Trentasette

Mentre usciva di casa vide che si era acceso il suo cellulare privato. Non riconobbe il numero. «Gilardi».

«Ciao, sono Beppe…»

«Ehi, guarito? Come stai?»

«Bene… sono ancora a casa. Ti interessa qualcosa su quel Cuotolo che mi avevi chiesto?»

«No, ora la faccenda è tutta in mano alla polizia».

«La polizia?» Gli sembrò perplesso.

«Sì, hanno trovato i cani… Credo che siano a buon punto su tutta la faccenda del porto e della bestia nera».

«La bestia nera?»

«Sì, scusa: non lo devo dire proprio a te…»

«Non ne so niente. Che c’entra la polizia? Al porto è tutto tranquillo».

«Beppe, che ne so?»

«Sì, certo… Ma ti va di venire da me oggi? Ho due cose da mostrarti che invece potrebbero interessare te».

«Brutta giornata. Fammi vedere». Dalla tasca interna prese il tablet dove in studio gli segnavano gli impegni della giornata e lo fece scorrere. «Alle tre e mezza va bene, ma non potrò fermarmi molto».

«Faremo presto. Ti farò assaggiare un puro malto di dodici anni».

«Alle tre e mezza del pomeriggio? Mi vuoi male. Ciao…» E chiuse la comunicazione stringendo i pugni.

«Tie’» soffiò tra i denti.

Brutta giornata. Una convocazione dal giudice che non voleva accettare la sua linea di difesa e l’elenco dei testimoni a discarico di un cliente accusato di truffa aggravata ai danni della pubblica amministrazione.

Passare da suo padre che si era ammalato e testardamente rifiutava di andare in ospedale, e bisognava convincerlo.

Olga gli mancava. Era sollevato al pensiero di saperla con i bambini e con Paola al podere. L’avrebbe chiamata.

In studio per firmare gli atti relativi a…

Erano quasi le due e mezza, e stava percorrendo il lungo corridoio del tribunale dopo la seduta con il giudice Valerio. Accese il cellulare.

Giacomo, tre chiamate.

«Allora?»

«Ti sto chiamando da un po’, dove ti sei cacciato?»

«Dal giudice, avevo il cellulare spento. Dimmi».

«Accidenti, avevi ragione. Dalle gomme della macchina, ma soprattutto dai tappetini interni. La macchina era aperta».

«E…»

«Sì, accidenti. Stesso terriccio. Ma come t’è venuta questa idea?»

«Mi ha aiutato quel Galasso».

«Visto?»

«No, non la storia… Ma tutta quella messinscena. Un teatrino. Voleva dirci qualcosa, soprattutto voleva dirla a me. E io non l’ho capito subito. Avverti Scalzi».

«Non basto io?»

«Non ci pensare proprio… fai quello che ti ho chiesto. È tutto chiaro?»

«Sì, ma tu stai attento».

«Certo. Lui è potente, ma io conosco il suo tallone d’Achille».

«Veh, m’arraccomando, hai capito?»

«Tranquillo, ciao…»

Bussò lievemente alla porta di Adriana Santini sicuro che fosse già uscita. Invece, sgarbatamente, gli rispose di entrare.

«Ah, scusa: sei tu? Che ci fai qui a quest’ora?»

«Dal giudice, sono distrutto. Andiamo a mangiarci un toast da Michelino? Sono solo. Poi ti devo dire una cosa». Mentre mangiavano il toast, tra i migliori toast di Napoli con birra chiara alla spina, Max le raccontò la telefonata di Beppe. «Mi aspetta alle tre e mezza. Mi imbarazza immaginare che sia geloso di me per qualcosa che non è mai esistita». La guardò, aspettandosi una reazione negativa. Invece la sentì ridere.

«Lo strano di tutta questa faccenda è che ha telefonato anche a me. Aspetta anche me alle tre e mezza per alcuni documenti importanti che devo firmare».

«Ti ha detto che mi aspettava?»

«No, neanche una parola. Ma è matto?»

«Ci vuole insieme».

«E da me che cosa vuole?»

«Forse ha bisogno che tu gli dia una mano».

«Che me lo rimetta in casa? Sei pazzo. Vengo con te se tu mi aiuti a fargli capire che deve lasciarmi in pace. Ho dovuto cambiare cellulari, telefoni, segreterie… un assedio. Sì, vengo con te se mi dai una mano a farlo ragionare. Sei un avvocato, no? E lui è pazzo. Eppure per un po’ è stato un buon matrimonio, accidenti. Ne ero innamorata…»

«Prova a ricordarti com’era».

«No, Gilardi. Mi ricordo soltanto il male che m’ha fatto ora. E quanto mi ha delusa. E quanto mi ha mortificata. Basta. Vengo con te e tu per favore mi aiuti a fargli capire che la nostra è una storia finita. Non ho più spazio per ricominciare. Mai più con lui!»