Ventidue
Dalla parte opposta.
Perché da questa parte del parco ci veniva di rado.
Quella mattina. Quindi lo avevano seguito. Sapevano che sarebbe andato a correre lì, eccezionalmente dalla parte del parco verso il mare. Da quella parte c’era anche la casa di Maria Migliorini, sopraelevata rispetto alla strada. Dopo la curva, dietro la chiesa. Dalla piazzetta si vedeva e si sentiva il mare.
Quella mattina.
E ora.
Arrivato al cancello, aperto verso quella zona remota della città, guardò dai due lati della strada. Molte macchine ma pochi passanti.
Rientrò nel parco e scelse una panchina, l’ultima della fila. Alle sue spalle l’angolo di prato ancora transennato che divideva i due viali opposti. Molti fiori in terra, ormai appassiti; letterine scritte dai bambini su fogli di quaderno. Pupazzetti. Un foglio grande a colori: Io ti vorrò sempre bene. Anche tu. Marco.
Grandi dolori che non avrebbero mai dimenticato.
Si sedette con il viso rivolto verso il cancello, e aprì il giornale.
Dick si mosse sul vialetto, ogni tanto alzando il muso verso di lui, come a chiedergli che intenzioni avesse. Finì per sdraiarsi sotto la panchina, perché c’era l’erba e non la ghiaia. Gilardi allungò la mano e attaccò il guinzaglio al ferro della panchina perché non andasse a passeggiare in quel piccolo prato che era proprio dietro di loro, dedicato a Anna.
E aprì il giornale.
Non avrebbe saputo dire perché in quel momento aveva alzato lo sguardo. Forse era stato Dick a dargli il segnale. Uno sbuffo, prima di un abbaiare furioso.
Frazioni di secondo. Gesti che non avrebbe mai più saputo ripetere.
Nero, grosso e teso come un arco. Le fauci rosse aperte, i denti scoperti, le zampe tese in aria nel salto perfetto.
Dalla tasca della giacca Gilardi pescò la pistola, e in un solo gesto l’alzò appena e sparò tre colpi.
Vide la bestia fare, in aria, mezzo giro su se stessa, mentre le zampe si scomponevano e il collo si tendeva verso l’alto con le fauci aperte. Prima di cadere pesantemente al suolo, ancora con uno scossone tra il petto e la schiena. Un solo urlo soffocato.
Dick, abbaiando furiosamente, tirava il guinzaglio sino a strozzarsi.
Tutto era accaduto in pochi secondi.
Arrivarono di corsa tre ragazzi, poi una donna: urlando.
Un uomo si avvicinò guardingo. «È morto?» chiese.
Con una mano gli fece segno di allontanarsi, con l’altra fece il numero di Scalzi. Gli disse rapidamente dov’era.
«Ho ammazzato la bestia nera».
«Che hai fatto? Ma ti sei ammattito?»
«Manda subito qualcuno e vieni».
Ora il pubblico era aumentato.
«Ma è la bestia nera? E a lei chi gliel’ha detto?»
Qualcuno sembrava risentito che Gilardi avesse sparato a un cane senza la certezza che fosse un cane omicida e che volesse uccidere proprio lui. Si accorse che tutta la compassione era per il cane.
La discussione si acquietò quando sentirono avvicinarsi le sirene della polizia. Qualcuno proseguì verso il cancello d’uscita. Altri si ritirarono in disparte per non perdere lo spettacolo.
«Voglio proprio vedere come va a finire» gridò uno verso Scalzi che stava cercando di allontanare quella piccola folla dal punto in cui era caduta la bestia, che giaceva a terra in una posa da cucciolone stanco.
A prima vista sembrava un dobermann un po’ sovrasviluppato, con orecchie e coda tagliate.
«Andate, via. Non c’è niente da vedere, via!»
Sapeva anche lui che era inutile. Chi arrivava s’informava da chi c’era su quel che era successo. E ognuno aveva un commento da fare.
«Quello alto? È lui che l’ha ammazzato?»
«Sparato? Ma roba da pazzi… in un parco pubblico, ci stanno i bambini e questi se ne vanno con le rivoltelle in tasca… non c’è più religione…»
«Non c’è più giustizia, ecco cos’è».
A nessuno venne in mente di chiedere perché un uomo normale come quel tipo alto due metri avesse sparato a un cane, in un parco pubblico.
«La pistola» gli disse Scalzi a bassa voce. Gilardi gliela allungò in modo non troppo evidente. Scalzi l’annusò: gesto inutile, perché Gilardi gli aveva appena detto di aver sparato. «Tre colpi».
Scalzi fece di sì e infilò la pistola in un sacchetto di plastica. «Porto d’armi?»
«A posto». Dal portafogli prese la tessera e gliela mostrò. «Lo sai anche tu che ce l’ho».
«Mi dici come è successo? Perché sei qui? Non dovevi andare in Toscana?»
«Sì, dovrei partire tra un’ora».
«Scordatelo. Figurati se ti lasciano andare». Mentre i poliziotti lavoravano intorno al cane un veterinario chiamato dalla polizia aveva osservato la bestia e ordinato di chiuderla in un sacco per trasportarla in laboratorio. Scalzi chiamò il commissario. Parlò per qualche minuto, disse di sì molte volte e chiuse la comunicazione. «Non puoi partire» confermò. «Ci sono molte cose strane in questa faccenda».
«La più strana è che io non sia morto come quella bambina e quel Cuotolo. Spero di non aver rovinato i vostri piani investigativi». Non gli riuscì di ridere. Si accorse che la mano che stringeva il guinzaglio di Dick stava tremando.
Il dottor Bindi, il veterinario, fece intendere che c’era poco da dire. Tre proiettili in pieno petto, complimenti per la mira, morte istantanea. Non poteva dire se la bestia fosse normale, addestrata con quali mezzi. «Lasciatemi tempo».
Scalzi fece cenno a Gilardi di seguirlo.
«Lasciami portare Dick a casa. È inutile tenerlo alla polizia, che ci resta a fare?»
«Andiamo, vengo con te».
«Sì, sono a piedi».
«Ma che giri a fare? Perché non te ne stai un po’ quieto?»
«A farmi ammazzare da ’sto pazzo? E ora lo trovate?»
«Tranquillo che lo troviamo… avanti, sali. E intanto mi racconti com’è successo. Perché eri lì?»