Trenta

Gilardi uscì in strada con Dick al guinzaglio per il solito giretto dietro casa dove avrebbe potuto lasciarlo andare perché c’erano due aiuole intorno al monumento a Cesare Augusto.

A causa dell’ora legale era ancora chiaro, e il tramonto rosso fuoco in fondo al viale gli fece tornare alla mente, e gli sembrò appropriata, la poesia di Quasimodo che un giorno Lilli, la sua prima ragazza del liceo, gli aveva scritto su un libro che le aveva prestato:

Ognuno sta solo sul cuor della terra

trafitto da un raggio di sole

ed è subito sera.

L’aveva firmata con un cuore rosso.

Provava una grande tenerezza per i suoi ricordi di scuola. Dopo, la vita l’aveva cambiato. Aveva ristretto il cerchio dei suoi sentimenti. Quando ti senti responsabile delle persone che ami, sai che non ami più allo stesso modo.

Questo stava pensando quando l’uomo gli arrivò di fronte senza che avesse potuto vedere da che parte fosse arrivato. Piccolo, tozzo, chiuso in un impermeabile che gli stava stretto, pochi capelli grigi lisciati sulla cute lucida, gli occhiali sfumati che tuttavia non nascondevano due occhietti chiari e mobilissimi. Gli stava sorridendo.

«Questo è il vostro cane?» Gilardi abbassò la testa e non rispose. «Avvocato, facciamo presto. Io vi faccio una domanda e voi mi date una risposta: io crederò a voi, che siete persona onesta, e voi crederete ammè, perché vi conviene. Ci facciamo?»

«E la domanda?»

«La signorina che lavora da voi, sapeva che il ragazzo aveva ammazzato la donna e preso i soldi?»

«Sapeva che lui lavorava e che volevano sposarsi».

«Questo è?»

«Questo è». Gli sembrava di giocare a guardie e ladri.

«Allora dite alla ragazza che stasse tranquilla. Ho la vostra parola, e io ci credo. Ne rispondo io». Con una mano sul petto, come un giuramento. «I miei rispetti, avvocato».

Gilardi non lo seguì con lo sguardo, non voleva sapere se era solo o dove stesse andando. Aveva capito il messaggio: sapevano che Aurora era all’oscuro delle presunte trame di Giovanni Ricci e non le avrebbero torto un capello. Anche a loro conveniva che le acque si acquietassero. E capì un’altra cosa: questi che avevano ammazzato Giuseppina Cuotolo e il ragazzo non erano gli stessi che avevano ammazzato il Cuotolo e attentato a lui.

Andiamo bene, pensò. La faccenda si allarga.

Quando telefonò a Laura, sapendo che Aurora si era fermata ancora da lei perché aveva paura, le disse di quell’incontro.

«Possiamo fidarci?»

«Niente vale di più della parola di un mascalzone che ha paura».

«E questi hanno paura, secondo lei?»

«Non sanno chi hanno di fronte, non sono gli stessi che hanno ammazzato il Cuotolo».

«Andiamo bene. Quindi posso dirlo a Aurora? Che può tornare a casa?»

«Sì, sono sicuro che ora hanno più paura di lei».

«Grazie. Poi attaccheranno i giornali…»

«Ho passato la notizia a Gigi Selva, domani ci pensa lui. Ha già lanciato un’Ansa che li metterà tutti quieti e d’accordo. Speriamo. Ciao, dille di stare tranquilla, il peggio probabilmente per lei è passato».

«Grazie, buona serata».

E sarebbe stata una buona serata davvero, quieta, come non gli era capitato spesso prima che Olga decidesse di trasferirsi per sempre a Napoli. Ora la casa era finalmente anche la sua casa. Come non era mai stato con le donne con cui aveva vissuto.

A cominciare da Natj. Quando si erano sposati lei gli aveva chiesto di trasferirsi nella sua casa con il minimo di bagaglio: il suo scrittoio, una libreria e un mobiletto che gli aveva regalato suo padre e che era in camera sua. Alla morte di Natj aveva ripreso scrittoio, libreria, mobiletto e una valigia di vestiti e il trasloco era fatto.

La sua prima casa a Napoli era stata dell’architetto De Angelis, che aveva assecondato la sua passione per i mobili moderni, di grandi designer soprattutto nordici, ma che era in tutto una casa disegnata da lui. Poi era arrivata Paola e con lei il caos: la casa era stata soprattutto sua e dei bambini.

Ora, finalmente, aveva una casa che gli piaceva. Che somigliava alla casa che aveva nel cuore, la casa di sua madre. Quella dove era cresciuto con quadri antichi e moderni, un pianoforte, porcellane e cristalli, fiori nei vasi, ordine e bella musica.

Olga aveva rispettato la sua passione per alcuni mobili di design, ma aveva ammorbidito l’insieme con oggetti che avevano scelto insieme. Se ne rese conto quando lei gli disse che la casa era finita, ma che c’era ancora spazio per altre passioni. Aveva capito allora che finalmente quella sarebbe stata la casa nella quale desiderava vivere.

Attraverso Annalisa e Grimalda, Olga, ora che passava più tempo a Napoli, aveva riallacciato amicizie e conoscenze che lui aveva abbandonato. Nessuno ricordava l’estate con Ermeline. Nessuno gli chiese di Paola. A tutti piaceva Olga, che ricambiava gli inviti con la naturalezza di chi in quel mondo c’era nato e cresciuto.

In tutto questo Liciuzza brillava in cucina di luce propria, felice che in tavola servisse suo nipote, che era stato cameriere su una nave da crociera.

Quando Max le disse che quella casa gli piaceva e che era felice, Olga prese l’anellino a tre vere che le aveva regalato all’inizio del loro amore e che aveva sempre portato all’anulare destro, e glielo mise in mano. Era emozionata.

«Mettimelo tu, qui all’anulare sinistro. Io sarò la donna che ti amerà per sempre».

Suonò il telefono. Prima di rispondere guardò l’ora, non erano ancora le otto. «Che cosa c’è?» domandò sgarbatamente. Era Giacomo.

«Vestiti e vieni, c’è qui uno che parla».

A Giacomo piaceva dire battute che facevano intuire misteri e situazioni arruffate. «E chi è?»

«Vieni, ti riguarda. Sbrigati».

Si girò nel letto a baciare Olga in quel punto dove il collo prosegue e diventa spalla, prima dell’osso. Tiepido, morbido, leggermente profumato.

«Devo andare» le mormorò senza staccare la bocca.

«Urgente?»

«Parrebbe di sì. È Giacomo».

«Ti aspetto?»

«Temo di no. Possiamo rimandare a questa sera?»

«Possiamo… l’ho voluto io l’uomo più importante del mondo». Si girò verso di lui, perché potesse baciarla. «Ciao, amore…»

«Dormi». La frugò con le labbra tra il seno, le ascelle, il ventre. Si fermò in tempo per capire che non poteva continuare. «Ciao, amore…»

Entro la mezz’ora successiva s’era fatto la doccia, si era vestito, aveva bevuto il caffè di Liciuzza ed era arrivato all’agenzia di Giacomo.