Ventisei
In strada rispose al cellulare, era Giacomo.
«Dove sei?»
«Sono uscito ora dall’ufficio di Viscardi. Che c’è?»
«Puoi passare da noi, in agenzia?»
«Vengo, sono a piedi».
«Vuoi che venga a prenderti?»
«Andiamo… Bevo un caffè e arrivo».
«Arriva, che il caffè te lo diamo noi. Ciao».
Sulla porta Lauretta gli sorrise. Sembrava allegra. «Buongiorno, avvocato. Venga giù in laboratorio da me, ora le portano il caffè».
Nel laboratorio sotterraneo, una specie di cabina spaziale con macchinari, schermi, microscopi, oltre a Giacomo c’erano Tosi e due giovanotti in camice bianco che non conosceva. Si salutarono alla voce e arrivò il caffè.
«Come è andata con Viscardi?»
«Dolce come un cucciolo. Devono avergli ordinato di non menarla con la storia della pistola al parco. Avrei voluto vedere lui. Comunque mi ha detto che la faccenda è chiusa».
«Ci mancherebbe!»
«Invece, avete trovato qualcosa?»
«Venga qui, avvocato». Lauretta si mise davanti a un grande schermo acceso. «Al laboratorio veterinario della polizia c’è una dottoressa che conosco, ha collaborato. Dal terriccio e dal pelo qualcosa abbiamo tirato fuori. Certo non era un gran che ma qualche informazione ce l’ha data. Venga, si metta qui davanti… venga».
Gli fece posto accanto a sé e gli sorrise: quell’avvocato le piaceva proprio.
Sullo schermo apparve il segnale seguito da una chiara e lunga sequenza di segni e di numeri. A un tratto apparve un messaggio da decifrare, per Gilardi incomprensibile, poi lo schermo ridiventò nero.
«Allora, quello che lei ha visto…» Lo fissò con indulgenza, sicura che non avesse capito assolutamente nulla. «Quello, ci indica un tipo di terriccio sassoso che si trova in particolare nelle colline alle spalle della zona vulcanica».
«Dopo la Gabbianella, te la ricordi? Ci andavamo da ragazzi».
«Sì… che cosa ha di strano quel terriccio? Di diverso?»
«È sulfureo. Questa è stata la fortuna: perché è facile da riconoscere, è particolare di quella zona e resiste sulla pelle e sui peli. Insomma, ci ha aiutati a capire dove probabilmente questa bestia ha vissuto».
«La Gabbianella… ci passa ancora il treno?»
«No, da anni. Ti ricordi il processo Milasi con quel ragazzo che si era schiantato contro la roccia mentre passava il treno?»
«Ehi, era un processo mio, vuoi che non me ne ricordi? Tu invece ne stai facendo un gran pasticcio: Carlo Spada era già morto quando è passato il treno. Vuoi che non me lo ricordi? Il mio primo processo a Napoli… il mio matto affogato». Stava ridendo. «Bene, avete passato la notizia alla polizia?»
«Dopo di lei, avvocato». Lauretta gli fece un mezzo inchino. «Domattina andiamo in corteo a portare queste ipotesi e vediamo come reagiscono».
«Vi ringrazieranno. In quei laboratori hanno una tale quantità di lavoro, e forse minori attrezzature, che saranno felici di vedervi».
«Gli metto a disposizione risultati e mezzi, ma voglio esserci anch’io» disse Angelo Tosi, il socio di Giacomo. «Con Lauretta. Questo ce lo devono».
«Forse ne avranno bisogno». Gilardi fece un ampio gesto di saluto con il braccio alzato. «Siete fantastici. E io che mi perdo con il cellulare…»
«Quando ha bisogno, avvocato, io sono qui». E questa volta gli tese la mano.
«Grazie, Lauretta. Brava, naturalmente».
Giacomo lo fece uscire dall’autorimessa e lo fece salire in macchina. «Ti accompagno, vieni».
«E la bimba?»
«Uno spettacolo. Somiglia a lei, per fortuna. Tra un mese facciamo il battesimo, guarda di esserci. Tu sei il padrino».
«Va bene, ricordamelo».
«E lei?»
«Olga, vuoi dire? Sta rivoluzionandomi la casa e la vita. Ma è quello che voglio. Ho finito di fare il padre, finalmente. Ora sono un uomo molto felice. I bambini la adorano e Paola ci va d’accordo. Mi chiedo come mai sono così fortunato».
«Perché sei bravo… sai ogni tanto che cosa mi ricordo? La prima volta che ti ho visto a scuola, in quarta. Io ero ripetente e tu mi hai detto: ‘Io mi chiamo Massimo’. E mi hai voluto in banco con te. Sai… sono cose che quando si nasce e si cresce tra i pesci, giù al porto, non si dimenticano più. Tu sei quello lì. Sai… non so come dirtelo. Ma tu sei rimasto quello lì: ‘Io mi chiamo Massimo’… Accidenti a te!»
«Anch’io mi ricordo di te. Quando mi minacciavano, e io me le tiravo addosso perché non ero simpatico a tutti, tu mi difendevi. Dovevano vedersela con te. Accidenti, ma quanti anni son passati?»
«Tanti. Abbiamo avuto la nostra vita».
«Bene, fine del mugugno, come dicono a Genova. Sono arrivato. E dimmi qualcosa di ’sta faccenda».
«Certo, figuriamoci. Te l’hanno restituita la pistola?»
«Scalzi, sì. Subito».
«E che ti è sembrata la storia del matrimonio, così sui due piedi… che gli prudeva?»
«Saranno fatti suoi? A me sembra contento. Lei è una brava donna».
«Accidenti, vista e presa». Fece seguire la frase da una fragorosa risata. «Ciao, eh? E non mollare. La bestia nera è ancora in giro».
«Dillo a me».