19

John stava mettendo a letto Roland. Nella culla, il bambino fissava il soffitto che svaniva nel buio. Aveva gli occhi spalancati, determinati, ma lo sguardo non si muoveva, assorto e distaccato. Cosa fissava? Sembrava che sapesse tutto e niente. «Roland?» fece John. Roland mosse la testa e lo guardò. «Tu stai bene,» disse forte il padre «non è vero?». Roland non reagì. John con un dito gli accarezzò la guancia morbida, pulita e fresca. Gli occhi del bambino si socchiusero quasi impercettibilmente, per la concentrazione. «Stai bene?» gli chiese. Gli occhi di Roland si rilassarono: era il suo modo di sorridere. Era soltanto una questione di gradi, e di rapporti fra le cose, e quell'espressione, rispetto ad altre, era un sorriso. John continuò ad accarezzargli la guancia. Il soffitto era sparito; i muri della stanza ora salivano verso un'oscurità fluida, fresca.

Sentì una macchina venire su per il viale e guardò fuori dalla finestra: una piccola auto sportiva rossa. Parcheggiò sul prato davanti a casa come in una pubblicità e ne scese la donna che Marian aveva invitato a cena. Si sistemò la gonna e si ravviò i capelli e quando fu a posto guardò in su, verso le fronde degli alberi. Poi infilò una mano nell'auto attraverso il finestrino aperto, prese un pacchetto di sigarette dal cruscotto, tolse il cellophane e lo buttò dentro la macchina. Stava per accendersene una quando John sentì aprirsi la porta di casa. La sentì anche la donna e dopo aver messo il pacchetto in borsetta alzò lo sguardo.

«Ah, bene,» arrivò la voce di Marian «ti sei portata un pullover. Stavo per telefonarti, mangiamo fuori».

«L'avevo sperato» le rispose lei e salì i gradini di casa. «Sono terribilmente in ritardo, scusami. Oggi mi si è presentata mia figlia, da New York, ed è andato tutto un po' a rilento».

«Perché non l'hai portata?».

«Oh, è venuta col fidanzato». John sentì la porta richiudersi.

Non aveva voglia di scendere, e si chiese se e quando l'avrebbero chiamato. Marian sarebbe salita a cercarlo, ma dopo un bel po': avrebbero notato la sua assenza, ma non sentivano la sua mancanza. Non amava stare in mezzo agli altri. Sapeva che le persone, certo, sono interessanti, e lo era di sicuro anche la donna che aveva parcheggiato sul prato. Marian era brava a scovare le persone interessanti, ma a lui non piacevano sul serio, lo facevano sentire più insulso di quanto si sentisse di solito. Sua madre gli dava del noiosone, e lo diceva spesso, le piaceva la parola. Lo spronava di continuo a coltivare «un po' di entusiasmo», ripetendo che la vita è troppo breve per non fare esattamente quello che si vuole. Ma esattamente. Lei era un'egoista di prim'ordine, ma in qualche modo, col fatto di promuovere e sbandierare il suo egoismo, era riuscita a trasformarlo in fascino. Eppure non era felice: piangeva sempre. La ricordava in lacrime a Roma, sdraiata sul divano, le tende abbassate nel cuore del pomeriggio.

La donna che era venuta a cena gliela ricordava. Anche sua madre avrebbe piazzato la macchina sul prato, doveva sempre fare qualcosa che significasse eccomi, sono qui, guardatemi. Io non parcheggio la macchina là come tutti gli altri. La metto qui, la metto dove mi pare.

Tony non era un noiosone. Aveva un sacco d'entusiasmo, forte e contagioso, con cui superava ogni impaccio e ravvivava ogni festa, o cena o semplice conversazione. Se c'era lui, alle feste succedeva sempre qualcosa: si ballava, si cantava, si faceva il bagno nudi, si improvvisava una recita o un gioco. Gli oggetti volavano, si rompevano, e in mezzo a quel cancan John poteva rilassarsi: era facile scomparire quando c'era Tony. Se ora fosse stato di sotto, lui non avrebbe esitato tanto a scendere. Ma Tony era morto.

«John, ti ricordi di Laura Ponti, vero?».

«Certo» rispose. Erano tutti seduti intorno al tavolo in giardino e Marian riempiva i bicchieri di vino bianco. «É un piacere rivederti» disse lui a Laura stringendole la mano.

«Stavo appunto dicendo che avete una bellissima casa,» fece lei «e perfino su un fiume. Si può nuotare?».

«Sì,» rispose Marian «un pomeriggio di questi devi tornare».

«Adoro nuotare. Da me c ' è una piscina, ma le piscine sono sempre un po' deprimenti. Si perde tutto il piacere naturale di fare il bagno, trovo».

«Be'» disse Marian alzando il bicchiere. «All'estate?».

Gli altri fecero eco al suo brindisi.

«Che bello incontrarla» disse Laura a Lyle. «Ho letto la recensione del suo nuovo libro sul "New York Times" e ho cercato di comprarlo, ma le librerie da queste parti sono una disperazione. Quella di Woodstock me ne ha ordinata una copia, dicono, però avrei voluto tanto averla questa sera, così me l'avrebbe firmata. Ho una bella collezione di prime edizioni autografate».

«Ne ho io qualche copia in più,» disse Marian «gliene faremo firmare una prima che te ne vada».

«Sarebbe davvero magnifico. Quanto resta, Lyle?».

«Soltanto il weekend» rispose lui. «Torniamo a Manhattan domani».

«Torniamo?».

«Sì, sono qui con Robert».

«Oh!» esclamò Laura. «Ma certo. Pensavo… be', non importa quello che pensavo. Anche se non capisco perché non restiate di più. Sono andata a New York la scorsa settimana per pranzare con degli amici e mi è sembrato tutto insensato: la gente muore di caldo, è di pessimo umore e c'è quell'aria sporca che ti si appiccica addosso. E a Manhattan si riesce forse a prendere un taxi? É stata un'esperienza davvero spiacevole. Secondo me le grandi città non sono fatte per l'estate. Forse il mio è un atteggiamento elitario, ma sono convinta che d'estate bisognerebbe andarsene dalla città».

«Ma allora la campagna non sarebbe sovraffollata?» chiese Robert.

«Sì, però c'è più spazio, e ci si adatta. Certo, ci vuole un po'… Bisogna disfarsi di quell'orribile energia cittadina, tutta negativa. Mia figlia è arrivata oggi da New York e mi ha fatto quasi diventare matta. Era tesa come una pelle di tamburo… Come una pelle di tamburo? Mah. Quando si parlano più lingue ci si confonde coi modi di dire. Si fa un gran minestrone e alla fine si dicono sciocchezze».

«Quanto si ferma tua figlia?» chiese Marian.

«Ah, soltanto il weekend. Sta girando un film a New York. Ho affittato la casa perché venisse a trovarmi sabato e domenica, ma si sa com'è il set, finora non era mai riuscita a raggiungermi».

«Che film è?» chiese Robert.

«Non so il titolo. All'inizio vedevo tutti i film che faceva, ma poi erano così brutti che ho dovuto smettere».

«Che altri film ha fatto?».

«Non saprei. Lo so in realtà, ma parlarne mi imbarazza».

«Be', è bello che alla fine sia riuscita a venire» disse Marian.

«Immagino di sì,» rispose Laura «anche se le visite del weekend sono quasi più una scocciatura. Ti piombano in casa, scombussolano ogni cosa e prima che ti ci abitui se ne sono già andati».

«Mi auguro che gli ospiti non siano tutti uguali» intervenne Lyle.

«Se parli di te,» gli rispose Marian «certamente no». Scoppiò a ridere. «E poi Lyle, tu non sei un ospite, sei di famiglia».

«Dovrei dire lo stesso di Nina, ma non ci riesco. Forse perché viviamo tanto lontane e ci vediamo così raramente».

«Che peccato,» fece Marian «per te sarà un dispiacere».

Laura guardò per qualche istante la macchia del suo rossetto sul bicchiere. «No, nient'affatto» disse e si rese conto che quella risposta richiedeva una spiegazione. «A me pare che esista un'idea romantica dei legami familiari che… appunto, non è che un'idea».

«Che intende dire?» chiese Robert.

Laura lo guardò. «Che secondo me i figli devono crescere e staccarsi dai genitori. L'idea di mantenere unito questo nucleo per tutta la vita mi pare innaturale e sentimentale. L'economia e la religione hanno distorto la nostra percezione di come deve funzionare la famiglia».

«Come deve funzionare la famiglia?» domandò Robert.

«Ah, dunque, mi pare evidente: se si vogliono avere dei figli, bisogna crescerli. E questa è la vera maledizione delle donne. Ma non credere che i figli ti debbano qualcosa. Se la pensate così, se pensate che quando sarete dei vecchi rimbambiti vi accudiranno, siete di un'ingenuità senza speranza. Il mondo non gira in questo modo. Le persone dovrebbero vedersi quando hanno bisogno l'una dell'altra, e a parte questo, non credo che abbiamo degli obblighi».

«Ma il bisogno non è sempre reciproco» disse Marian. «E certo non siamo obbligati ad amarci, ma nelle famiglie è così, no? Non vogliamo stare vicini a coloro che amiamo e prendercene cura?».

«Non credo che nelle famiglie ci sia sempre amore reciproco» disse Robert. «Cioè, la mia esperienza è stata diversa».

«E un'altra di quelle idee romantiche» disse Laura. «Sul piano ideale ovviamente ci amiamo, ma l'esperienza mi ha insegnato che le relazioni familiari vengono meno all'ideale. Alla fine sono molto simili a tutte le altre relazioni; la gente cresce e cambia, e in questo non c'è niente di sbagliato o di tragico. É perfettamente naturale». Bevve un sorso di vino e si rese conto di averlo finito. Si sporse in avanti per poggiare il bicchiere sul tavolo. «Credo che prima di mangiare andrò un momento alla toilette» disse.

«E dopo la cucina, in corridoio» le rispose Marian.

Laura si alzò. Nel frattempo si era fatto buio. Alzò gli occhi verso la casa e le finestre illuminate la guardarono anch'esse.

«John, perché non accendi le luci del giardino?» disse Marian.

John entrò in casa. Comparvero le luci ai lati dei gradini e Laura salì. Lui le tenne aperta la porta della cucina e le indicò il bagno. Era uno di quegli orribili gabinetti ricavati nel sottoscala, con solo un lavandino e un water, senza finestra e col soffitto inclinato ad angolo acuto. Laura si guardò nel piccolo specchio; nel vetro era incisa una ghirlanda di foglie, sopra il riflesso del suo viso. Sentiva Marian e John in cucina che parlavano a bassa voce, tranquilli, da padroni di casa. Che cosa dicevo prima? si chiese. Non era ubriaca ma aveva la sensazione di esserlo, come se il suo comportamento precedesse di qualche passo la sua coscienza. Calma, si disse. Calma.

«E tu, Robert, cosa fai?» chiese Laura mentre erano seduti a tavola a mangiare il pesce alla griglia.

«Principalmente rispondo a questa domanda,» disse Robert «almeno da quando conosco Lyle». «E lo conosci da…?».

«Qualche settimana».

«Be', prima ci siamo incontrati a Skowhegan,» fece Lyle «più di un mese fa».

«Di recente, in ogni caso» fece Laura. «Ecco perché sembrate così felici insieme. Non c'è niente di più meraviglioso che innamorarsi. Per questo io l'ho fatto tante volte».

«Quante?» chiese Robert. Aveva la sensazione che quella donna volesse scandalizzarli, o almeno intrattenere la tavolata, e che nessuno le desse corda.

«Che domanda da fare a una signora! Per fortuna non so cosa sia la vergogna. Mi sono innamorata – e ho amato – undici volte. E quattro mi sono sposata».

«E adesso sei innamorata?».

«Non di un uomo – né di una donna, se è per questo. Adesso sono innamorata della mia villa, e della vita che mi consente. E l'amore più bello che abbia mai conosciuto. Ho scoperto che le persone dovrebbero sempre amare il posto dove abitano. Se non è così, dovrebbero lasciarlo. Il mondo è molto grande in questo senso, non sei d'accordo?».

«Non tutti possono cambiare soltanto perché vogliono» rispose Robert.

«Certo che no, ma non voglio permettere alla realtà economica di influire più di tanto su quel che dico. Mi pare una cosa noiosa. Almeno teoricamente, sei d'accordo con me?».

«Non so. Penso che le persone siano più importanti dei luoghi. Mi piace di più amare le persone».

«Figuriamoci, non dico di non farlo. Ma una bella casa in un bel posto, come questa…» e fece un gesto rivolto alle sue spalle «ecco la cosa da amare sopra ogni altra: l'immobile. Non ti lascerà e non cambierà: potrai lasciarlo, cambiarlo tu, ma lui non se ne andrà. E veramente tuo».

«Non può abbracciarti,» disse Robert «né capirti o parlarti».

«Se dici così non hai mai abitato nella casa giusta. Di notte» spiegò Laura «quando sono sola a casa mia, mi sento abbracciata, capita. A dirti il vero, molto più che da un uomo. O almeno, dalla maggioranza».

«Io penso che il bello stia nell'avere la casa piena di gente che ami» disse Marian. «Per me è questo l'ideale».

«Allora la casa non è più veramente tua» le rispose Laura.

«Come no, e condividerla la rende più bella».

«Ma le cose si possono condividere e continuare a possedere. É la soluzione migliore: condividerle senza darle via. Le persone danno troppo e poi se ne pentono».

«Io non credo si possa donare troppo a chi si ama».

«Perché tu di fondo sei una persona buona e gentile. Io no. Lo ero, una volta, ma mantenersi tali è molto difficile, almeno per me. Io cerco sempre di essere gentile, ma ci si mette di mezzo la mia personalità. La gentilezza, penso io, è un pregio che si usura con gli anni. Si finisce per averne una sottile patina, un'aura di bontà, ma non c'è più la qualità in sé. Ecco perché resto sempre affascinata quando incontro una persona di una certa età veramente gentile. Sono degli angeli, secondo me, dei santi. Ma sono così rari. Questa è una delle ragioni per cui mi piacciono tanto i giovani. Tu, per esempio,» e con la testa indicò Robert «tu che vuoi amare la gente e non le case: fa bene al cuore sentirtelo dire, sapere che al mondo esistono ancora di questi sentimenti».

«Di solito gli altri pensano che sono molto cinico» disse Robert.

«Be', non credo che oggi si possa vivere diversamente, a meno di non essere degli idioti. Ma è una seconda natura, una corazza che copre quella vera. E nel tuo caso non mi pare molto spessa. Ma nella vita che cosa fai? Sarai stanco di sentirtelo chiedere, ma ora che hai risvegliato il mio interesse sono curiosa».

«Lavoro in un ristorante. E cerco di fare il pittore».

«Sai anche restaurare quadri?».

«No».

«Io sì,» fece Marian «perché?».

«Davvero?» chiese Laura. «Non lo sapevo. Interessante».

«Ho lavorato per il Metropolitan Museum».

«Hai mai restaurato affreschi?».

«No, soltanto tele».

John si alzò. «Scusatemi,» disse «ma mi sono ricordato di aver lasciato acceso l'irrigatore dell'orto. Torno subito».

«Non lo sento» fece Marian.

Stettero tutti zitti, in ascolto.

«E al minimo». John scese lungo il prato e fu inghiottito dall'oscurità.

«Tra poco ci dormirà, nell'orto» disse Marian.

«E lascialo fare» intervenne Laura. «Se c'è una cosa che ho imparato è che gli uomini vanno a letto dove gli pare».

Nessuno sembrava pronto a ribattere a questa affermazione, neanche Robert. «Che cosa diceva a proposito degli affreschi?» chiese Lyle.

«Ah» fece Laura. «Nella mia villa sto facendo dei gran lavori di ristrutturazione e vorrei rintonacare alcune pareti. Certi orribili inglesi che ci abitavano prima di me l'hanno decorata in stile Laura Ashley. Ve la immaginate una villa tutta country chic?».

«No» fece Lyle, il quale, quando si parlava di estetica, pensava che bisognasse rispondere anche alle domande retoriche.

«Certo che no» continuò Laura. «Comunque, sotto la carta da parati nella stanza della musica abbiamo scoperto degli affreschi. Naturalmente sono molto danneggiati, ma mi piacerebbe farli restaurare».

«Di sicuro posso darti qualche nome» disse Marian.

«Davvero? E probabile che siano affreschi di poco pregio e non valgano l'impresa – né la spesa –, ma mi sentirei malissimo se non li facessi almeno vedere a qualcuno. E poi i regolamenti di questi tempi sono una croce. Senza permesso non si può ripulire neanche uno sgabuzzino».

John sentì un fruscio fra gli abeti e dei passi in arrivo. Dalla siepe comparve Lyle.

«Eccoti qua» disse. «Marian mi ha mandato a recuperarti. Stai bene? Qualcosa non va?».

John si avvicinò alla recinzione dell'orto, dov'era Lyle. «No» rispose.

«Meno male. E una bella serata. Simpatica la vostra ospite, è una vera intrattenitrice».

«Secondo me è un po' pazza».

«Tutti i veri mattatori lo sono».

«Parla troppo».

«E tu troppo poco» disse Lyle. «Come vedi tutto torna. Che ci fai qui? L'irrigatore era acceso?».

«No» rispose John.

«Dovremmo tornare. Penso che Marian sia preoccupata».

«Di cosa?».

«Di quello di cui si preoccupa sempre: che le cose vadano bene».

«Perché, non stanno andando bene?».

«Per me, sì» rispose Lyle. «E un weekend meraviglioso. Sono felice di essere qui».

«Lo è anche Robert?». «Sì».

«Dopo potremmo farci una nuotata nel buio» fece John.

«Mmm, fa troppo freddo».

«Forse Robert ne avrà voglia. Gli piace nuotare».

«Sì, chiediglielo» disse Lyle. «Adesso torniamo, però». Voleva tornare indietro. Lo innervosiva stare da solo nel buio con John. Non avevano mai parlato davvero della morte di Tony, non l'avevano mai ammessa fra loro, e aveva la sensazione che John potesse farlo da un momento all'altro. In John, prima che le cose affiorassero ci voleva parecchio tempo e non si sapeva mai se e quando sarebbero venute a galla. «Dài, andiamo» ripeté Lyle. Si infilò nella siepe; guardò su verso il prato. Vedeva le candele e i visi intorno al tavolo. «Vieni?».

«Sì» disse John.

A cena finita Marian si alzò e cominciò a raccogliere i piatti.

«Aspetta che ti aiuto» disse Robert alzandosi.

«No, no» fece lei. «Stai pure».

John, Lyle e Laura erano seduti. Laura fumava una sottile sigaretta marrone, espirando boccate di fumo nell'oscurità. «No,» disse Robert «ti aiuto». Desiderava in qualche modo urtare Marian, e aiutarla contro il suo volere era quanto di meglio sapesse fare. Si fermarono sui gradini carichi di piatti, davanti alla porta della cucina, con le mani occupate. «Aspetta» fece lui cercando di allungarsi verso la porta. Fece cadere un piatto, che andò in pezzi sui mattoni con uno schianto.

«Oh no,» disse «mi dispiace».

«Apri solo la porta» fece Marian. «Non è niente. No… non raccoglierlo. Prendo io la scopa».

Arrivò John. Aprì loro la porta e prese un po' di piatti da tutt'e due.

Li impilarono nel lavandino. Nella cucina, dopo il buio a lume di candela del giardino, c'era una luce accecante e stranamente artificiale. Robert si mise a sciacquare i piatti sotto il rubinetto, ma Marian disse: «Lascia stare, per favore. Va' a sederti con gli altri».

«Sei sicura che non posso aiutarti?».

«Quando sono pronta col dessert ti chiamo io». Marian gli diede addirittura una piccola spinta.

A tavola Laura stava disegnando la pianta della villa su una pagina bianca della sua Filofax. Poi ne disegnò un'altra di come sarebbe stata a lavori completati. I pavimenti del bagno, annunciò, dovevano essere rivestiti di alluminio anodizzato.

Marian scese i gradini, tenendo sul fianco un grande vassoio. Smisero tutti di parlare e la guardarono come se fosse un numero delle Ziegfeld Follies. Lei aspettò che Laura togliesse i suoi schizzi e poi posò il vassoio al centro del tavolo. Una piramide di biscotti leggeri e croccanti, un po' bucherellati, era contornata da grappoli d'uva rossa; i chicchi erano grossi e rotondi, e sfumavano dal rosso al verde acido.

Robert sentiva il piede nudo di Lyle che gli sfiorava il polpaccio sotto il tavolo. Lyle non lo guardava, fumava una delle sigarette di Laura e dal modo in cui la teneva e aspirava il fumo Robert capì che era stato un fumatore. Aveva posato il braccio sulla spalliera della sedia di Laura, a pochi centimetri dal collo nudo della donna, ma non stava flirtando, Robert se ne rendeva conto; faceva semplicemente il galante.

Robert staccò un acino d'uva dal grappolo sul vassoio e attaccato al sottile raspo rimase un pezzettino di polpa.

«Uh, Robert,» disse Marian «ecco». Prese un paio di pesanti forbici decorate e gliele porse. Brillarono alla luce delle candele.

Lui si mise l'acino fra le labbra e lo tenne lì, intero. Era confuso.

«Sono forbici per l'uva» disse lei. «Si usano per tagliar via un grappolino, senza prendere i chicchi uno a uno». Diede una dimostrazione di come avveniva quel prodigio e poi gli porse le forbici.

Robert non le prese.

Seguì un momento che parve lunghissimo: la mano di Marian protesa a offrire le forbici; l'acino d'uva, fresco e rotondo, fra le labbra di Robert; i loro visi istupiditi nella luce delle candele.

«Oh, non lo reprimere» strillò all'improvviso Laura. «Lasciagli prendere l'uva con le mani se gli va! Liberiamoci da queste sciocche affettazioni!». Strappò le forbici dalle mani di Marian e se le buttò alle spalle.

Nessuno si mosse. Non si sentiva niente se non il ronzio degli insetti e il fruscio delle fronde, che ondeggiavano sopra di loro in grandi nuvole scure. Alla fine Laura fece una risatina, rivolta a sé stessa; scostò la sedia dal tavolo, si alzò e raccolse le forbici dal prato. Le posò sulla tavola, dove tutti le guardarono. Erano belle: d'argento cesellato, con un tralcio di vite su ogni anello dell'impugnatura.

Marian le toccò. «Erano di mia nonna» disse.