Trentaquattro
Mentre la polizia stava ancora lavorando attorno ai ragazzi che avevano ucciso Giuseppina Cuotolo e Giovanni Ricci, sul cellulare di Gilardi apparve una sola parola: Trovato.
Erano riuniti a casa di suo padre perché stavano preparandosi al trasloco pasquale nella tenuta toscana di Olga. Questa volta, oltre ai bambini e a Paola, sarebbe andato anche suo padre.
«Sei contento, papà?»
«Contento sì, qua non mi fanno muovere… sarà l’ultima volta. Poi, la prossima, uscirò con i piedi in avanti… ma per ora, ancora ritto co’ ’sto bastone».
Trovato.
Erano tutti pronti, Sergio e la sua chitarra nella macchina di papà con Olga e il nonno; Alice con la mamma, Anja e i bagagli.
Trovato.
«Scusate…»
«Andiamo, lo guardi dopo».
«È Giacomo, aspetta».
Trovato.
«Che accidenti hai trovato? Sto partendo».
«Peccato… Abbiamo trovato il covo dei cani».
«E come?»
«La polizia ci ha chiesto di collaborare, ora sappiamo dov’è».
«E dov’è?» Intanto fece segno a Olga di aspettare un momento. «Dov’è ’sto covo?»
«L’abbiamo trovato noi. Ti ricordi la Gabbianella, dove andavamo da ragazzini? Avanti, verso la montagna dove c’era la ferrovia ora ci sono delle cave… Vuoi venire?»
«Con la polizia? Non mi ci fanno manco avvicinare».
«No, qui da noi, siamo collegati: là c’è Tosi e qui c’è Lauretta, vieni, dai… Che ci metti?»
«E come fate a essere collegati… non ci capisco».
«Certo non è la ripresa di Piero Angela in televisione, ma con telefonini e computer, qui ce la fanno. Tosi è sul posto».
Gilardi si girò a guardare Olga che si era già seduta al posto di guida.
«Scusa, hanno trovato il covo dei cani… vi raggiungo domani. Mi dispiace, amore…»
«Va bene, ti aspettiamo. Se arrivi a Firenze ti vengo a prendere. Pasqua è tra tre giorni».
«Sì, lo so. Abbi pazienza, sei un tesoro».
Mentre le auto si mettevano in moto sentì qualche urlo, i bambini, suo padre. Soltanto Olga e Paola sapevano che non c’era altro da fare che lasciarlo a terra. Mossero le macchine in silenzio, facendosi un segnale con gli abbaglianti.
E stavano ridendo.
Lo fecero sedere davanti a un maxischermo nel laboratorio sotterraneo. Lauretta era ai comandi, le immagini arrivavano dall’apparecchio di Angelo Tosi che era sul posto.
«In quanti sono?»
«Sul posto? La polizia ha mandato rinforzi, ci sono tre veterinari pronti a sparare».
«Li vogliono ammazzare?»
«Li vogliono addormentare… ecco, guarda, sta scendendo… riconosci quei posti? Dall’altra parte ci sono i campi che vanno verso la Gabbianella, te li ricordi? Ecco, guarda… a destra, vedi? Lì ci sono le caverne naturali, ci hanno piantato delle cancellate di ferro… vedi, lì a destra?»
Si vedeva poco e male, si capiva che la ripresa era fatta attraverso mezzi poco professionali. Ma i luoghi erano riconoscibili, ingranditi sul maxischermo.
«Hanno fatto tutto ’sto lavoro e non se ne è accorto nessuno?»
«Secondo te chi ci va, in un posto simile? Ma ti rendi conto dov’è?»
Lauretta mise a fuoco un tratto che mostrava la parte ripida verso il mare. «Procedono adagio e in gran silenzio, perché se i cani li avvertono e cominciano ad abbaiare, la cosa può diventare pericolosa. Ecco, ora sta scendendo… Li vede i cani? Metti a fuoco» ordinò a Tosi.
«Bestie gigantesche, sono molossoidi… accidenti, ma questi sono cani da combattimento».
«Conosce queste razze, avvocato?»
«No, non tutte… Riconosco… quelli sono due rottweiler. Ecco, ferma: quello è un pinscher e poi tre dobermann… quello vicino non lo conosco».
«Questo? Lo riconosco io, potrebbe essere un corso, ma non è aggressivo. Ho letto che si chiama corso perché fa la guardia nei cortili, ma non è feroce. Mentre l’ultimo in fondo, questo» disse ingrandendo l’immagine, «è un mastino… poi in quella gabbia, guardi: ci sono i piccoli. Pensare che potrebbero diventare assassini…»
«Un patrimonio, accidenti. Ma siamo sicuri che quello che ha aggredito me era in questo posto?»
«Sì, è della stessa razza di quello che ha ucciso la bambina, ma non di quello che ha ammazzato Cuotolo. L’abbiamo rilevato dal terriccio e dal pelo al microscopio».
«Praticamente siete dei geni».
«E tu praticamente sei uno protetto da tutti i santi del paradiso. Ti rendi conto che bestia hai avuto contro?»
«E quello che ha ucciso il Ricci?»
Giacomo scosse la testa prima che Lauretta potesse rispondere. «No, con questi non c’entra niente. Hanno imitato la faccenda dai giornali e dalla televisione. Mai stato da queste parti».
Poi tutto si svolse come in un film accelerato. Il gruppo della polizia specializzata arrivò in mezzo allo spiazzo davanti alle gabbie, saltando dalle rocce laterali mentre i veterinari stavano cominciando a sparare le fiale di potenti sonniferi per farli addormentare. I cani che stavano abbaiando furiosamente cominciarono ad abbassare i toni: e fece uno strano effetto quell’incessante frastuono ringhioso che si spegneva a poco a poco in un sommesso brontolio. Poi il silenzio.
Tosi aveva tenuto il suo apparecchio fisso per consentire una trasmissione decente.
«Vi arriva?»
«Sì, abbassa… Che è?»
Uno sparo.
Tosi girò l’apparecchio: un poliziotto aveva ferito un uomo, che stava salendo dalla parte opposta con un fucile a canne corte spianato. Senza riuscire a sparare un solo colpo, era caduto a terra con una gamba sanguinante. Non riuscendo a mostrargliela, Tosi descrisse la scena.
Tornò a inquadrare i cani.
Alcuni uomini dei reparti speciali cominciarono ad aprire le gabbie con le tenaglie: i cani erano afflosciati a terra completamente innocui. Gli uomini della polizia, opportunamente equipaggiati e difesi da giubbotti di cuoio, iniziarono a caricarli sopra le barelle. I piccoli, messi in un paio di ceste, furono affidati ai veterinari.
«Fine dello spettacolo» disse Lauretta, spegnendo il maxischermo. «Accidenti, anche visti da qui fanno paura. Ma quanto pesano?»
«Tra i settanta e gli ottanta chili, suppongo».
«E ora che cosa ne faranno?»
«Ne vuoi uno per ricordo?» Gli tese un bicchiere di vino bianco frizzante. «Bevi, va’, ma a te chi ti protegge?»
«Qui ho fatto tutto da solo. Per il resto ci sei tu». Prese il cellulare e chiamò Olga. «Ciao, amore… domani arrivo a Firenze. Sì, la solita ora. Dove siete? Viaggio buono? Sì, immagino, tutti si muovono a Pasqua. Chiamami quando arrivate. Bacio…»
«Sei solo?» gli chiese Giacomo.
«Sì, sono solo».
«Allora vieni da noi».
«Molto volentieri».
«Però a casa non parliamo di queste cose, mia moglie si spaventa. E allatta ancora».
Fu necessario aspettare ben oltre la Pasqua per avere notizie di quei cani che nessuno aveva reclamato e valevano un patrimonio, soprattutto per quello che rendevano. Infatti la narcotici aveva scoperto che cani come quelli venivano usati per il traffico di droga dai Paesi del Sud America. La notizia apparve su giornali e in trasmissioni televisive di approfondimento. Con accurate descrizioni veterinari e allevatori esperti si prodigarono in particolari per spiegare come una interessante quantità di droga, prima di venire infilata nel ventre dell’animale, predisposto allo scopo, venisse avvolta in carte resistenti ai raggi X per passare in sicurezza tutti i controlli delle dogane. E i cani che non venivano usati per il trasporto di droga venivano addestrati per il combattimento o per la difesa. Cioè a uccidere su comando.
«Ora è tutto chiaro» gli aveva detto Viscardi, salutandolo.
«Forse per lei, commissario. Io non so ancora chi ha avuto l’intenzione di ammazzarmi, né se alla luce di queste azioni della polizia gli sia passata la voglia. Se potessimo trovare una sola spiegazione forse potremmo arrivare rapidamente anche al mandante. Ma non ne ho, non ne trovo».
«Mi dispiace». Anche se si capiva che forse non gli dispiaceva davvero. «Posso fare qualcosa?»
«No, naturalmente, grazie. Cercherò di stare attento, come mi ha consigliato il vice questore Bonetti. Starò attento per non darvi fastidi». Gli girò le spalle e uscì.
Fu allora che incontrò Adriana Santini che stava rientrando.
«Che ci fai qui?»
«A te non lo chiedo» le rispose ridendo. «Sono stato da Viscardi per quella storia del cane».
«Mi pare che stiano lavorando bene. Si sa qualcosa del cane che avrebbe aggredito te?»
«No, ma ho promesso che starò buono».
«Meno male che ti va di ridere».
«A te, no?»
«No, e non ho voglia di parlarne. Beppe. È fuori di testa. Geloso, lui di me: ma ti rendi conto? Pensa che mi ha detto, trionfante, che mi mettessi l’anima in pace perché tu ora hai una nuova moglie…»
«E tu l’hai detto a Viscardi?»
Adriana Santini corrugò la fronte, cercando di interpretare la domanda. «Perché? Che c’entra?»
«Ne hai un altro alle costole, signora: credo che anche Viscardi sia innamorato di te».
«Bell’accoppiata. E invece tu come stai? Almeno tu dammi buone notizie».
«Ottime, davvero. Ero preparato a vivere la mia vita con Paola…»
«Quel matrimonio non l’ha capito nessuno».
«Adriana, per favore: aspettava un figlio, chi è il mascalzone che non l’avrebbe fatto? Ma le volevo bene e avrei continuato a vivere con lei se non avesse scelto di andarsene. Mi ha reso le cose più facili, e sono felice. Ma è stata una sua scelta».
«Vedi, hai tutte le fortune». Si alzò sulla punta dei piedi e gli sfiorò la guancia con un bacio. «Così facciamo parlare tutto il Palazzo di Giustizia, e anche il mio ex».
«E smettila. Posso fare qualcosa?
«Adesso? Ormai è tardi, caro». E uscì muovendo esageratamente i fianchi, per farlo ridere.