Quattro
Sembrò naturale che qualche volta Roberto Scalzi passasse da quella strada e suonasse al citofono.
«Tutto bene?»
«Avanti, entri. ’No cafè…»
Sembrò naturale che qualche volta lo invitassero a cena, alla buona. Poi che lui le portasse tutte e due a mangiare la pizza, lui che si riteneva un intenditore della vera pizza di Napoli.
Una sera condusse lei sola al ristorante, e la ragazzina andò a passare la serata dalla vicina.
Una sera al cinema, con il braccio sulla spalla, perché ora si davano del tu.
E una notte la ragazzina restò a dormire dalla vicina. E fu una notte importante, perché Roberto Scalzi le chiese di sposarlo.
«Ma davvero vuoi? Io ho già una figlia».
«Bene, una fatica in meno, la figlia l’abbiamo già».
Dovette raccontargli di quell’uomo che l’aveva illusa e strappata alla famiglia, lei che aveva diciassette anni. E di quando gli aveva detto che era incinta e lui le aveva dato una busta con dei soldi ed era sparito. Non si ricordava neppure il cognome, sua figlia si chiamava come lei: Izzo. Marta Izzo. E lei, Silvia Izzo.
«Vuoi sposarmi? Io la casa ce l’ho».
E andarono a vederla. Era una bella casa che con gli anni si era comperato. Messa con gusto, perché in parte l’aveva aiutato ad ammobiliarla Laura Licasi, al tempo in cui vivevano insieme. Un bel soggiorno, con la veranda. Il tappeto in terra, vero persiano, e tende alle finestre. Due divani, due poltrone e un tavolino quadrato al centro. Al di là di una porta a vetri, l’angolo cottura, con tutto quello che serviva, anche un frigorifero grande e la lavastoviglie. Oltre la porta, nel corridoio occupato da un armadio a tutta altezza, davano le stanze: una di lavoro, con un tavolo e i computer, una libreria e pochi libri; un bagno con la doccia, la camera matrimoniale con un letto imponente, uno specchio, una poltrona. In fondo al corridoio un altro bagno, tutto di marmo nero.
«Ti piace?»
«Una casa così non l’ho mai neppure sognata… e ci sta anche la mia bambina».
«Certo, io sposto la mia scrivania in un angolo del soggiorno, e qui facciamo la sua cameretta. Ha anche il suo bagno. Allora, è sì?»
«Io ti amo, ma tu? Ti ritrovi una vecchietta di trentaquattro anni con una figlia a carico. Il mio stipendio…»
«Non so che farmene, non voglio che vai a lavorare. E Marta deve continuare a studiare. Dovete avere una nuova vita, come l’avrò io».
«Ma come farai?»
«Ho il mio stipendio e in più una piccola rendita da casa, i miei stanno bene».
«Ma mi ami davvero?»
«Non ho mai voluto bene a nessuno in questo modo. E tu?»
«Io da matti… Non me l’aspettavo una fortuna così. Forse me la merito…»
Rinfrescarono la casa, aggiunsero tutto quello che mancava e decisero la data. Si sarebbero sposati a marzo, sul lago d’Iseo dov’era nato e dove viveva ancora la sua famiglia, e sarebbero andati in viaggio di nozze alle Maldive, secondo tradizione corrente.
«Sei contenta?»
«Felice, sono. Non credo a quel che vedo. E io per te sarò ’a Maronna».
«Anch’io ti prometto che sarò un buon marito, fedele e affezionato».
«Così sia». Un segno della croce rapido, con bacetto finale.
«E tu, tu sei contenta?»
Marta diceva di sì. Avrebbe preferito andare a lavorare, ma se doveva studiare ancora qualche anno e poi l’avrebbero lasciata andare in Inghilterra, come aveva detto lui, poteva andar bene uguale. Aveva detto di sì a tutto. Sua madre era felice, lei era indifferente. Lui le sembrava un buon uomo, un ispettore capo. Un’autorità. Con macchina propria e macchina di servizio. Con sconti speciali dappertutto, ora che le aveva rifatto il guardaroba: una signorina vera, come quelle che vedeva in tv.
Al matrimonio non andò nessuno dei colleghi di lui e degli amici napoletani: troppo lontano. Nessuno avrebbe visto l’abito da sposa bianco, con ampia scollatura e spalle scoperte, che aveva fatto rizzare in testa i pochi capelli del parroco. Né la divisa di lui con le medaglie: sorridenti e preparati come gli sposi di quella trasmissione televisiva dedicata a cerimonie e cerimoniali. Anche la torta l’avevano copiata da lì; e anche l’abito di Marta, la damigella: un frou frou di pizzi rosa, volant e nastri dai capelli alle scarpe bianche di vernice, tacco dieci.
Poi erano partiti da Napoli, dopo aver aperto i pacchi dei pochi regali d’obbligo. Tra cui la spilla Tiffany di Paola Gretel, scelta per lei da Max Gilardi.
Era successo proprio in quei giorni. Poi avrebbero stabilito che Scalzi era partito per il viaggio di nozze da quattro e ne avrebbe avuti ancora dieci da trascorrere alle Maldive.
Max Gilardi, come ogni mattina, in tuta e zainetto con Dick al fianco, era andato a correre nel parco, dalla parte di corso Principe Eugenio. Il solito giro, moderando il passo perché Dick non era più così vivace come un tempo.
A un tratto lo vide allontanarsi, correre verso un prato. Un fischio, due. Si fermò seccato. Lo richiamò.
Quando lo vide tornare aveva il muso sporco. Dallo zaino prese uno dei suoi asciugamani e cercò di ripulirgli la museruola. Sembrava sangue.
«Dove sei stato? Che hai fatto?»
Attraversò il prato, cercò oltre il vialetto, tra i rovi su cui stavano spuntando le prime gemme.
Scostò alcuni rami bassi, facendosi male. E la vide. «Nooo!»
Era una bimba, di otto, dieci anni. Con i capelli biondi e fini sulla faccia. Scomposta, come se fosse caduta all’indietro, con i calzoncini corti e la maglietta strappata. Un enorme squarcio sul collo. Molto sangue sull’erba e sui sassi intorno. ‘Un morso’ pensò Gilardi. Ancora un morso: com’era possibile?
Realizzò che Scalzi era in viaggio di nozze, e dovette chiamare il commissario Viscardi. Gli disse in fretta chi era e dove si trovava.
«Una bimba, dice? Non si muova, veniamo subito».
Gli disse la posizione esatta, e chiamò lo studio.
«Devo venire?» gli chiese Laura Licasi.
«Sì. Meglio di sì. Questo Viscardi è pesante e lo conosco poco».
Ritornò sul vialetto, prese un altro asciugamani di spugna e se lo legò al collo, coprendosi la testa con il cappuccio della tuta. Aveva freddo. Ma forse tremava per quello che aveva visto. Impossibile non chiedersi di chi fosse figlia. E chi aveva potuto fare una cosa simile a una bimba.
Ora stavano passando dei ragazzi. Una donna mandò alto un grido che coprì le loro risate. Tutti si fermarono come a un richiamo.
Passando da un viale all’altro, attraverso il prato, la donna aveva visto la bambina in terra in quello stato.
«Gesù… venite a vedere… ’na piccina, venite! Chi l’ha ridotta così? Lei che ci fa qui, con quel cane?»
«Io l’ho visto il cane» disse un tizio, che si era fermato. E intanto tutti passavano avanti e indietro sul prato. In quel modo calpestavano eventuali prove, pensò Gilardi. «È entrato di corsa dal cancello. ’Na bestia nera, comm’a quello».
«Sta arrivando la polizia» disse calmo Gilardi.
«Era suo il cane?»
«No di certo. Ho chiamato io la polizia».
«Ma lei stava correndo di là» disse una donna con tono isterico. «Io l’ho visto, me lo ricordo perché è alto che non è normale… ma era solo, il cane non c’era… dov’era il cane?»
«Quello sembra il morso di un cane… era un cane nero, io l’ho visto. Correva come un pazzo e aveva gli occhi rossi. Un diavolo… ’na bestia nera come a quella».
Gilardi non si scompose. Ancora un cane nero. Che correva come ormai Dick non avrebbe più saputo correre, con gli occhi rossi: forse un’esagerazione. Come glieli aveva visti gli occhi rossi, se correva?
Quando arrivò la polizia si fece avanti.
«È lei Gilardi?»
«Sì, commissario. Quando le ho telefonato non c’era nessuno, ma il sangue ha un forsennato richiamo sulla gente».
«Dov’è?»
Intanto i ragazzi della squadra stavano transennando il quadrato che comprendeva il prato da un vialetto all’altro. Era arrivata la scientifica. Ed era arrivata Laura Licasi.
«È quello il cane?» domandò il commissario Viscardi.
«No di sicuro, stava correndo con me».
«Non è vero!» gridò la donna isterica. «Io l’ho visto quello lì. Correva ed era solo. Correva lì… e il cane non c’era».
«Stia calma, signora. Non sa quello che dice».
«E lei chi è?»
«Un avvocato» le rispose Laura. «Ora la polizia sa quello che deve fare. Stia calma».
«Eh, no! Se quello mente per cavarsela… il cane non c’era!» aggiunse con energia.
Il medico legale si alzò da terra e si avvicinò a Viscardi. «Sembra il morso di un cane. Mortale, alla gola».
«Ora?»
«Il corpicino è ancora tiepido, meno di un’ora… o giù di lì. Sarò più preciso dopo che l’avremo esaminato in laboratorio».
Videro allora avvicinarsi una donna. Gridava. «Anna… Anna…» Sempre più forte. «Anna!»
«Signora… si fermi. Dove sta andando?»
«Cerco mia figlia. Che è successo? Dov’è mia figlia? Anna!»
«L’ha persa? Quando?» E intanto le stava mostrando il tesserino della polizia. «Commissario Viscardi» disse in fretta, quasi vergognandosene. «Purtroppo credo… venga, non so ancora come sia successo».
«Che cosa? Dov’è Anna? Anna!»
«Qui, signora… la prego». Alzò il lembo del lenzuolo con cui avevano ricoperto il corpicino della bambina e le mostrò il viso. «È questa sua figlia?»
«Nooo!» La donna si gettò a terra, accanto alla bimba. Un’ispettrice la trattenne, per impedirle di toccare il cadavere. «Anna…» iniziò a singhiozzare. «Bimba mia! Bimba mia… Ma chi ha potuto…»
«Il dottore pensa al morso di un cane. Avete un cane?»
«No, ma Anna li amava, si fermava sempre ad accarezzarli… La mia bambina… Ma che cane può essere… che diavolo di cane… era una bambina quieta. Era…»
L’ispettrice le passò un braccio intorno alle spalle e la fece alzare. «Venga, signora. Beva un po’ d’acqua».
Barcollando, la donna si guardò attorno. «Come è successo? Passava tutti i giorni di qui, là davanti c’è la sua scuola…» Notò Dick. «Di chi è quel cane?»
«Suo!» urlò la donna isterica, additando Gilardi. «Quel cane nero, razza assassina!»
«Non dica stupidaggini» l’ammonì Viscardi.
«Però lui era lì anche con quello azzannato nel cortile di via Lerici, l’ho visto sul giornale. Così alto lo si riconosce subito. Era lui».
«Non diciamo sciocchezze, avanti. Fate largo». Si rivolse alla madre della bambina. «Venga, signora. Deve andare con l’agente. E voialtri sgomberate, non c’è niente da vedere, lo spettacolo è finito. Su, andatevene!»
«Io voglio vedere se lui lo portano alla polizia. Quello lì e il suo cane. Voglio proprio vedere!»
«Invece non vedrà niente, via, sgomberate!» Apostrofò quelli che avevano tirato fuori gli smartphone e stavano fotografando. «Via! Vergognatevi, accidenti… Andate via!»
Ora lo spazio era completamente sgombro. Rimanevano le transenne della polizia, sul prato impronte di scarpe e di zampe.
Viscardi si rivolse a Gilardi, grattandosi la fronte. «La museruola del suo cane è sporca di sangue: come lo spiega?»
Gilardi prese l’asciugamani che aveva arrotolato nello zaino e glielo porse. «È stato lui a portarmi qui. Gli ho pulito il muso, forse un po’ di fretta. Questo è il panno che ho usato». Viscardi lo prese con due dita e lo consegnò a uno degli agenti. «Alla scientifica» disse, senza alzare lo sguardo.
«Posso dirglielo io, commissario, com’è successo. Dick è venuto da questa parte, forse ha sentito l’urlo della bimba, o è stato l’istinto. Quando l’ho richiamato e l’ho visto sporco di sangue sono venuto a vedere che cosa poteva essere successo. E vi ho telefonato. Non c’è altro. Non ho visto il cane, non ho sentito urla… stavo correndo. Davvero non c’è altro».
«Va bene, certo. Comunque la prego di seguirci in questura. Lei capisce, dobbiamo chiarire tutto».
«Ma commissario» intervenne Laura, «è l’avvocato Gilardi, che cosa deve chiarire? Vi ha detto quello che sa… che altro?»
«Lascia, Laura, grazie. Il commissario fa il suo lavoro. Vi chiedo soltanto di poter andare a casa a cambiarmi, ho freddo. Poi vi raggiungo».
«Il cane?»
«Vengo io con il cane» disse Laura, risoluta.
«Va bene, sono solo formalità. Lei capisce».
«Sì, naturalmente. Grazie. La mia macchina è parcheggiata qua dietro. Vi raggiungo subito».
Viscardi lo vide allontanarsi, con calma, come se non fosse successo niente.
‘Vedremo’ pensò.
Quello era l’uomo che piaceva a Adriana Santini, pubblico ministero. Una delle donne più in vista e temute del tribunale di Napoli.
‘Vedremo’ pensò.