Diciotto

Max Gilardi era rimasto immobile, lo sguardo fisso su un punto della scrivania tra la sua mano e il complesso calamaio di bronzo con la donna seminuda accovacciata intorno a una ciotola che avrebbe dovuto contenere, e forse aveva contenuto sulla scrivania di suo padre, inchiostro finissimo. Nero. Gli era rimasto quel cimelio al quale aveva rinunciato ad affezionarsi. Era un oggetto. E ora era lì, silenzioso testimone di quel racconto. Che non riusciva a stupirlo.

«Che cosa vi aspettavate, che la bestia, ’sto cane, agisse di sua volontà? Ho letto che alcuni hanno una specie di piccolo trasmettitore nel cervello. Altri vengono addestrati a rispondere a un comando. Ma c’è sempre la volontà di qualcuno dietro le loro azioni. Perché un qualsiasi cane nero dovrebbe odiare me? O la figlia dei Migliorini? Ve la siete fatta questa domanda?»

«Certo che ce la siamo fatta, accidenti. Ma perché qualcuno dovrebbe odiarti a questo punto?»

«Non lo so… Io con il porto di Napoli non c’entro niente, non ci ho mai messo piede».

«L’affare Notarnicola? Il padre costruiva navi da trasporto e mercantili».

«Ma io ho difeso gli eventuali diritti dei Notarnicola, i delinquenti che se ne sono approfittati e hanno ammazzato Alessandro non ce li ho mandati in galera io. Che se la prendano con il pubblico ministero di quei processi. Quella storia con la bestia nera non c’entra per niente. Stiamo perdendo tempo. E ha ragione Cataldo, forse c’è un legame che mi è sfuggito tra Cuotolo e Migliorini».

Ricky si era alzato, voleva smettere di parlare di quella faccenda perché gli sembrava di perdere tempo. Da quando erano andati da Galasso, in studio non si parlava che di quello: chi minaccia Gilardi.

«Tu non ci aiuti» disse, secco.

«Hai ragione, Ricky. Non posso aiutarvi. Comunque è della mia vita che stiamo parlando e io ho un bel po’ di responsabilità: due figli e due donne che in qualche misura dipendono da me. Devo risolvere questa storia prima che diventi tragedia. Grazie, comunque. Tu sostituiscimi al processo Fiaschi, io andrò a parlare con Viscardi».

«Non gli dirai di Galasso, ho dato la mia parola».

«Non ce ne sarà bisogno, grazie». Lo seguì con gli occhi finché non vide richiudersi la porta. Ricky Russo era un ottimo avvocato, ma come uomo non riusciva a capirlo sino in fondo, sempre preoccupato della forma, del diritto, delle maniere. Intelligentissimo, ma non aveva fantasia.

Forse ce ne vuole, pensò. Forse.

E strinse i pugni mentre un’idea, all’improvviso, gli attraversò la mente.

Forse in porto era più di uno a comandare. Gli sembrava impossibile che uno solo tenesse quella massa di persone e di interessi. Un uomo solo, con la faccia pulita e tutte quelle atrocità dietro le spalle. Non era lavoro di mafia, non erano i loro metodi, non li riconosceva. La bestia nera era un’organizzazione di molti individui, di questo si convinse. Se uno di loro, uno qualsiasi, avesse avuto ragioni per odiare lui, avrebbe potuto vendicarsi rimanendo nascosto, facendo ricadere la colpa sulla bestia nera del porto. Cioè su nessuno. La bestia nera in questo modo era invisibile. E lui in pericolo.

Rientrato a casa trovò Olga vestita come se fosse pronta per uscire.

«Che cosa succede?» domandò baciandola.

«Siamo invitati a cena da Elena, te ne sei dimenticato?»

«Sì, me ne sono dimenticato, ma ora le telefono che non possiamo andare a cena da lei. Un impegno improvviso, so che capirà».

«Ne dubito, sono quindici giorni che lavora per questa cena. Che cosa è successo?»

«Niente che possa dirti in due parole». Stavano avviandosi verso la camera e Max le mise un braccio intorno alle spalle. «Ho bisogno di te».

La telefonata a Elena fu breve e imbarazzante. Tuttavia Elena gli disse sei volte che le dispiaceva tanto ma che capiva.

«Immagino che tu non possa rimandare».

«No, Elena. Sai che se potessi l’avrei fatto, mi conosci. Quando sarà tutto finito te ne parlerò, ma per ora devo chiederti, come è successo altre volte, di fidarti di me. Mi dispiace, ma so che posso contare sulla tua amicizia».

«Ma certo. Niente di grave, vero?»

Max le fece capire che stava ridendo. «Se non fosse grave, saremmo a cena da te. Ti abbraccio, cara. Grazie».

«E una» disse Olga, slacciandosi la giacchettina nera che aveva scelto per quella cena. «E ora dimmi che cosa succede».

Glielo disse mentre la teneva stretta in ascensore, ogni tanto interrompendosi per baciarla sui capelli. «Mi dispiace, tesoro. Ma per il momento è l’unica soluzione che mi sembra appropriata alla situazione. Prendi la tua macchina, io ti seguo con la mia».

Arrivarono a casa di suo padre in un tempo abbastanza breve, data l’ora e la pioggia avevano trovato poco traffico.

Paola, avvertita per telefono, li stava aspettando sulla porta. «Che cosa succede? Ma è vero? Così sui due piedi… adesso?»

«Sì, per favore. Ti prego». Per quello che poteva dirle le spiegò la situazione che non sembrava troppo chiara neppure a lui. E non voleva spaventarla. Le prese la mano, la sentì fredda. «Mi dispiace, ma voglio che voi siate al sicuro e da Olga lo sarete. Lontani da qui, gente intorno, molto protetti. I bambini?»

«Sono eccitati, puoi immaginartelo. La tata Anja li sta vestendo, io ho preparato un po’ di bagaglio… non sarà per molto?»

«Te lo prometto». E finalmente la vide sorridere.

Dovettero dirlo anche a suo padre, che naturalmente criticò la decisione di Max di spostare tutta la famiglia nella tenuta di Olga, almeno finché le cose non si fossero chiarite.

«Non sai neppure di che si tratta… e se ce l’hanno davvero proprio con te. Te lo sei messo in testa tu, ecco cos’è. Tutto ’sto trasloco, e magari per niente. Ma sei sicuro di quello che stai facendo?»

«Sì, papà, sono sicuro. Voglio che loro stiano un po’ lontani da qui. Almeno finché non abbiamo chiarito la situazione. Noi cercheremo di fare in fretta, il più in fretta possibile».

«Sì… il miracolo di Santa Assuntina. Ma vattene, va’… a me sembra una cosa fatta di fretta e di paura. E con la paura…»

«Possiamo cambiare discorso? Voglio che i bambini vadano da Olga, con la loro mamma, come per una vacanza. Possiamo farli partire tranquilli?»

Paola si era chinata per chiudere le due borse che aveva appoggiato in terra. «Sei in pericolo?»

«No, voglio essere soltanto prudente. Forse sto esagerando un po’? Ma tu sai…»

I bambini erano eccitati, fu necessario raccontare che mamma e papà avevano deciso quella vacanza perché erano stati buoni.

«Ma perché partiamo di notte, papà?»

«Così domattina vi svegliate con i galli invece che con le campane».

«E tu, papà, perché non vieni anche tu?»

«Appena posso vengo a trovarvi, va bene?»

«E la scuola? E i compiti?»

«Zia Olga vi aiuterà… vi divertirete».

«Vieni presto, papà… Bacio».

Bacio. Sulla fronte a Paola, che si era seduta davanti accanto al posto di guida. Dietro con Anja i bambini, che si sarebbero subito riaddormentati. Le borse e alcuni album per i disegni di Paola nel bagagliaio. Sembrava una fuga e in qualche modo lo era veramente. Stavano fuggendo dalla paura.

Olga era rimasta in piedi, davanti alla portiera socchiusa.

«Devo preoccuparmi?»

«No, tesoro. Ti amo» le sussurrò mentre la baciava.

«Ma tu dammi notizie».

«Sì, ti terrò vicina. Sempre».

Richiuse la portiera e attese che la macchina si mettesse in moto e uscisse dal cancello. Dai finestrini vide spuntare le loro mani che si agitavano verso di lui. Stavano salutandolo, i bambini felici di quella vacanza, Olga e Paola con la consapevolezza che Max mai li avrebbe fatti traslocare di notte nella tenuta di Olga, in Toscana, se non ci fosse stata una ragione seria. Molto seria.

Quanto seria?

«È in pericolo?» domandò Paola sottovoce. «Ma che te lo chiedo a fare, non me lo diresti mai. Siamo in pericolo noi?»

«Certamente no, anche se ne so poco». Le disse di come era arrivato a casa e aveva disdetto la cena da Elena. «Credo che stiano dando la caccia a quel cane nero. Ha voluto essere libero di muoversi…»

«E di farsi ammazzare?»

«Ma ti prego, Paola. Ha la polizia e ha sempre Giacomo…»

«Lui i guai se li va a cercare, non lo conosci». C’era tra loro due questa gara a chi lo conosceva meglio, ed era più preparata ai suoi umori e alle sue decisioni anche improvvise. «Di certo non gli è passato il vizio di ficcare il naso nelle faccende che non lo riguardano, anche se sono pericolose» concluse Paola, che si sentiva autorizzata a criticarlo.

«Temo che questa volta la faccenda riguardi proprio lui, altrimenti non ci avrebbe mandato via da Napoli. Speriamo solo che facciano presto».

«Sì… vuoi che guidi un po’ io?»

«No, grazie. Ci sono abituata. Tu riposati e stai tranquilla».

«Per stare tranquilla avrei dovuto sposare un contadino delle mie parti. Con lui… preparati, non è mai calma piatta».

«Che ci scommetti che tra poco ci dice di ritornare?»

«Ecco, questo lo so». Stava ridendo e si era coperta la bocca con la mano. «Questo lo so di certo, lui se la cava sempre».

‘Speriamo’ pensò Olga. Aveva smesso di piovere. Stava accettando quella tregua dal maltempo come un segnale di riappacificazione tra il suo timore e la speranza che tutto si sarebbe risolto presto.

‘Speriamo’, pensò.