21
Laura Ponti guidava già da parecchi minuti prima di accorgersi che non aveva idea di dove stesse andando. Guidava senza una direzione, concentrata a tenere l'auto in carreggiata, seguendo il fascio luminoso dei fari. Un po' era ubriaca, un po' non conosceva bene la strada; fatto sta che si era persa.
Non aveva visto neanche una casa, né altre automobili; sempre e solo alberi, che in cima si toccavano coi rami. Ci sono strade che ci portano alla meta e altre che se ne allontanano, e Laura aveva tutta l'impressione che questa si allontanasse. Allora accostò, e appena fu ferma sentì diminuire il panico: se non altro non si sarebbe persa ulteriormente. Me ne sto un po' qui, si disse, e poi provo a tornare indietro. Se riesco ad arrivare dai Kerr, riesco a trovare la strada di casa. Cercò di ricordarsi il tragitto di andata, ma le sembrò passato un secolo, e ripensando a casa sua le venne in mente Nina: era riuscita a scacciare quel pensiero tutta la sera – le cene erano perfette in questo senso –, ma ora che era sola nel buio, lo vide venire a galla come un brutto pesce. Si sentì assalire da una terribile stanchezza che, unita all'alcol, le fece venire voglia di dormire. Spense il motore e i fari, guardando la luce che si affievoliva. Chiuse gli occhi.
Chiaro che Nina aveva ragione: lei era una donna stupida e patetica. Ecco una delle cose più difficili dell'avere una figlia, perfino assente e lontana come la sua: ti sa vedere dentro. Anche lei naturalmente vedeva dentro Nina. Ma per qualche motivo tutto quell'acume non significava niente: serviva soltanto ad allontanarle.
Riaprì gli occhi. Stava per mettere in moto e tornare indietro quando vide una sagoma camminare lungo la linea bianca della carreggiata. Accese gli abbaglianti e la inondò di luce. Era il ragazzo che era a cena, Robert. Lui si fermò e si schermò gli occhi con la mano; così, in quella posa al centro della strada, sembrava un bambino. Laura spense i fari e aprì la portiera. «Robert?» lo chiamò.
«Sì» rispose lui.
«Sono Laura. Che stai facendo?».
«Cammino».
«Be', lo vedo. Dove vai? Posso darti un passaggio?».
Robert si avvicinò alla macchina. «Stavo andando alla stazione» disse. «Devo tornare a New York».
«Adesso? E perché? Cos'è successo?».
«Non volevo più stare in quella casa».
«Non ti posso biasimare» disse Laura. «Allora, sali e vediamo se riesco a trovare la stazione. Perdermi più di così è impossibile. Da quant'è che cammini?».
«Un quarto d'ora, quasi tutto nel bosco. Sono uscito sulla strada laggiù». Andò alla portiera del passeggero e aspettò.
«Devi aprirla da dentro. Sì, così. Pensavo di tornare indietro, che dici?».
«Va bene».
Laura mise in moto e fece inversione. Dopo un po' gli chiese: «Un litigio fra innamorati?».
«Sì,» rispose Robert «si può dire così».
«E tu non c'hai visto più e hai preso la via del bosco.
Bravo! Non capivo proprio che ci stessi a fare con quel Lyle Wyatt».
«A me piace, ma non credo che in questo momento è pronto per un legame».
«Che sciocchezza. Si è sempre pronti per innamorarsi, non bisogna mica allenarsi».
«Il suo compagno è morto un anno fa».
«Se l'amore arriva, arriva» disse Laura. «Non lo ferma niente, neanche il lutto. Personalmente, lo trovo quasi un po' afrodisiaco».
Robert non rispose.
«Scusami, è stata un'uscita di cattivo gusto. Volevo soltanto dire che non ci sono scuse per non innamorarsi. A parte questo, se poi è un fuoco di paglia resta l'amaro in bocca».
«Eh sì».
«E quando sei giovane è peggio. Non hai il senso della relatività».
«Io ho il mio» rispose Robert.
«É ovvio. Che boriosa che sono».
Continuarono per un po' senza vedere altro che alberi. Arrivarono a un incrocio e Laura rallentò. Da un filo pendeva una luce gialla intermittente. «Be',» fece lei «che dici? Riconosci qualcosa?».
«No» rispose lui.
«Allora svoltiamo. Quando sei in dubbio, svolta».
Lyle rimase per un po' immobile, nel tentativo di orientarsi. Cercò di ascoltare il rumore del fiume ma sentiva solo lo stormire quasi bizzoso del bosco. Cominciò a camminare nella direzione in cui il buio gli sembrava meno totale, con le braccia tese in avanti, cercando di prevenire con la punta delle dita le cose orribili che gli venivano incontro.
A un certo punto l'oscurità si fece meno fitta e riuscì a distinguere i tronchi degli alberi prima di toccarli. E poi gli alberi finirono e lui si ritrovò in una radura col muro serpeggiante di John davanti, e da un lato il fiume, una sorta di buio irrequieto.
Il sollievo di aver ritrovato la strada quasi prostrò Lyle. Raggiunse il muro e si sedette in una delle sue anse, sull'erba arruffata. Gli parve di aver perso conoscenza, e che in quei momenti di assenza il mondo fosse cambiato e l'avesse dimenticato. Sapeva che la casa era dall'altra parte degli abeti, in cima al prato, ma non voleva tornare. Come avrebbe spiegato quello che era successo? E che cosa era successo? Robert era scappato. Sapeva badare a sé stesso, Lyle ne era sicuro. Non sarebbe andato a sbattere contro gli alberi: avrebbe camminato con calma, a zig zag. Lyle si toccò di nuovo il viso e osservò il sangue sulle dita. Lui non aveva badato a Robert. E non sapeva badare neanche a sé stesso, da quando era morto Tony. Non che Tony si occupasse di lui, ma vivendogli accanto in qualche modo lo conteneva e dava forma e funzione alla sua vita; che adesso invece si andava versando scompostamente per il mondo. Senza Tony era senza guida. E Tony era morto.
Una luce rossa al neon lampeggiava la parola diner.
«Perché non ci fermiamo a chiedere la strada» suggerì Laura «e non ci beviamo anche una tazza di caffè? Di caffè vero».
«Buona idea» rispose Robert.
Lei entrò nello spiazzo di ghiaia e parcheggiò fra le macchine. Il diner era lungo e cilindrico, e poggiava su dei gradini di cemento. I divanetti col séparé, disposti lungo il lato dell'entrata, erano divisi dal bancone da uno stretto passaggio. Si sedettero il più lontano possibile dalla porta. Una cameriera con un bricco di caffè e due tazze si avvicinò.
«Caffè?» chiese sollevando il bricco.
«Sì, grazie» rispose Laura.
La donna posò le tazze sul tavolo e le riempì. «Volete il menù?».
«No, grazie».
«Una fetta di crostata?».
«Ti va?» chiese Laura a Robert. «Quali avete?».
«Alla pesca, ai mirtilli, alle fragole e rabarbaro».
«Per me una crostata coi mirtilli» disse Robert.
«Io provo quella con le fragole e il rabarbaro».
La cameriera se ne andò a prendere le torte.
Laura sorseggiò il caffè e fece una smorfia.
«Ci siamo dimenticati di chiederle la strada» disse Robert.
«Sì, mi ha distratto la crostata. Che bello, una fetta di torta in piena notte. La adoro» aggiunse lei come se il suo entusiasmo richiedesse una spiegazione.
«Anch'io. Speriamo che sia buona».
«Qualcosa mi dice di sì. Caffè cattivo e crostata buona. Allora, perché tu e Lyle avete litigato?».
«Oh,» fece Robert «una stupidaggine».
«Non ne dubito» rispose Laura. «Ma perché?».
«Ho sentito per caso Marian che parlava di me. Diceva che non ero la persona giusta per Lyle, e che non sarebbe durata. E allora ho chiesto a lui cosa ne pensava».
«E cosa ti ha risposto?».
«All'inizio niente, ma poi, quando ho insistito, era d'accordo con lei».
«Non avresti dovuto insistere».
«Perché no? Lo volevo sapere».
«Sì, però vedi, se non avessi insistito, non avreste fatto quel discorso e sareste ancora insieme, e quando sarebbe venuto il momento di farlo – se fossi stato così sciocco da entrare di nuovo in argomento – la sua risposta avrebbe potuto essere molto diversa. Non insistere mai per avere una risposta che non vorresti sentirti dare».
«Ero sicuro di un'altra risposta. Almeno, lo speravo».
«Tieni la speranza per te» gli disse Laura. «Le persone vivono la speranza degli altri come un'intimidazione, specialmente chi è avanti negli anni come Lyle e me. E poi la speranza può essere di una noia mortale».
«Quindi secondo te ho sbagliato?».
«Sbagliato? Non è una questione di giusto o sbagliato. Tu naturalmente hai fatto quello che dovevi fare, per cui era la cosa giusta, direi, ma non prendertela con Lyle. L'unico con cui puoi prendertela è con te stesso».
Comparve la cameriera con le crostate. Portò anche il bricco del caffè.
«Adesso non dormirò più» disse Laura accettando che le riempisse nuovamente la tazza. «Vorremmo sapere come si arriva alla stazione dei treni» aggiunse.
«Quale stazione?» chiese la cameriera.
«La più vicina per prendere un treno per New York» spiegò Robert.
«Hudson, dall'altra parte del fiume» rispose la donna. «Girate a destra e scendete fino al fiume. Lì girate a sinistra e fate una quindicina di chilometri finché non arrivate al ponte. Dall'altra parte c'è Hudson».
«Quindici chilometri! É sicura che non ce ne sia una più vicina?» chiese Laura.
«Sì, sono sicura» rispose la cameriera e se ne andò.
«E là che sei sceso all'andata?».
«No» disse Robert.
«Dobbiamo esserci persi più di quanto credevamo».
Mentre Lyle risaliva il prato si aprì la porta sul retro e comparve John con una torcia; il fascio di luce gli ballonzolava intorno ai piedi. «Lyle?» fece.
«Sì,» rispose lui «dove vai?».
«Mi sembrava di aver sentito dei caprioli e volevo assicurarmi che non fossero nell'orto. Robert dov'è?».
«E… in casa».
«Ah,» disse John «non l'ho visto».
«Sarà entrato piano, gli ho detto di non far rumore; ho immaginato che dormivate».
«Marian sì, dorme, ha mal di testa. Mi dispiace per quella storia delle forbici da uva».
«Non è stata colpa tua» disse Lyle. «Non è stata colpa di nessuno».
«Marian però è stata scortese».
«No, non credo fosse sua intenzione. Al contrario, penso che la intendesse come una cortesia. Sono stato un po' a guardare il tuo muro, di notte è ancora più bello».
«Pensavo di costruire qualcos'altro».
«Cosa?».
«Non so». John puntò la torcia verso il cielo, proiettando un pallido cerchio di luce contro le stelle. «Forse col legno, una struttura alta, una specie di torre di rami».
«Interessante» disse Lyle.
«Ehi,» fece John puntandogli la luce sul viso «che ti è successo?».
Lyle si toccò la faccia; il sangue sul mento e sulle guance era secco. «Sono finito contro un albero, era buio pesto».
«Avresti dovuto prendere la torcia. Ti senti bene?».
«No, non credo» rispose lui dopo qualche attimo.
John si avvicinò e gli toccò il viso accostando la torcia. «Sanguina ancora un po'. Andiamo in casa a dargli una pulita».
Quel contatto fece scoppiare a piangere Lyle.
«Che succede?».
Lyle voleva essere abbracciato, ma non sapeva come fare. Mosse qualche passo verso John e gli disse: «Abbracciami».
John lo fece all'istante e lo tenne saldo come per proteggerlo. Non aprì bocca. Dopo poco si staccò, mise un braccio intorno alle spalle di Lyle e cominciò ad accompagnarlo verso casa.
«Aspetta» fece Lyle.
John si fermò.
«Robert non è in casa».
«E dov'è? Cosa è successo?».
«E… abbiamo litigato. Se n'è andato alla stazione».
«E come?».
«A piedi. E scomparso nel bosco».
«Non ci arriverà mai, la stazione è a parecchi chilometri. E meglio se prendiamo la macchina e andiamo a cercarlo. Non può essere troppo lontano».
«No» disse Lyle.
«Come ti sei… sei finito davvero contro un albero? O te l'ha fatto Robert?».
Lyle si toccò il viso. «No, no, è stato un albero. Stavo cercando di seguire Robert e ci ho sbattuto contro. Ho perso gli occhiali, devono essere caduti».
«Li troveremo domani. Andiamo a darti una pulita e poi a cercare Robert».
«E che… se vengo anch'io può darsi che lui non… Ti dispiacerebbe andarci da solo? Non credo mi voglia più vedere. E se lo trovi, potresti portarlo alla stazione».
«Ma a quest'ora non passano treni e domani è domenica. Il primo sarà alle otto». «Ah, già».
«Comunque ci provo. Semmai lo riporto qui» disse John. «Domani mi sveglio presto e lo accompagno alla stazione».
«Che cosa assurda. Ho fatto un gran casino, scusami».
«Non ti preoccupare. Intanto andiamo a ripulirti la faccia».
Si mossero verso casa. «Mi faresti un altro favore?» chiese Lyle.
«Certo. Cosa?».
«Non dire niente a Marian».
«Come si fa?» fece John. «Non troverà normale che Robert sia scomparso nel nulla».
«Le parlo io…» disse Lyle «domani».
Marian non dormiva. Era seduta a letto e aspettava. John era uscito a controllare l'orto mezz'ora prima e non era ancora tornato. E non si erano più visti neanche Lyle e Robert. Quell'assenza generale era allarmante: che stava succedendo là fuori? Alla fine sentì dei rumori, e pensò fossero Lyle e Robert; poi però sentì anche la macchina: qualcuno l'aveva messa in moto ed era partito. Era una cosa stranissima. Scese dal letto e andò verso la camera gialla. Sotto la porta, sul pavimento, c'era una striscia di luce. Rimase lì davanti un momento, ma tutto taceva. Bussò.
«Sì?» rispose Lyle.
«Lyle, sono Marian. Tutto a posto?». «Sì».
«E John che è andato via in macchina?». «Sì».
«Sai dove?».
Ci fu qualche attimo di silenzio. «Laura Ponti ha dimenticato qui le chiavi di casa. E andato a portargliele».
«Ah» fece lei. «E lui come lo sapeva?».
«Sapeva cosa?».
«Che aveva lasciato le chiavi».
«Non so, avrà telefonato lei».
«Non ho sentito il telefono» disse Marian.
«Forse dormivi. O magari non ha chiamato, e John le ha trovate. Ha detto che tornava subito».
«Va bene. Scusa il disturbo, ma ero curiosa. Avete fatto una bella passeggiata?».
«Sì» disse Lyle. «Buonanotte».
«Buonanotte. Buonanotte, Robert».
Robert non rispose. Marian rimase lì qualche secondo, poi poggiò una mano sulla porta come se potesse intuire cosa succedeva dentro. Dopo un momento si spense la luce. Non c'era alcun rumore. Ebbe la sensazione che qualcuno – Lyle – fosse in piedi dall'altra parte della porta, fermo e silenzioso come lei.
Il banchetto dell'azienda agricola era chiuso, le cassette vuote ma piene di luce lunare. Mentre ci passavano davanti Laura mandò un gridolino e si fermò.
«Che c'è?» chiese Robert.
«So dove sono!» esclamò lei. «E il banco di frutta e verdura dove vengo sempre a far la spesa. Io abito qui vicino. Ascolta: perché stanotte non dormi a casa mia?
Ci vorranno ore prima che passi un treno, sempre ammesso che troviamo quella stazione della malora. Ho una camera per gli ospiti e potrai incontrare mia figlia, la diva del cinema. Anzi, potrà darti un passaggio fino a New York, immagino che tornerà da dove è venuta. Che te ne pare?».
«Sei molto gentile,» le rispose Robert «ma…».
«Ma cosa?».
«E che voglio tornare a Manhattan il più presto possibile. Non mi importa di aspettare alla stazione».
«Ma potresti starci per ore!».
«Non mi importa, davvero. Anzi, mi sta bene. Stare da solo per un po'».
«Secondo me sei pazzo» disse Laura.
«Lo so» rispose Robert. «Ascolta però, non voglio farti girare tutta la notte. Da qui posso andare a piedi».
«Figuriamoci. Anche se odio l'idea di essere complice di questa scemenza, non ti lascio a piedi, non abbiamo idea di quanto sia lontana davvero la stazione». Mise in moto la macchina. «Allora, sei sicuro?».
Robert annuì.
Ripartirono e dopo un po' Laura disse: «Visto che ti faccio la gentilezza di accompagnarti, spero che tu mi permetta di darti un consiglio».
«Quale?» chiese lui.
Laura lo guardò e poi tornò con gli occhi sulla strada. «Non ti piangere tanto addosso» disse. «E inevitabile farlo, ma è una enorme perdita di tempo: non ti porta da nessuna parte. Parlo per esperienza».
«Non mi piango addosso» disse Robert.
«Invece sì». Lo disse col tono di chi constata un fatto, non di chi dà un giudizio. «Hai deciso di passare una nottata di dolente strazio alla stazione. Ma non straziarti troppo a lungo».
Robert non rispose; si guardava le mani.
«Ti dico queste cose perché mi piaci» continuò Laura «e non ho paura di dirtelo. Anche in questo si perde un sacco di tempo. Tu sei di gran lunga una delle persone più interessanti che abbia conosciuto in questa squallida estate».
Robert alzò le spalle e fece un sorrisetto.
«Lo vedo che in te c'è molto altro, e sono sicura che è questo ad aver affascinato Herr Wyatt. E anche la tua bellezza, ovviamente. Sei molto attraente, e io sono un'ottima giudice in questo campo. E Wyatt sarà anche un vecchio bacucco ma non è stupido. Neanche un po'».
Sulla destra apparve il ponte: era sospeso su un fiume di nebbia. La loro era l'unica macchina. «Grazie» disse Robert.
«Prego».
«Anche tu mi piaci,» disse lui «sei molto intelligente e simpatica».
«Buffo sentirmelo dire. Per quanto mi riguarda, ero arrivata a una conclusione diversa, stasera».
Arrivati al centro della cittadina un cartello indicava la stazione ferroviaria.
Laura entrò nel parcheggio deserto. «Non promette niente di buono».
«No».
«Puoi sempre cambiare idea».
«Sì» fece Robert, senza accennare a muoversi per scendere dalla macchina. «E stato bello andare in giro con te» disse. «E la crostata. Grazie».
«Sì,» gli rispose lei «anche per me. Ci siamo divertiti, in un certo senso, non trovi?». «Sì».
Laura tamburellò con le dita sul volante. «Ti voglio fare una domanda. Mi risponderai sinceramente?».
«Ci proverò».
«Hai detto di essere un pittore. Sei bravo?».
«Non lo so».
«Devi pur avere un'idea in proposito. Secondo te sei bravo?».
A Robert ci volle qualche momento per rispondere: «Sì, penso di sì».
«Allora ti propongo una cosa. Ti ricordi gli affreschi… quelli che vanno restaurati?». «Sì».
«Perché non vieni tu a farlo? Sarei contentissima».
«Non so niente di restauro».
«Sono sicura che sei in grado di imparare. E poi li ha già rovinati Laura Ashley, potresti solo migliorarli».
«Ma tu intendi… venire in Italia?» chiese Robert.
«Da qui» rispose Laura «sarebbe un po' difficile».
«Non sono mai stato in Italia».
«Non è un requisito indispensabile».
«E quando?».
«Quando vuoi, ma pensaci, e prima è meglio è. Ovviamente ti pago, e nel casale c'è un appartamentino tutto per te. Vivo nella più bella villa italiana, e la cosa carina è che là possono dirlo quasi tutti senza mentire. Ci farai un pensierino?».
«Sì,» rispose Robert «certo».
«Allora d'accordo. Su, scendi e aspetta il treno. Io vado a casa». Laura aprì la borsetta e tirò fuori una scatolina argentata. «Prendi il mio biglietto da visita. In Italia tornerò a settembre. Fatti sentire, qualsiasi cosa tu decida. Se non altro per farmi sapere che è passato il treno». Glielo porse.
«Grazie,» fece Robert «lo farò». Scese dalla macchina. «Grazie del passaggio».
«E stato un piacere» rispose Laura. «Buonanotte».
Quando finalmente Laura arrivò, la casa era completamente immersa nel buio. Entrò in cucina e bevve un bicchiere d'acqua. Era tutto ordinato e pulito. Nina era stata davvero brava. Brillavano tutte le superfici, ogni cosa era ben sistemata, perfino il piatto della frutta, disposta perfettamente a piramide.
In quell'ordine Laura intuì una tregua.
Spense la luce e si avviò in corridoio. La porta della stanza di Nina era accostata. La chiuse senza far rumore e andò in camera sua; si sedette sul letto, si tolse gli orecchini e fece il numero dei Kerr.
Marian rispose al primo squillo. «Pronto?» disse.
«Marian? Sono Laura. Scusami per l'ora, ma ho creduto che ti avrebbe fatto piacere sapere che Robert l'ho portato alla stazione».
«Robert?» chiese Marian.
«L'ho trovato lungo la strada e l'ho accompagnato alla stazione. Ho pensato che foste in pensiero».
«Scusa, Laura, non capisco di cosa stai parlando. Perché l'hai portato alla stazione?».
«Perché ci voleva andare».
«E John dov'è?».
«John?».
«Pensavo che avessi dimenticato le chiavi di casa. John te le stava portando».
«No, le chiavi le ho. Per favore, di' a Lyle che ho chiamato. E grazie davvero per la bella cena. Buonanotte».
«Buonanotte». Marian riagganciò e rimase seduta nel letto cercando di capirci qualcosa. Era come se gli altri giocassero a un gioco da cui l'avevano esclusa. Poi sentì la macchina rientrare, quindi John che saliva le scale e camminava lungo il corridoio. Lui aprì la porta e la vide.
«Che succede?» le chiese.
«Dillo tu a me» gli rispose Marian. «Ha appena chiamato Laura Ponti e ha detto che ha portato Robert alla stazione».
«Ah, l'ha trovato? Bene».
«Come, bene? Che cos'è questa storia?».
«Robert e Lyle hanno litigato. Robert è corso via nel bosco, Lyle ha cercato di seguirlo ed è finito contro un albero».
«Si è fatto male?» chiese Marian.
«Si è ferito un po' in viso» rispose John. «Ed è sconvolto».
«E tu dove sei andato?».
«A cercare Robert. Dovrei dire a Lyle che Laura Ponti l'ha trovato. Sono sicuro che sta in pensiero».
«A me ha mentito» disse Marian. «Mi ha raccontato che Laura aveva lasciato le chiavi qua e che tu eri andato a riportargliele».
«Torno subito» disse John. Percorse il corridoio e bussò alla camera gialla.
«Sì?» fece Lyle.
John aprì la porta. «Sono io».
Lyle era a letto, seduto. Lo guardò come un bambino in attesa, i raggi della luna che gli piovevano addosso dalla finestra. «L'hai trovato?».
«No,» rispose John «ma ha telefonato Laura Ponti, l'ha trovato lei. L'ha portato alla stazione. Pensavamo che ti facesse piacere saperlo».
«Sì,» disse Lyle «grazie».
«Come va la faccia?».
«Bene».
«Hai bisogno di qualcosa?».
«Grazie, no».
«A Marian l'ho detto» fece John. «Tanto perché tu lo sappia».
Lyle annuì. «Sono dispiaciuto per tutta questa faccenda».
«Non esserlo, sono cose che capitano».
«Sta bene?» chiese Marian quando John tornò a letto. «Sì».
«Povero Lyle. Perché hanno litigato?».
«Mah, non so, non voleva dirmelo. Vuole dirlo a te domani mattina».
«Perché mi ha mentito? Non è da lui».
«Si vede che si vergogna. E poi… non lo so, è molto agitato».
«Allora avevamo ragione» disse Marian dopo un po'.
«Oh, Marian» fece John.
«Che cosa?».
«Sei proprio cattiva. Non è una cosa di cui andare fieri».
Lei non rispose.
«Voglio dormire». John si voltò dall'altra parte e rimase così. Sentì che Marian si metteva a piangere, e sussultava, dietro di lui. Chiuse gli occhi e dopo qualche momento si girò verso di lei e l'abbracciò.
Lyle era ancora sveglio. Che si fa, pensava, quando uno è miseramente incapace di vivere la propria vita? Quando vorrebbe prenderla a bastonate, e accanircisi sopra fino a farla a pezzi?
Scese dal letto e andò alla finestra. Le mazze da croquet giacevano sul prato come armi abbandonate. La tovaglia, ancora sul tavolo, sventolava nella brezza. Era l'unica cosa a muoversi, tutto il resto del mondo era fermo, e silenzioso, a parte il rumore del fiume. Lyle si sedette sull'orlo del letto e poggiò la testa fra le mani: avevano uno strano odore di terra, di sangue. Ci respirò attraverso, premendole sul viso. Chissà se avrebbe mai rivisto Robert, si chiese. Quando torno gli telefono, pensò, e gli chiedo scusa. Scusa di cosa, di essere stato sincero? Di non averlo ingannato? Un po' però l'ho fatto. Sì, ma questa è la vita: incontri una persona e la inganni, oppure è lei a ingannare te, e poi si volta pagina. Non è una cosa tanto brutta. Non si approderebbe a nulla senza ingannare nessuno.
Lyle andò a lavarsi il viso e le mani. La luna adesso splendeva di fronte alla casa, e in fondo al corridoio vide la camera gialla inondata di luce. Arrivato sulla porta guardò per qualche istante i due letti affiancati, i copriletti ben tesi dalle mani esperte di Marian. Si sedette su uno dei due. Ci sono cose che si perdono e non tornano indietro; non si possono riavere mai più, se non nella copia carbone della memoria. Ci sono cose a cui sembra impossibile rassegnarsi ma a cui rassegnarsi è inevitabile. Lo scorrere dei giorni leviga il dolore ma non lo consuma: quello che il tempo si porta via è andato, e poi si resta con un qualcosa di freddo e duro, un souvenir che non si perde mai. Un piccolo bassotto di porcellana delle White Mountains. Una marionetta del teatro delle ombre di Bali. E guarda: un calzascarpe d'avorio di un hotel a quattro stelle di Zurigo. E qua, come un sasso che porto ovunque, c'è un pezzetto di cuore altrui che ho conservato da un vecchio viaggio.