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John aveva preparato la colazione e la stava portando fuori. Sotto l'albero di gelso tenevano un vecchio tavolo rotondo che alla mattina spostavano al sole. A un ramo dell'albero aveva appeso la culla di vimini dove Roland faceva i suoi pisolini.

Marian comparve dal prato di ritorno dalla nuotata. «Ah, che bello,» disse «speravo proprio di far colazione fuori. É una splendida mattina».

«Sì,» le rispose John «e non sarà l'unica». Sbatté la tovaglia macchiata dai gelsi; era umida, aveva l'odore della notte.

Lei prese il bambino dal cesto che cominciò a dondolare, alleggerito. Roland era gracile e malaticcio, e anche se tutti dicevano che era tanto buono – non piange mai, è sempre tranquillo – quella bontà e docilità cominciavano ad allarmarla. Dentro di sé Marian era preoccupata che non fosse del tutto normale, sebbene la dottoressa non condividesse la sua ansia: ringrazi la buona stella se il bambino è così tranquillo, le diceva. Lei avrebbe voluto che strillasse e tirasse le cose. Passava le ore con lui, a leggere, cantare e fare versi, e anche se Roland non sembrava annoiarsi non dava mai l'idea di partecipare davvero. A volte sorrideva debolmente, come se ricordasse qualcosa di un'altra vita, qualcosa di bello.

«A che ora si è svegliato?» chiese.

«Poco fa» rispose John stendendo la tovaglia sul tavolo. «Dovremmo proprio comprarne una nuova. Questa è indecente».

«Per la colazione va bene». Marian mise Roland nella culla. Sul tronco dell'albero si posò un picchio. «Guarda» disse al bambino indicandolo con un dito: «Uccello». Roland alzò lo sguardo. «Uccello» ripetè lei. «Uccellino».

«Cosa?» fece John.

«C'è un uccello sull'albero. Un picchio, mi pare».

Lui alzò gli occhi, ma l'uccello volò via.

«Andato» disse Marian. «Ciao ciao».

«Vai a fare la doccia?» le chiese John.

«Sì, ma veloce. Muoio di fame».

«Porti fuori il caffè? E il giornale, se è arrivato». «Sì».

Marian salì al piano di sopra. Il letto era sfatto e la camera aveva bisogno di una riordinata. Più tardi. Si tolse la camicia da notte inumidita dopo la nuotata e dalla finestra del bagno guardò John che dava da mangiare a Roland. Gli parlava; Marian aprì e si sporse per sentire, ma John se ne accorse e smise di parlare. Lei lo salutò con la mano e stese la camicia da notte sul davanzale. Mentre entrava nella doccia sentì il telefono squillare di sotto in cucina.

Quando tornò col caffè, John stava strappando le erbacce nell'orto. Si aiutava con un attrezzo dentato e la veemenza con cui lo affondava nel terreno spesso la preoccupava. Roland gattonava vicino al padre.

«Hai risposto tu al telefono?» chiese Marian.

«Sì» rispose John. «Era Lyle».

«Che voleva? Viene, no?».

«Certo». John si accovacciò; si sfilò la camicia e la gettò verso il bambino. La camicia gli finì sopra coprendolo tutto e Roland smise di gattonare. «Vediamo se se la toglie da solo».

«No,» fece Marian «così lo spaventi». La tolse e Roland guardò la madre. «Ecco qua,» disse «è la camicia di papà».

«Porta una persona» disse John.

«Lyle?». «Sì».

«Porta una persona? Per il weekend? E chi?».

«Non me l'ha detto. Un amico».

«Lyle ha telefonato per dire che porta qualcuno?».

«No,» rispose John «per chiedere se andava bene. E io gli ho detto di sì, ci mancherebbe».

«Che amico?».

«Non me l'ha detto».

«Vuole che lo richiami io?» chiese Marian.

«No».

«Quando l'ho sentito non ha parlato di nessun amico».

«Allora sarà una persona nuova» disse John. «L'avrà appena conosciuta».

«Parliamo di un uomo, sì?» fece Marian.

«Non sono sicuro. Ma direi di sì».

«Perché porterebbe qui un tizio che ha appena conosciuto? Non ti sembra strano?».

«Non ho detto che l'ha appena conosciuto. Forse si tratta di un vecchio amico».

«Sì che l'hai detto, hai detto esattamente così».

«Be', ho avuto quest'impressione,» disse John «ma potrei sbagliarmi. Forse si tratta di un vecchio amico».

«Ma i suoi vecchi amici li conosciamo tutti,» ribatté Marian «non avrebbe detto "un amico". E poi… Lyle viene qui per stare lontano da loro, non se ne porterebbe uno dietro».

«Invece lo farà,» disse John «domani, col treno delle 11.40».

«Così va tutto all'aria».

«Cosa va all'aria?».

«Avevo invitato a cena Laura Ponti».

«E chi è Laura Ponti?».

«Non ti ricordi? Quell'italiana che abbiamo incontrato da Derek e Granger e che diceva di essere amica di tua madre».

«Quella vecchia signora?».

«Macché vecchia,» disse Marian «è una signora molto interessante. Ed era entusiasta di conoscere Lyle. Era tutto perfetto».

«E qual è il problema adesso?» chiese John.

«Be'… adesso, con questo amico misterioso di Lyle, invece di quattro saremo in cinque».

«E cosa c'è che non va a essere in cinque? Non credo che cercassi di sistemare Lyle con la vecchia signora».

«Non mi fai affatto ridere» rispose Marian. «No, c'è una bella differenza fra quattro e cinque. In quattro è una cena intima, in cinque no. Lo sanno tutti».

«Io no» rispose John. «Non vedo il problema».

«Non c'è un problema, è che… è strano. Stranissimo. Lyle che telefona e dice che porta un'altra persona. Non capisco. Volevo che fosse tutto perfetto questo weekend, anche perché…».

«Perché cosa?».

«Perché…» disse Marian «sai di che giorno si tratta?».

«No».

«E l'anniversario della morte di Tony».

«Ah» fece John.

«Per questo volevo passare un weekend tranquillo con Lyle».

«Be', lo sarà sicuramente. Non facciamone un dramma, porta solo un amico. Dovresti essere contenta».

«Credi che se ne ricordi?».

«Di che?».

«Dell'anniversario».

«Certo».

«Perché?» chiese Marian. «Tu non te lo ricordavi».

«Tony non era il mio fidanzato».

«Ma era tuo fratello».

«Sì» ammise John. Piantò il sarchiatore nel terreno e si alzò. «Mangiamo» disse. «Il giornale è arrivato?».

«Mi sono dimenticata di guardare. Vado a fare una telefonata».

«A chi, a Lyle? E la colazione? Avevi detto che stavi morendo di fame».

«Infatti» disse Marian. «Ci metto un attimo».

«Che dovrei fare per i letti?» chiese quella sera Marian a John. Erano in soggiorno: lui era seduto sul divano, e leggeva il giornale; lei, sul pavimento, piegava il bucato. Gli insetti camminavano sul soffitto e si lanciavano contro le lampadine.

«Per cosa?» chiese John da dietro il giornale.

«Per i letti,» ripeté Marian «i letti di Lyle e del suo amico».

«Non lo so» rispose, e mise giù il giornale. «Che significa: che dovresti fare?».

«Non so se dormono insieme. Devo preparare un letto o due?».

«Due, e poi ci pensano loro». John si rintanò di nuovo nella lettura.

«Camere separate?».

«Non lo so» le rispose. «No, andrà bene la stessa camera. Mettili in quella gialla».

Marian rimase a guardarlo. «Non mi ha richiamato» disse.

«Forse è stato fuori tutto il giorno. Che ore sono?».

«Le dieci e venti. Magari riprovo».

John non disse niente.

«Tu ti senti bene?» chiese Marian.

«Sì, benone». Senza abbassare il giornale John fece capolino di lato. «Sono stanco».

«Io no. Ho lo stomaco un po' strano. Che sia stato il pesce?».

«Vieni». Lui diede dei colpetti accanto a sé sul divano. «Stenditi».

Marian gli si stese accanto e gli poggiò la testa in grembo, sui pantaloncini che odoravano di sudore e di orto. Il viso di John era nascosto.

«Metti via il giornale?».

«Un momento che finisco questo».

Marian aspettò. Lui infine ripiegò il giornale e lo buttò a terra. Spense la luce. Si mise ad arrotolarle i capelli finché glieli avvolse in una stretta crocchia. «Sei nervosa» le disse come se lo avesse avvertito dalla capigliatura. «Sì».

«Le cose con Lyle cambieranno, è inevitabile».

«Lo so» rispose Marian.

«Non dovresti farti prendere dall'agitazione».

«Non è così facile».

John lasciò andare la crocchia. Marian sentì il cuoio capelluto rilassarsi; e cercò nel buio le mani del marito. Ne trovò una, la tenne fra le sue e la tastò come chi cerchi di identificare un oggetto. Poi se la mise sulla fronte.

«C'è anche un'altra cosa che mi preoccupa» disse.

John fece passare un istante prima di chiederle cosa. Fu uno strano istante di sospensione, come lo sbandare di un'auto: il mondo gira su sé stesso piano e veloce allo stesso tempo, l'orizzonte traballa. Finché John disse: «Cosa?».

«Roland».

«La dottoressa dice di non preoccuparsi».

«I dottori a volte sbagliano».

«Sì, è vero».

«Non avrei dovuto chiamare la levatrice» disse Marian.

«Che significa?».

«Avrei dovuto partorire normalmente, in ospedale».

«Perché? É andato tutto bene».

«No,» obiettò lei «secondo me l'ossigeno non gli è arrivato abbastanza in fretta. Stava diventando cianotico».

«La levatrice ha detto che era normale».

«Secondo me ha detto una bugia».

«Non dovremmo lasciarci prendere da questi pensieri, Marian» le rispose John. «La dottoressa saprebbe se fosse andato storto qualcosa e ce lo direbbe. Più ti preoccupi, più le cose sembrano nere, e peggiorano. Devi rilassarti quando sei con lui. Quando l'ho messo a letto è stato uno spasso».

«Davvero? Uno spasso come?».

«Non si voleva infilare il pigiama e si è messo a scalciare. E rideva».

«Sul serio?». «Sì».

«Avresti dovuto chiamarmi».

«So che può suonarti strambo» disse John «ma io Roland lo capisco. Insomma, secondo me sta bene, dico sul serio, ma è timido. E riservato, come suo padre».

«Che noia gli uomini riservati» fece Marian.

«Be', domani arriverà Lyle a movimentare un po' le cose».

«Vado». Marian era accanto alla recinzione dell'orto. John, che sradicava erbacce a carponi, non le rispose. Lei lo ripeté più forte.

Lui alzò bruscamente lo sguardo. «Cosa?».

«Vado a prendere Lyle. Vuoi che ti lasci Roland o lo porto con me?».

«Perché non te lo porti?».

«Va bene, ma dovrò montare il seggiolino».

«Allora lascialo qui».

«Lo terrai d'occhio?».

«Ma certo. Ti piace aiutare papà nell'orto, vero, Roland?».

Roland non diede cenno di risposta. Marian lo posò per terra, oltre la recinzione, e il bambino gattonò da suo padre.

«Ti fermi al negozio?» le chiese John.

«Sì. Cosa faccio per la birra?».

«Prendine una cassa, così l'abbiamo in casa».

«Quale?».

«Non so. La Bass, o un'altra».

«Volevo fermarmi da Elmer's per vedere se hanno del tonno o del pescespada da fare alla griglia».

«Buona idea» rispose John. «Vai adesso, se no arrivi tardi».

Marian guardò l'orologio. «Manca un sacco di tempo. Tesoro?». «Sì?».

«Non te ne starai rintanato nell'orto tutto il pomeriggio, vero?».

«Io non me ne sto rintanato nell'orto,» rispose John «lavoro nell'orto».

«Lo so. Ma non questo pomeriggio, va bene?».

«Ci mancherebbe, non vedo l'ora di stare con Lyle. Appena ho finito qui, tiro fuori il croquet. É ancora in cantina, no?».

«Direi di sì, quest'estate non ci abbiamo mai giocato».

«No».

«Allora vado» fece Marian. «Dimmi buona fortuna».

«Per cosa?».

«Mah, non so. Voglio solo che vada tutto bene».

«Se lo vuoi davvero, sarà così».

«Sicuro?».

«Sì» rispose John.

«Il tempo è perfetto». Marian guardò il cielo.

«Visto? Che ti avevo detto?».

«Ma il tempo non dipende da me».

«Ah no? Pensavo di sì».

«Alzati, vieni qua». Marian gli fece cenno con la mano.

John si avvicinò alla recinzione. «Che c'è?».

«Niente». Gli diede un bacio, poi gli posò il viso sulla spalla. Lui la abbracciò, ma con le mani sollevate; erano sporche e Marian era vestita tutta di bianco. Le baciò il collo e poi portò le labbra nell'incavo della clavicola, e ve le tenne. «Ti amo» le disse; era vero, ma sapeva anche che era quello che lei voleva sentirsi dire.