tv. Anche una radio. Il mio compagno di cella, l’ultimo, perché quello prima mi ha picchiato e l’hanno cambiato di cella. Un violento maledetto che mi ha rotto il naso». E lo mostrò, di faccia e di profilo, sperando che si notasse. Voleva essere creduto in tutto quello che diceva. «Il mio ultimo compagno di cella riceveva un giornale e lo leggevamo tutti e due, da cima a fondo. Poi discutevamo. Finalmente riuscivo a parlare. Ed è lì, tra una cosa e l’altra, che ho letto della bestia nera».

«Ormai è roba vecchia».

«Ma che cosa dice? Vecchia? Quella storia non è neanche cominciata, che sta a dire? Io ho letto un sacco di cazzate, su quei giornali. Il cane dell’avvocato… questo hanno scritto».

«Ma poi l’hanno smentito. Hanno confrontato le impronte dentali ed è evidente che si tratta di un cane più grosso e più giovane. Notizia superata».

«Sì… L’hanno detto, che era il cane di quell’avvocato che era stato qui. Hanno detto e scritto che il cane era la bestia nera, perché era nero. Ne hanno scritte di balle… ma lo sapete chi era quel Pasquale Cuotolo? No?» Aspettò a rispondere alla propria domanda, godendosi l’effetto che aveva fatto sui due uomini che sedevano, uno di qua e l’altro dalla parte opposta, al tavolo di casa sua. «Lo sapete? Era quello che aveva preso il mio posto. Lo so di sicuro che quella notte che sono arrivate le guardie al porto è stato lui a fare la spia. Voleva sbarazzarsi di noi. Ci hanno trovato con le mani nel sacco, sono stato preso per quello. Poi è saltata fuori la storia di Rosina Santacroce e tutto il resto. Ma io sono stato preso per i miei traffici al porto. Trasporti irregolari, merce rubata, contrabbando di stupefacenti e di materiali preziosi per la meccanica di precisione. Io ero il capo. Ero bravo e mi rispettavano tutti. Ho sempre diviso con gli altri. Poi è arrivato lui, mi ha fatto le scarpe e anche il cappotto. In galera ho saputo che ci ha venduti… polizia, sequestro, galera… Poi mi hanno detto che era diventato un capo. Pareva bravo, forse troppo…»

«Faceva il suo stesso lavoro?»

«Sì, così dicevano. Il mio lavoro ma più in grande. Lui era più protetto. In questi anni si è arricchito. Non divideva con nessuno, rispondeva a uno solo. Un capo che nessuno di noi ha mai visto. Nessuno sa che faccia e che nome abbia. Quell’uomo, se uomo è, è la bestia nera».

«Un uomo? Ma che stai a dire? L’hanno visto, quel cane, mentre azzannava il Cuotolo».

Salvatore guardò prima uno e poi l’altro, con un sorrisetto a labbra strette. Soddisfatto di averli sorpresi.

«Hai detto che la bestia nera è un uomo? E come lo sai?»

«Noi lo chiamavamo così. Nessuno sa chi sia, ma è quello che comanda al porto».

«Ma che mestiere fa?»

«Ti para il didietro o ti manda ai pescecani. Alcuni li ha ammazzati, quando sgarravano. Altri li ha lasciati andare in galera, come me, sapendo che non avrei parlato. Per mia madre. Ora per mia moglie e mio figlio. Ma è una lurida bestia, che cosa posso dire che non so neppure se è vivo?»

«Ma sai che è un uomo».

«O una donna, che ne posso sapere. Arrivava un capetto con le istruzioni: ‘la bestia nera ha detto che dobbiamo montare stanotte…’ e noi montavamo. ‘Dobbiamo fare il cambio al largo’ e anche se c’era tempesta andavamo in barca a morire. La bestia nera è il padrone del porto. Per questo quel Cuotolo è morto azzannato. Aveva tirato la corda, aveva rubato troppo, s’è condannato da solo. La bestia nera ha fatto giustizia, e non è stata la prima volta, ma non se n’è accorto mai nessuno. ’Na disgrazia… e tutti muti. Andate al porto…»

«Non sai di dove fosse, se napoletano o se veniva da fuori?»

«No, non so niente più di quello che vi ho detto. E ve l’ho detto per quell’avvocato lungo che ci ha fatto vivere in pace. Ora cercherò un lavoro, non più al porto…»

«Se racconti queste cose alla polizia, potresti tornare al porto e tenere gli occhi aperti».

«E avere la bara pronta. Voi credete che lui non sappia che stiamo parlando? Lui sa tutto. Anche quando mi cambio le mutande, sa. No, mi dispiace. L’ho detto a voi, perché non dovete fermarvi a cercare un cane…»

«Però è stato un cane nero che ha azzannato il Cuotolo e quella bambina».

«Lo so, m’è venuto male, ho un figlio anch’io, accidenti. Devo starci attento. Parlando con voi metto in pericolo lui. Spero che Gesù Cristo faccia crepare prima quell’altro, accidenti a lui».

«La polizia può proteggerti».

«Ma per i santissimi! Mi ci manca la polizia che mi protegge… basta, vi ho detto quello che so. La bestia nera è il padrone del porto di Napoli. Sfrutta un gruppo di disperati, chi si arricchisce troppo viene ammazzato. E io ora sono in pericolo, ve ne rendete conto? Voi avete saputo di Cuotolo, perché ve l’ha ammazzato sotto gli occhi. Ma non è stato l’unico, solo che non ve ne siete mai accorti. Non è stato l’unico, quello. Uno così è morto quando io ero ancora in porto, l’hanno fatto sparire in mare».

«Azzannato da un cane?»

«Sì, azzannato da un cane nero. E poi l’hanno fatto sparire in mare. E non è stato l’unico. Ma la polizia che fa?»

«Quello che può, se tutti stanno muti. Ma quel cane non può essere lo stesso cane nero che ha azzannato Cuotolo, questo è giovane e quello dovrebbe avere invece più di dieci anni».

«Che per un cane non sono tanti. Il mio è morto a sedici anni».

«Un cane nero pure tu?»

Salvatore rise, gettando indietro la testa. Non per allegria, era teso, gli tremavano le mani. «Un bastardino rosso e bianco che non azzannava manco i topi».

«Quindi, secondo te…»

«No, non secondo me. Non secondo me. Al porto non ve lo dirà nessuno ma è quello che sanno tutti. La bestia nera li comanda e li mantiene. I soldi vanno a lui. Anche per questo il Cuotolo è morto, aveva rubato alla bestia nera. Era pazzo, quello. S’era comprato la moto, tutti quei soldi che hanno rubato alla sorella…»

«La bestia nera può aver ucciso anche la sorella per riprendersi i soldi?»

«Per quel che so, direi di no. Non si sporca le mani uno come lui. Ha incaricato qualcuno. Noi rubavamo e spacciavamo perché lui si arricchisse e ci desse da vivere. Questa è la bestia nera».

«La bambina?»

«Quella del parco? Non ci posso pensare, avrebbe potuto essere mio figlio… statevi zitti, per l’amor del cielo. Io qui vi dico e qui chiudo. Non immaginate di portarmi in tribunale o in questura. Negherò tutto, capito? Ho un figlio, non potete farmi questo. La bestia nera non perdona nessuno».

Ricky aprì le mani sul tavolo. «Non abbiamo microfoni, non siamo incoscienti. La tua testimonianza non ci serve. Invece ora sappiamo una cosa importante: esiste un criminale dietro quel cane addestrato a uccidere, che ha una ragione per uccidere. Ora dobbiamo cercarla». Si alzò. «Grazie, ci lavoreremo». E controvoglia gli tese la mano. «Saluti sua moglie, anche da parte dell’avvocato Gilardi».

«Gli dicesse di stare accorto, perché così lungo è preda facile. E sento puzza di bruciato, troppo vicino… capisce quel che dico? Troppo vicino».

«Grazie, lasci questo lavoro a noi. È roba nostra. Lei pensi a suo figlio».

Quando risalirono in macchina, Ricky si passò il fazzoletto sulla fronte. «Ci credi se ti dico di essere sudato? Ma ti rendi conto? La bestia nera è un assassino che si arricchisce al porto sulla vita di questi poveri diavoli».

«Perché? Ti eri persuaso che ’sta bestia nera, il cane, agisse da solo? Certo che c’è dietro uno, ma ora abbiamo un doppio rebus: chi è, e perché Gilardi».

«Gilardi, dici?»

«Gilardi. Non crederai anche tu che sia stato un caso. Non ci crede neppure lui. Ora dobbiamo cercare se c’è un filo che unisce Cuotolo e la famiglia Migliorini».

«Ma no» lo interruppe Ricky. «Max è convinto che quella bestia, al parco, cercava lui».

«Beh, che non faccia l’eroe, intanto ha azzannato la bambina e lui era a due passi. Cerchiamo di convincerlo a stare attento mentre scopriamo dove vengono allevati e addestrati questi cani e chi è questo assassino che non si sporca le mani. Questi due morti sono collegati, non sono casuali».

«Ma a te chi te lo dice?»

«Logica da investigatore».

«Vuoi dire?»

«Quello che hai capito: abbiamo un killer in libertà e Gilardi in pericolo. E adesso a quello chi lo tiene?»