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«Che strano,» disse Lyle «di solito è qui ad aspettarmi». Il parcheggio della stazione era ormai vuoto e silenzioso; le auto venute per l'arrivo del treno se ne erano andate tutte.

«Ci sediamo?» chiese Robert. Sul marciapiede c'era una panchina di cemento dall'aria poco confortevole. Accanto, dei distributori automatici di giornali.

«No» rispose Lyle in tono un po' brusco, ma appena se ne accorse aggiunse: «Mi sgranchisco un po' le gambe». Si mise a camminare avanti e indietro, come per avvalorare la sua affermazione. Robert, seduto sulla panchina, lo guardava. Cominciava a far caldo. Allungò le gambe nude al sole bloccando l'andirivieni di Lyle.

«Dài, siediti» gli disse. «Rilassati».

Lyle fece ancora qualche passo, giusto per dimostrare che non prendeva ordini da lui, e poi si sedette. «Sembri nervoso» gli disse Robert.

«Lo sono» gli rispose.

«Perché?».

«Non lo so».

«Sono io» fece Robert «che dovrei essere nervoso».

«E perché?».

«All'idea di incontrare John e Marian».

«Ma se ti ho appena detto che sono due persone disponibili e meravigliose e che non hai niente di cui preoccuparti?».

«Allora neanche tu».

«Certo». Lyle s'appoggiò allo schienale. Gli sembrava di avere la nausea. Tentò di convincersi che fosse il treno, ma sapeva che non era così. Non c'era niente nel posto in cui era, nella persona che lo accompagnava, nel luogo in cui era diretto e neppure in sé stesso che gli apparisse giusto e sensato, e l'idea di essere lì con Robert ad aspettare Marian gli sembrò improvvisamente sciocca e spaventosa. Si stava chiedendo se c'era il tempo di attraversare i binari e riprendere il treno per New York, quando vide una macchina deviare dalla strada principale e imboccare la discesa verso la stazione. Era Marian. Lyle provò a dire qualcosa ma non ci riuscì; indicò l'auto.

«E lei?» chiese Robert.

Lyle annuì e si alzò, conscio che Robert era in piedi al suo fianco, che Marian fermava la macchina e scendeva di corsa. Però lei era talmente spumeggiante e gioiosa che il piacere di rivederla dopo tanto tempo gli fece dimenticare le sue paure. Andrà tutto bene, si disse.

«Lo sapevo che mi stavate aspettando!» esclamò Marian. «Mi dispiace di essere in ritardo. E molto che siete qui?».

«No,» riuscì a dire Lyle «niente affatto. Marian, lui è Robert. Robert, Marian».

«Ciao» disse Robert. Si strinsero la mano.

«Ci fa piacere averti qui con noi questo weekend» gli disse lei; poi si rivolse a Lyle. «E tu, Lyle…». Lo abbracciò forte carezzandogli la schiena. «Che meraviglia vederti. Stai benissimo».

Dietro alle spalle dell'amica Lyle vide Robert che osservava il loro abbraccio. Aveva un sorriso che non riuscì a decifrare, e neppure gliene importava, così chiuse gli occhi. Marian lo strinse più forte come se avesse capito, e Lyle immaginò che avesse chiuso gli occhi anche lei, in un abbraccio cieco, molto stretto. Poi Marian si staccò.

Salirono in macchina, Lyle davanti e Robert dietro con i bagagli. «Ci fermiamo al mercato del pesce e a comprare da bere, e poi dritti a casa» disse lei. «Va bene? Tu mangi il pesce, Robert?». «Sì».

«Ottimo». Erano fermi al semaforo. Per qualche secondo nessuno aprì bocca, ma appena si immisero nel traffico, Marian disse: «E il viaggio in treno com'è andato?».

«Bene» rispose Lyle.

«C'era tanta gente?». «Sì».

«Per me è una strada deliziosa,» riprese lei «una delle mie preferite… tutta lungo il fiume. Eri già venuto?» chiese a Robert.

«No» le rispose.

«Mai stato da queste parti?».

Le disse di no.

«Non è male, soprattutto d'estate. É un po' in mezzo al nulla, non c'è molto da fare, ma a me non dispiace. Puoi farti comodamente un giro a New York, se ti va, anche se adesso, con Roland, non se ne parla più». Marian si mise a ridere.

«Come sta, Roland?» chiese Lyle.

«Bene. E a casa che aiuta John nell'orto. Roland è nostro figlio» disse rivolta allo specchietto retrovisore. «Il prossimo mese compirà un anno».

«Sì, me l'ha detto Lyle» fece Robert.

Marian entrò nel parcheggio di un piccolo centro commerciale. «Allora, io faccio un salto da Elmer's a prendere il pesce. Vi dispiacerebbe andare da Kroegstadt a comprare le birre? Tu bevi birra, Robert?».

«Sì, con piacere».

«Ottimo. Prendete la marca che preferite. Una cassa, ha detto John. Ecco, basteranno venti dollari? Non ne ho proprio idea».

«La birra la compriamo noi» disse Lyle.

«No, no, escluso. Tieni» fece Marian porgendo i soldi a Robert. «Prendili, insisto».

Lui non sapeva cosa fare. «Sicura?» le chiese.

«Sì, per favore. Se non li prendi mi offendo».

John stava cercando di preparare il campo da croquet anche se Roland gli gattonava dietro e sfilava le porte che lui aveva appena piantato. Era un'attività, se ne rendeva conto, a cui suo figlio si applicava con grande serietà, mandando ogni tanto un piccolo singhiozzo di piacere. Dopo una ventina di minuti Roland si stancò. Allora John prese la mazza e iniziò a colpire una palla gialla, mentre il bambino si metteva a sedere sulle altre come per covarle.

Il croquet era stato un regalo di Tony, che era un ottimo giocatore. Durante la partita, con la mazza in una mano e il cocktail o la sigaretta nell'altra, sembrava indifferente, senza una tattica, distratto, ma verso la fine metteva da parte il bicchiere o il tabacco e in pochi colpi concludeva vittorioso la partita.

Letale! esclamava, sono letale!

Quando John aveva cinque anni sua madre aveva divorziato ed era andata a vivere in Italia, e lui era rimasto a New York con suo padre. Tony era nato un anno dopo da un padre italiano che, come diceva la donna, «non c'era mai stato davvero». John passava le vacanze in Europa, ma Tony era molto piccolo e a lui toccava giocare da solo nei resort sul Mediterraneo che frequentava la madre. Dopo un paio d'anni il padre aveva chiesto a John se non gli sarebbe piaciuto andare al campeggio estivo e lui aveva detto di sì. Camp Phoenicia era molto diverso dal Club Azul, ma lui apprezzava la differenza. Sapeva di essere diverso, anche allora. A volte, negli afosi boschi di conifere americani gli arrivava una zaffata che gli ricordava i cipressi in Italia e pensava: Tony e la mamma sono al mare. Io no, non sono come loro. Poi gli venivano in mente suo padre e Florence (la seconda moglie), e Susannah (la sorellastra) e pensava: non sono neanche come loro. Io sono qui a Camp Phoenicia nel New Hampshire, da solo. Era stata la prima volta che aveva avuto consapevolezza di sé, che aveva capito chi era, e per certi versi non aveva mai smarrito quella sensazione. E, nella sostanza, non era mai cambiato. Tutti gli anni trascorsi da allora erano come una pozza d'acqua limpida, dentro la quale riusciva sempre a vedere, e a riconoscere, quel bambino da solo, nel bosco.

Un'estate, quando ormai John era capogruppo, a Camp Phoenicia avevano mandato Tony. Lui però odiava il campo, odiava tutto: i letti a castello, gli sport, il lago freddo, la roba da mangiare e gli altri ragazzi. Tremava di continuo e diceva che non riusciva a scaldarsi. Due settimane dopo venne rispedito in Italia. John lo prese come un fallimento personale: era compito suo occuparsi del fratello.

Quell'esperienza in qualche modo li separò, ma col passar del tempo si rivelò benefica per entrambi. Tony continuò a sviluppare una personalità molto diversa da quella di John, e John smise di voler fare di Tony un maschio americano. Per un po', durante l'adolescenza, pensarono non soltanto di essere diversi, ma l'opposto, ed ebbero ben poco a che fare. Crescendo, però, e diventando più complessi, le posizioni antitetiche che avevano assunto con tanta facilità si rivelarono scomode e difficili da mantenere, e cominciarono ad addolcirsi. Da adulti scoprirono di essere affezionati e curiosi l'uno dell'altro.

John aveva mandato la palla giù fino al fiume quando sentì Marian chiamarlo. Davanti alla casa, vide Marian con Roland in braccio e accanto Lyle e un giovane in pantaloncini. Guardavano tutti verso di lui e Marian gli fece segno di tornare. John colpì la palla più forte che poté e poi un passaggio dopo l'altro risalì il prato.

«Ti stai esercitando,» disse Lyle «non vale».

«Ehi,» fece John ansimante «che bello rivederti». Si strinsero in un abbraccio sincero ma un po' impacciato, perché non avevano mai saputo come gestire la parte fisica della loro amicizia.

«Lui è Robert» disse Lyle. «Robert, ecco John».

Si strinsero la mano. «Il viaggio è andato bene?» gli chiese John.

«Sì» rispose Robert.

«Guarda,» gli fece Lyle indicando in fondo al prato «il fiume».

«Sì, vedo». Poi Robert realizzò che Lyle voleva anche sollecitare un commento, e così aggiunse: «É bellissimo».

«Già» rispose Lyle guardandosi intorno. «E l'orto?» chiese a John.

«Quest'anno mi sono superato» gli rispose. «E poi devo farti vedere il muro».

«Be', allora andiamo».

«Non vuoi entrare, prima?» gli chiese Marian. «E magari darti una rinfrescata?».

«Mi sento freschissimo» disse Lyle.

«E tu, Robert? Perché non portiamo su le tue cose? Ti mostro la stanza e ti offro anche qualcosa di ghiacciato da bere. Hai sete, mi pare».

«Io arrivo fra un attimo,» disse Lyle «voglio solo dare un'occhiata al muro».

«Ha una funzione pratica o estetica?» chiese Lyle a John mentre scendevano lungo il prato. «Perché?». «Come, perché?». «Perché mi fai questa domanda». «Per saperlo».

«A quanto ne so,» disse John «né l'una né l'altra». «E allora che funzione ha?».

«Forse dovrei mostrarti l'orto… Il muro non credo che tu lo capisca». «Che c'è da capire?». «Che non c'è niente da capire». «Suona molto zen» disse Lyle.

«Da questa parte». John entrò fra gli abeti che delimitavano il prato. Sotto gli alberi c'era una cappa afosa e un odore pungente; era sgradevole. Dall'altra parte si apriva una radura che Lyle non aveva mai visto, con dei ciuffi d'erba così alti che si curvavano di qua e di là, come anime penitenti. La radura era percorsa da un muro di pietra alto quasi un metro, a forma di esse imperfetta. Costruito con grosse pietre alla base, andava stringendosi, e in cima terminava con dei ciottoli.

«Ecco» disse John.

Lyle si mise a camminarci intorno. Prese qualche sasso tondo in cima, lo tenne nel palmo e lo rimise a posto. «Come ti è venuta questa idea?».

«Non lo so,» rispose John «ho cominciato a costruirlo e questo è il risultato».

«Mi ricorda qualcosa».

«Cosa?».

«Ora mi sfugge» disse Lyle. «Forse per la forma che ha, come definisce lo spazio. Mi piacerebbe vederlo dall'alto. Quant'è che ci lavori?».

«Non tanto. Da questa primavera, da marzo».

«E molto bello». Lyle tornò al fianco di John. «Ha un'aria druidica. Dovremmo venire di notte a fare una cerimonia».

«Una cerimonia di che tipo?».

«Non so, con le candele e i tamburi,» rispose Lyle «e noi tutti nudi. Sono sicuro che succederebbe qualcosa».

Rimasero a guardare il muro per qualche istante in silenzio. «Dovrei andare da Robert,» disse poi Lyle «sarà un po' sulle spine».

«Da quanto tempo lo conosci?» chiese John.

«Non tanto».

«Dove l'hai incontrato?».

«A Skowhegan. E un pittore». «Ah».

«Stiamo trasformando lo studio di Tony in uno studio per lui». Lyle sapeva di dire troppo e troppo in fretta, ma gli pareva importante nominare Tony. Se ne parlavano, se lo includevano nel discorso, non sarebbe stato una presenza costante fra loro. «Mi sembrava stupido» continuò «lasciare una stanza a riempirsi di polvere».

«Sì» rispose John. «E un bravo pittore?».

«A dir la verità non ne ho idea, e non me ne importa granché. Non ci tengo a fargli da mentore. E poi, non hai letto il mio libro? L'ho teorizzato. Non possono esistere bravi pittori, la pittura è morta».

«Immagino che questo semplifichi il tuo lavoro di critico».

Lyle guardava il muro: proiettava in terra una strana ombra curvilinea. «Pensi che non avrei dovuto portarlo?».

«Figurati,» rispose John «ci mancherebbe».

«E Marian?».

«Siamo contenti tutt'e due».

Ci fu un breve silenzio.

«Lei come sta?» chiese Lyle.

«Da quando ci siamo trasferiti qui il suo umore è buono. A parte Tony, ovviamente». «Già».

«Tu come l'hai trovata?» domandò John.

«Bene. Rivederla è meraviglioso». «Sì».

«E tu?» chiese Lyle.

«Anche a me piace stare qui».

«Io è il posto che preferisco al mondo».

«Dovresti venirci più spesso, allora» disse John.

«Sì, è mia intenzione, ma ho avuto bisogno di staccarmi per un po'».

«Ci sei mancato». Anche John fissava il muro come se assorbisse tutta la sua attenzione.

«Secondo me,» disse Lyle «il tuo muro è bellissimo».

Si infilarono di nuovo fra gli abeti e risalirono il prato. Il sole era alto e ora batteva sul retro della casa: le finestre brillavano e a Lyle la casa sembrò più bella che mai. Marian e Robert erano là dentro, ma non riusciva a immaginare dove, né cosa mai potessero dirsi.

«Alcune parti risalgono al Settecento» diceva Marian mentre precedeva Robert al piano di sopra.

«Quali?» le chiese.

«Mmm, una zona della cantina… C'è una… come si chiama? Una cantina interrata. E poi il camino, in quella che adesso è la biblioteca – prima era una sala. Conosci Derek Deitz e Granger Salomon?».

«No» rispose Robert.

«Sono restauratori di case antiche. Hanno lavorato parecchio nella zona e questa è stata la prima casa di cui si sono occupati. All'inizio io e John ci venivamo soltanto nel weekend, ma due anni fa ci siamo trasferiti definitivamente». Erano arrivati al primo piano e si fermarono sotto un raggio di sole che batteva sul pianerottolo. «L'unica cosa non autentica sono questi lucernai» disse Marian indicando una finestra a riquadri sul soffitto inclinato. «Derek e Granger a momenti mi facevano causa quando li ho montati, ma quassù era troppo buio con gli alberi così a ridosso della casa. E io una casa tetra non la sopporto».

Tacque e Robert si rese conto di dover dire qualcosa, ma non sapeva proprio cosa dire: una casa tetra non piaceva a nessuno. Sorrise.

«Io non li trovo così brutti,» continuò Marian «non sono mica quelle orribili bolle che vendono adesso. E da fuori nemmeno si vedono. Li ho fatti fare apposta; ho comprato i telai a un'asta e il vetraio mi ha messo i vetri temperati. Secondo me non bisogna esagerare con l'autenticità, io non voglio vivere in un museo».

«Io ho sempre pensato che sarebbe bello viverci» disse Robert. «I musei mi sembrano molto più belli delle case».

«Ma non sono case» ribatté Marian. «Nelle case ci si vive, i musei sono fatti per essere visitati».

«Dipende dalla casa» rispose Robert.

Marian lo guardò un istante cercando di capire se la sua era una riflessione o un attacco polemico, ma inutilmente. «Voi due vi metto nella camera gialla. In genere detesto le persone che chiamano le stanze secondo i colori, ma in questa casa sembra che vada così, visto che ogni stanza ha un colore diverso. Magari ti interessa sapere che i colori sono una replica di quelli che Jefferson scelse per la sua villa a Monticello».

«Ah» fece Robert.

«Se questi discorsi di casa ti annoiano, dimmelo pure. Non so perché ma mi sento costretta a parlarne. Posso diventare una vera barba».

«No, mi interessa. E una casa molto bella».

Marian aprì una porta. «Questa è la scala di servizio che porta giù in cucina,» disse «se vuoi una scorciatoia. Però ora la porta la teniamo chiusa perché Roland ha cominciato a gattonare».

«Okay».

«Là c'è la vostra stanza» disse Marian infilando il corridoio. Alle pareti erano attaccate tante fotografie di varie dimensioni, alcune vecchie, altre recenti. Tutti ritratti, notò Robert, gente di paesi diversi in epoche diverse, alla rinfusa. Marian vide che le guardava. «Ce n'è una divertentissima di Lyle. Eccola qua» disse indicando una foto di Lyle vestito in modo strambo, con un paio di culottes e un giubbotto.

«E vestito da pirata?» chiese Robert.

«No». Marian scoppiò a ridere. «Era Lysander in Sogno di una notte di mezza estate. Ogni anno facevamo una festa per il solstizio d'estate e la gente doveva venire vestita come i personaggi della commedia, che poi recitavamo all'aperto. Lyle era sempre restio a farlo. E buffo come certe persone che in fondo hanno un animo teatrale, di fronte alla possibilità di recitare, si chiudano a riccio. Non lo capisco».

Vicino c'era una foto di Lyle con un uomo accanto a un cammello, nel deserto. La linea dell'orizzonte era interrotta solo dalle piramidi. Il cammello aveva mosso la testa, che era venuta un po' sfocata, ma i due uomini fissavano immobili l'obiettivo, e ora Robert e Marian.

«E Tony?».

«Sì. Sono andati in Egitto nel… nell'87, mi pare. Lyle voleva farsi crescere i capelli. Era orribile».

«Già».

Marian lo guardò come se avesse dovuto contraddirla. Si voltò e gli disse: «Potete usare questo bagno». Robert diede un'occhiata dentro: era molto più grande di un bagno normale. In mezzo alla stanza c'era una vasca coi piedini in stile inglese e contro il muro un divano superimbottito. «Non c'è la doccia, ma solo quei cosi a mano» disse Marian. «Spero non sia scomodo».

«Andrà benissimo».

«Attento ai gradini». In fondo al corridoio, dopo due gradini, aprì una porta. Era una piccola stanza, col tetto a tanti spioventi e due abbaini. Il colore delle pareti era meraviglioso: una sfumatura di giallo delicata ma brillante, come il burro genuino. Le tende e i due copriletti erano della stessa stoffa, con un motivo di peonie fiorite bianche e rosa su sfondo giallino. Le finestre erano aperte, ma i vecchi avvolgibili di carta marrone erano attaccati alle zanzariere. Marian ne tirò su uno e spalancò del tutto la finestra.

«Adesso c'è un caldo asfissiante, ma di pomeriggio rinfresca, te lo assicuro».

«Che bella stanza» disse Robert.

«Sono contenta che ti piaccia».

Rimasero così, nella calda luce gialla. Era il primo momento non permeato dall'ansia che trascorrevano insieme. Nessuno dei due aveva idea di come prolungarlo, e non dissero altro. Marian batté piano le mani in un gesto che poteva risultare strano, ma non lo fu, e disse: «Allora, ti lascio a sistemare le tue cose. E ora che io vada a vedere dov'è Roland, e pensi al pranzo».

«Grazie» fece Robert.

Marian sulla porta si girò; annuì e poi sorrise. «Di niente».

Si fermavano soltanto una notte, per cui non c'era molto da sistemare. Robert posò a terra il suo borsone e dopo aver esitato un po' entrò in bagno e si lavò la faccia. Sapeva di dover andare di sotto ad aiutare Marian, o magari Lyle e John, che vedeva dalla finestra esercitarsi con le mazze da croquet, ma si sentiva come paralizzato. Chi è Lyle? si chiese. E strano osservare in mezzo agli altri qualcuno che hai sempre visto da solo: quel tale, come lo conosci tu, scompare e al suo posto c'è una persona diversa, più complessa. Lo guardi gravitare nella nuova compagnia, mostrare nuove sfaccettature, e non ti resta che sperare che anche questi lati ti piacciano, come quello che prima, quando era solo con te, sembrava l'unico.