Due
Entrando non ci avevano badato, ma a metà di quell’androne, tra il portone e le biciclette, c’erano tre scalini e una porta a vetri che si apriva su un piccolo pianerottolo dal quale iniziavano le scale.
«Lì» disse Marta, segnando con il mento il sottoscala dove, dietro un cumulo di legnami e di cartoni, si notava una porta socchiusa. «Lì dentro».
«È una cantina?»
«No, che non è una cantina. Hanno appena cambiato la cucina, questi di sopra, e hanno lasciato qui gli avanzi. Devono portarli via, mia madre ha già gridato».
«Tua madre dov’è?» Erano intanto entrati in una specie di salottino ordinato, con divano a righe e televisore acceso, tende all’unica finestra che dava sul cortile. In un angolo il lavello, il frigorifero e una cucina davanti a un tavolo con quattro sedie. Sembrava tutto in ordine e tutto pulito. «Tua madre?» ripeté l’ispettore.
«Lavora giù al Cristo. È caporeparto» aggiunse con una punta d’orgoglio.
«La fabbrica di tute?» La ragazza fece una smorfia per dire di sì. «E tu stai sola?»
«Sì, dopo l’estate vado a lavorare anch’io».
«Lo hai visto da quella finestra?» Marta fece di sì muovendo appena la testa. «Ecco, allora adesso mi dici tutto quello che hai fatto. Bene, dal principio. Proprio com’è successo. Tu eri alla finestra?»
«Certo che no, che ci stavo a fare, a vedere l’erba? Io ero qui che mi guardavo la tv. E ho sentito Pasquale…»
«Ma allora lo conoscevi».
«Lo conoscevo, sì». Gilardi e l’ispettore si erano seduti al tavolo mentre Marta era rimasta in piedi, girata verso la finestra, senza voltarsi.
«E chi era?»
«Il fratello della balorda che abita all’abbaino, lì davanti».
«Fammi capire». Scalzi si era alzato e si era avvicinato alla finestra. «Quale abbaino, sono soltanto tre piani».
«Visti da qui. Ma se piglia le scale c’è una salita in più e c’è l’abbaino. Io ci vado, ci abita quella balorda. Si chiama Giuseppina. E lui viene… veniva ogni tanto, a portarle dei soldi».
«Sto perdendo il filo. Vediamo se ho capito. Questo Pasquale veniva qui qualche volta dalla sorella che abita l’abbaino e le portava dei soldi. Perché?»
«Perché cosa? E io che ne posso sapere?»
«La chiamava dal cortile? Lei scendeva?»
«No che non scendeva. È zoppa, usa il bastone, fa fatica. No, lei non scende, si affaccia, si salutano…»
«E lui non saliva».
«No, lui non saliva quasi mai, ha sempre fretta, la lascia qui e scappa via. Lasciava la busta nella cassetta delle lettere, l’ha vista, no?» Non l’aveva vista, ma disse di sì. «Quando lei scende se la prende, o gliela porto su io».
«E ora è scesa?»
«No, non si è neppure affacciata, non ci sente tanto. Scommetto che non si è accorta di niente».
«Perché non le ha citofonato?»
«Perché con la moto si è fermato al cancello, lì di fronte, che era aperto, e lì non c’è citofono».
Scalzi si era avvicinato alla porta. «Aspetta, ora vado a prendere ’sta busta così gliela porto e le dico di suo fratello».
«Le piglia un colpo, a quella. Un colpo secco».
«Erano affezionati?» domandò Gilardi.
Ora che erano rimasti soli Marta si girò verso di lui. «Mi scusi per il cane, sa… ma era uguale uguale. Io l’ho visto bene, era come se mi venisse addosso, mi sono spaventata da morire. Aveva quel muso…»
«Aspetta, lo racconti quando torna l’ispettore. Questi particolari interessano a lui».
«Tu sei avvocato?» Le rispose di sì. «Deve essere bello».
Scalzi era rientrato con una busta chiusa in mano. «Ecco, è questa. L’ho riconosciuta dal nome, si chiama Cuotolo pure lei. Giuseppina Cuotolo». Si rimise a sedere, con quella busta davanti. Una semplice busta gialla, chiusa. A occhio poteva contenere un rotolo di soldi, soltanto perché glielo aveva detto la ragazza. Un rotolo di soldi per Giuseppina Cuotolo. «Allora?» domandò.
«Dicevo che io stavo guardando la tv quando ho sentito Pasquale che chiamava la sorella. Mi sono affacciata e lui mi ha salutato. Le solite cose, diceva scemenze». Era arrossita. «Poi è andato a mettere la busta nella cassetta, tanto quella non sentiva. Glielo dici tu, mi ha detto. Mi ha salutato e io stavo chiudendo gli scuri quando ho visto quella bestia nera che gli saltava al collo…» Strinse le labbra e abbassò il mento sino al colletto della camiciola. «Io non so… ho visto quella bestia nera, lui che urlava… ho chiuso la finestra e sono uscita, volevo scappare. Poi lì fuori c’era lui con quel cane». Stava ancora tremando.
«Non c’era nessuno dietro quel cane?»
«No… è entrato dal cancello delle cantine, lì di fronte. Sarà saltato via da lì. È entrato ed è balzato addosso a Pasquale. Che male gli aveva fatto?»
«Forse è un cane impazzito, se è randagio lo prenderanno. Speriamo prima che faccia altre vittime».
Stavano per alzarsi, quando la porta si era aperta sbattendo. La donna guardò prima uno e poi l’altro. «Che ci fate in casa mia?» Forse non se n’era accorta, ma stava urlando. «Che ci fanno due uomini con mia figlia in casa mia?»
«No, mamma…»
«Chi siete?» E con un braccio strinse la figlia contro il suo corpo.
«Ispettore capo Roberto Scalzi». Ora le stava mostrando la sua tessera. «E lui è l’avvocato Massimo Gilardi. È successo…»
«Hanno ammazzato Pasquale, qui in cortile».
La donna mosse la testa dall’uno all’altro, indecisa. Sembrò acquietarsi. «Ma perché siete qui?» Respirò passandosi una mano sulla bocca. «Ch’è successo? Pasquale, hai detto?» La sua voce era tornata normale. «Ho visto la polizia, qui fuori».
Glielo spiegò Scalzi. «Marta ha visto il cane, un cane nero».
«Quello?» chiese la donna, guardando Dick che si era rimesso in piedi accanto a Gilardi.
«No, un cane come quello. Marta l’ha visto. La sua testimonianza è stata importante».
«Madre santa, che spavento… Scusate, sa? Non me l’aspettavo. Alla porta ho visto le strisce, i poliziotti». Con la mano si fece vento sotto il mento, e tentò persino un sorriso. «Quella lo sa?»
«No, stavamo giusto andando su da lei. Togliamo il disturbo».
«No, avanti… vi ho chiesto scusa. Vengo su anch’io, altrimenti quella non apre. Ma sedetevi. Hai offerto da bere?»
«E che offrivo?»
«Nel frigo… e poi con le cialde il caffè lo sai fare pure tu. Lo volete un caffè?»
«No, grazie. Stavamo andando».
«Un momento». Allungò la mano attraverso il tavolo. Una mano piccola, energica, senza anelli. «Io sono Silvia Izzo. Piacere» e strinse prima quella di Scalzi e poi quella di Gilardi. «E scusate, ma non è facile. Io esco la mattina e torno a quest’ora. La bambina, qui da sola».
«È stata brava, ci ha aiutati. Ora andiamo».
«Vengo con voi, se no si spaventa».
«Sa niente di queste buste che il fratello le lascia nella cassetta?»
«Soldi. Lei mi ha detto che Pasquale le lascia dei soldi da mettere via».
«Sono buste come questa?»
La donna diede un’occhiata di sfuggita alla busta gialla. «Sì, gonfie così. Non so dove li tiene ’sti soldi che le arrivano. Circa una volta al mese, vero?» La figlia disse di sì. «Io non so niente, ma quella mi fa ’na gran pena. Pure sorda».
Sulla porta Gilardi si congedò. «Vado a casa, altrimenti Olga se ne torna a Siena, abbiamo gente a cena stasera. Se non hai più bisogno di me».
«No, grazie. Ci sentiamo».
Salutò la signora e si accorse, guardandola, che era giovane per avere una figlia di sedici anni. E persino graziosa, con quei capelli biondi e lisci, le sopracciglia scure ben delineate e la bocca piccola che sembrava imbronciata. Era bella quando sorrideva, somigliava a sua figlia.