Tre

In cortile Scalzi mostrò a Silvia Izzo il punto in cui avevano trovato il corpo di quel Pasquale e le rifece il racconto di Marta.

«Povera piccina, chissà che spavento s’è presa».

«È stata brava». La Izzo era abbastanza alta, gli arrivava sopra la spalla. I jeans attillati e la blusetta di cotone con lo scollo rotondo che lasciava intuire un seno piccolo e ben proporzionato.

Capì che Silvia si era accorta del suo sguardo. Impacciato le sorrise. «Lei è giovane per avere una figlia di sedici anni».

«L’ho avuta a diciassette. Quegli sbagli che paghi per tutta la vita. Ci sono rimasta subito. Però l’ho voluta. Lui s’è spaventato e se n’è andato, non so nemmeno dove. A me è rimasta lei, l’ho cresciuta così, lavorando tutto il giorno, a volte anche la notte. Ma non la lascio sola, va da una che abita qui vicino, le do qualcosa e me la tiene. Ora ha finito le scuole e il padrone, un sant’uomo, la prende al lavoro. Avremo due stipendi… insomma, andrà meglio, tanto studiare non serve».

«A me è servito».

«Certo, lei è ispettore». Fece una breve pausa. «Sposato?»

«No, non è mai successo. Con questo lavoro è difficile».

«È difficile sempre».

Erano arrivati al terzo piano, l’ultimo. «Ora si prende quella scala lì». Una scala ripida, di legno, che arrivava al piano di sopra, con il corrimano fissato alla parete. «Pensi se quella donna può fare questa scala. E salire è niente» aggiunse con il respiro affannato. «Vedrà a scendere…» Ora ansimava, la scala era davvero ripida, i gradini alti. «La porta è quella. È aperta, strano. Di solito si chiude dentro». Un gran respiro e sorrise. «Bella scala, eh? Vedo che pure lei ha il fiatone».

Scalzi spinse la porta che si aprì scricchiolando sui cardini, segnando un semicerchio sulla polvere in terra.

«Si può? Sono Silvia… Giuseppina, possiamo entrare?»

Era seduta su una sedia di paglia, come quelle che ci sono ancora in alcune osterie: legno e paglia grezza. Bassa, tozza, con la spalliera a doghe alte e curve. Bassa e tozza pure lei, la donna. Spettinata, lo sguardo vacuo, la bocca aperta come se avesse appena finito di parlare. I capelli scomposti le ricadevano a ciocche sulla fronte.

«Che volete?»

«Giuseppina, sono Silvia. Questo signore è un ispettore di polizia…»

«E che vorrebbe da me la polizia? Andate via».

«No, Giuseppina. Dobbiamo parlarle… stia a sentire».

«Niente, devo sentire. Sto aspettando a mio fratello, magari viene».

La donna alzò una spalla e con la mano fece un gesto ampio che forse voleva significare che potevano accomodarsi. Lei indossava ancora un indumento che avrebbe potuto essere classificato come camicia da notte, aveva anche qualche ricamino in filo azzurro sopra il petto.

«Embè? Che cosa vulite da me?»

«Lei aspettava suo fratello, oggi?»

«E a lei che c’interessa?»

«Giuseppina, questo signore è un ispettore di polizia, l’hanno chiamato perché…» s’interruppe e guardò Scalzi: come faceva a dirglielo?

«Suo fratello ha avuto un incidente» concluse Scalzi.

«E dove? Che incidente? M’ha detto che mi lasciava la busta… che incidente?»

«Ecco, questa è la busta, l’ha lasciata nella cassetta». Depose la busta sul tavolino accostato al muro sotto le due finestrelle con le doppie sbarre di ferro. «Questa… Ma Pasquale ha avuto un incidente grave».

«Morto?»

«Purtroppo sì, mi dispiace».

«E di che cosa è morto, ch’era forte come ’no diavolo. Morto?»

«Sì, mi dispiace».

«Non è vero, non è possibile». Il tono di voce si era alzato e la faccia le si era fatta paonazza. «Dove è morto?»

«In cortile, qua sotto. L’ha morso un cane».

«Un cane?» Guardò prima una e poi l’altro, come se volesse accertarsi d’aver capito bene. «Un cane? Come fa un cane a uccidere un uomo come mio fratello? Ma l’avete mai visto? Un pezzo d’uomo, mio fratello. Il cane sarebbe morto. Il cane… ma è vero? Morto è? Morto ammazzato da un cane?»

«Così sembra, ma ora lo hanno portato all’obitorio e ne sapremo di più domani. Lei dovrà venire per il riconoscimento».

«Che devo riconoscere, se dite che è Pasquale? Se dite che è lui, allora è lui».

«Ci vuole un riconoscimento ufficiale. Lei è la sorella».

«L’accompagno io, Giuseppina. Quando dobbiamo andare, l’accompagno io».

«Grazie, sa… se non fosse per ’ste due ragazze sarei io morta e sepolta. Andremo all’obitorio per questo mio fratello». Sembrava tornata ragionevole.

«Aveva altri parenti? Una moglie, figli…»

«Ma di chi sta parlando? Pasquale era scapolo, solo e felice. Aveva sua sorella» disse con orgoglio, battendosi il petto. «Sua sorella, cioè me».

«Le dava molti soldi, perché vive qui?»

«I soldi erano suoi. Io li tenevo ma non li dovevo usare. Lui veniva, li prendeva, ne portava… che ne posso sapere? A me dava da vivere. E qui sto bene, qui i cani non m’ammazzano».

«Ha bisogno di qualcosa? Ha mangiato?»

«Sì, stia tranquilla. Domattina vado a fare la spesa, se la sua Marta mi accompagnasse… per i pesi».

«Certo, glielo dico».

«Poi le regalo qualcosa, stia sicura».

«Ma no, non importa. Basta un gelatino, se proprio vuole disturbarsi».

«No… ci penso io. Domattina, glielo dica. E lei? Quando sarà questo riconoscimento?»

«Non dipende da me, glielo farò sapere». Guardò Silvia, come se fossero d’accordo. «Lo comunico alla signora Silvia, va bene?»

«Che bene può essere. Mi hanno ammazzato il fratello. E sono rimasta io, che non conto niente». Con la mano gli fece cenno d’andare: il colloquio era terminato.

Ridiscesero uno dietro l’altro, di schiena. Come i marinai, aveva detto Silvia.

In cortile si fermarono a commentare quella donna e quella casa. «Ma come ci vive in quella soffitta? E mi stupisco del padrone di casa, ’na vergogna».

«Forse lei ci sta bene davvero, ma non mi sembra tanto giusta di testa».

«A volte sì e a volte no… ma è una che non deve essere nata così. Mi dà l’idea di aver avuto una vita diversa. Non pare anche a lei?»

«Sì, è strana. Le par possibile? Le è morto un fratello a quel modo e lei pensa alla spesa… Ma ora la lascio andare, grazie. Si chiuda bene dentro, ha capito? Stanotte farò fare un paio di ronde da queste parti».

«Sì, ma adesso venga dentro, le devo dare il telefono se mi vuole avvertire per l’obitorio».

Trovarono Marta sul divano davanti alla televisione accesa. «S’è strappata i capelli?»

«Ma finiscila. Domattina andate a fare la spesa insieme, ti chiama lei».

«Sai che divertimento!»

«Ecco, ispettore. Questo è il mio cellulare: quando siete pronti mi chiama e io chiedo il permesso. Ce l’accompagno io, povera donna».

Scalzi le porse il suo biglietto. «Questo è il mio, d’emergenza. Per qualunque cosa, chiami. Ha capito?»

«Certo, ma questa è ’na zona tranquilla, tutto sommato. Più avanti, verso Zurla, lì sì che ci sono gli accampamenti. Lì non ci starei. Ma lei non è di Napoli, vero?»

«No, del lago d’Iseo…»

Silvia si rivolse alla figlia. «Hiii, tu che hai studiato: dove si trova ’sto lago?»

«È al nord. Su, verso le montagne».

«Non proprio, ma quasi: tra Brescia e Bergamo». Stavano ridendo.

«M’ha detto che non è sposato, ha qualcuno che l’aspetta a casa?» Scalzi disse di no. «Allora, perché non si ferma con noi a cena? Un bel minestrone con la pasta fresca. Così ci dice dov’è ’sto lago… com’ha detto? Iseo? Lago d’Iseo…»

Quando rideva era persino bella.