20
Dopo cena Lyle e Robert andarono a far due passi lungo il fiume. Appena le luci della casa scomparirono alle loro spalle, si fece buio fitto. «Che fiume è?» chiese Robert.
«Non lo so» rispose Lyle. «Non credo di averne mai saputo il nome».
«Dove va a finire?».
«Va a finire… nell'Hudson, suppongo. Vediamo». Lyle si fermò per cercare di orientarsi, ma nel buio era difficile, e il fiume aveva un andamento serpeggiante. «Sono sicuro che si getta nell'Hudson, come tutti i fiumi di queste parti. É un suo affluente».
«Cosa ti piacciono di più, i fiumi o i laghi?».
«Credo i fiumi. Mi piace l'idea dell'acqua in continuo movimento. I laghi, grandi o piccoli, sono un po' stagnanti».
Il sentiero si stringeva e dovettero procedere uno dietro l'altro. Robert passò davanti. Rimasero qualche istante senza parlare e poi Lyle chiese: «Come ti sembrava, la signora Ponti?».
«Simpatica,» rispose Robert «divertente».
«Sì, è vero, forse un po' istrionica».
«A te non piaceva?».
«Sì, sì, per una cena è una buona compagnia. Un po' sopra le righe. A quell'età le belle donne hanno qualcosa di tragico: sono disposte a tutto. Lanciano le forbici da uva, cose del genere».
«A me era simpatica».
«Perché è venuta in tua difesa».
Robert non rispose.
«Sei arrabbiato per le forbici?» chiese Lyle.
«No».
«Ah, pensavo di sì».
«No» ripeté Robert. «Sono arrabbiato, ma non per quello».
«E allora per cosa?».
«Lo vuoi sapere davvero?».
«Ma certo,» fece Lyle «dimmelo».
«Secondo loro io sono sbagliato per te».
«Cosa? Secondo chi?».
«John e Marian».
«Non è vero» rispose Lyle che procedeva con la mano davanti a sé perché vedeva a stento nel buio. Robert, a giudicare dal passo svelto con cui camminava, no.
«Invece sì».
«Ti riferisci alle forbici? Marian è fatta così, ti ci abituerai. Rallenta un po', non è mica una gara».
«Non per le forbici,» disse Robert «quella è una cosa stupida».
«E per cosa allora?».
«Ho sentito che dicevano che non gli piaccio, che non sono la persona giusta per te e che non durerà».
Lyle colse l'occasione per fermarsi e in maniera sciocca chiese: «Cosa!? Ti sei messo ad ascoltare di nascosto?». «Sì».
«Dove? Quando?».
«In cima alle scale, prima di cena».
«Non avresti dovuto».
«Perché?».
«Perché non si fa. È scorretto».
«Come mangiare l'uva senza le forbici?».
«No,» fece Lyle «quello è diverso».
«Diverso in che senso?» chiese Robert.
«É scorretto in termini sociali, è solo una questione di buone maniere. Mentre ascoltare di nascosto è… be', è scorretto intrinsecamente».
«Come fa una cosa a essere scorretta intrinsecamente?».
«E così» rispose Lyle e poi tacque un momento. «Come l'omicidio, per esempio».
«Io non ho ucciso nessuno. Ho soltanto aperto una porta e sentito per caso una conversazione».
«Lo so, ma vorrei tanto che non l'avessi fatto».
Robert si strinse nelle spalle. «L'ho fatto».
«Be', sarebbe buona norma non prendere troppo sul serio le cose che non si è tenuti a sentire».
«Io penso esattamente il contrario. Le cose che non si devono sentire spesso sono le più importanti. Nessuno te le dice in faccia».
«Non è vero» ribatté Lyle.
«Comincio a credere di sì».
«Be', ti sbagli. Non dovresti farne un dramma».
«Non credevo che dirtelo era fare un dramma».
Lyle rifletté qualche istante. «Hai ragione,» disse «non lo è. Non è meglio lasciar perdere allora?».
«Lascia perdere, se vuoi». Robert si girò e riprese a camminare lungo il sentiero.
«Aspetta» fece Lyle. «E tu?».
Senza voltarsi, Robert si fermò. «Io cosa?».
«Riesci a lasciar perdere? Almeno fin quando ce ne andiamo?».
«No, non posso» disse girandosi. «Mi fa sentire molto a disagio. Anzi, non credo neanche di voler stare qui».
«Be', adesso è notte, dove vuoi andare?».
«Non lo so. Da nessuna parte. Voglio solo che sai come mi sono sentito e come mi sento».
«Hai fatto bene a dirmelo e mi dispiace, ma credo davvero che tu abbia frainteso. Conosco John e Marian, non direbbero una cosa del genere su di te. Anzi, si dà il caso che a me risulti che piaci a tutti e due. Me l'hanno detto oggi pomeriggio».
«Io so cosa ho sentito» ribatté Robert.
«E sarebbe?» chiese Lyle. «Dimmi».
«Hanno detto… cioè, Marian ha detto che non le piaccio. E tutti e due erano d'accordo che non sono la persona giusta per te, e che non durerà molto perché per te è un momento che stai attraversando. Fa parte…».
«Di cosa?».
«Del lutto, credo, per riprenderti».
Lyle cominciava ad avere difficoltà a concentrarsi. Desiderava irrazionalmente che intorno non fosse così buio; se avesse potuto vedere meglio sarebbe riuscito a pensare con più chiarezza. E avrebbe desiderato aver bevuto meno a cena. «Che sciocchezze» riuscì a dire. «La gente spesso, in privato, fa ipotesi sulle relazioni degli altri, ma questo non significa che abbia ragione».
«Allora secondo te si sbagliavano?».
«Su cosa?».
«Su quello che hanno detto!». Robert aveva un tono esasperato. «Io sono la persona giusta per te?».
«Giusta, sbagliata… Cosa vuol dire metterla in questi termini, così presto? E da immaturi. In questo momento della mia vita mi pare che nessuno sia la persona giusta per me».
«Tony lo era?».
Lyle guardò il fiume.
«Lo era?» insistette Robert.
La persona giusta? pensò Lyle. Che stupida idea romantica. Eppure Tony a volte lo era stato. Altre volte gli aveva fatto male – e adesso che era morto anche di più. Il suo era stato un modo strano di essere la persona giusta, un modo impercettibile; senza far rumore gli aveva segnato i territori del cuore, ne aveva seguito i fiumi fino alla sorgente e lì aveva piantato le sue bandiere, laggiù nelle zone inesplorate. «Sì,» disse «in un certo senso – in tanti sensi – Tony era la persona giusta».
«E io no».
«Robert, non ho detto questo, non ti conosco ancora. Quello che so di te mi piace molto, ma è così poco. Mi pare che tutto questo discorso sia ridicolo».
«Ma se dovessi buttare lì una risposta?».
«Non voglio rispondere a caso su una cosa così importante».
«Però sai quello che fai?».
«Come?».
«Sai quello che fai con me o stai solo cazzeggiando?».
«Che cosa faccio con te? Provo ad avere una storia, ecco cosa provo a fare. Non sto cazzeggiando. Ma volermi costringere a rispondere a delle domande stupide è assurdo. Così sei tu che prendi per il culo me».
«No,» rispose Robert «non capisci. Forse non mi so esprimere, ma tutto quello che chiedo è se riesci a immaginare un domani per noi due. Riesci a immaginare noi due che ci amiamo? Io ci riesco benissimo. E tu?».
«Lo sai. Mi è difficile immaginare qualsiasi ipotesi di futuro. E poi, che importanza ha, riuscire a immaginare qualcosa oppure no? Se anche uno ci riesce non è detto che succeda».
«No, però aiuta. E incoraggiante».
«Be', non voglio incoraggiarti senza ragione». «Ah».
«Oppure vuoi che ti menta e ti dica cose che non sono vere?».
«No,» fece Robert «voglio la verità. Sono un tuo modo per riprenderti? Che ci facciamo qui? Che ci faccio io?».
Lyle si guardò intorno come se Robert intendesse proprio quel luogo particolare. Non vedeva quasi niente se non Robert e la sua camicia bianca – da cameriere, suppose – e il bianco dei suoi occhi, che risaltavano nell'oscurità del bosco, del fiume e del cielo. Lo fissò per qualche istante, finché ne distinse anche il resto. «Che ci facciamo qui?» disse. «Te lo dico che ci facciamo qui secondo me. Siamo due persone che si sono incontrate, che, credo io, si sono piaciute e che godono della compagnia l'uno dell'altro. E allora ce ne siamo partiti per un weekend, per passare un po' di tempo insieme. Ecco cosa penso che ci facciamo qui. Non la vedevo così complicata».
«Forse non per te».
«Be', certo che è complicato. E ti avevo detto che lo sarebbe stato. Qual era la situazione».
«Sul treno».
«Sì, sul treno» ammise Lyle. «Mi dispiace, avrei dovuto parlartene prima. Ci ho pensato, ho provato, ma non ci sono riuscito. Mi dispiace».
Lyle si fermò. Robert aveva gli occhi rivolti a terra. «Adesso torniamo, andiamo a letto e per un po' non pensiamoci più. Oggi è stata una giornata difficile per tutti. Domani è un altro giorno».
«Sembri quella… come si chiamava…» disse Robert «Rossella O'Hara».
«Mi spiace usare dei cliché, ma questo discorso mi obbliga a farlo. E impossibile affrontare in modo razionale un discorso tanto vacuo».
«Vacuo? Se ci amiamo oppure no è un discorso vacuo?».
«Oh, per favore. L'amore è una cosa che… non stiamo parlando d'amore. Ti voglio bene, Robert, lo sai, mi piaci molto. Ma qui non è in ballo l'amore».
«Per me lo è».
«Tu non mi ami. Forse pensi di amarmi, ma non è vero».
«Come fai a sapere cosa provo io?» chiese Robert.
«So che suona presuntuoso, ma so che tu non mi ami. Se tu mi amassi – se quello che provi fosse amore –l'amore sarebbe una roba da poco e molto comune».
«Quello che provo per te non è una roba da poco e molto comune».
«Me ne rendo conto,» disse Lyle «e non volevo dire questo. Intendevo che l'amore, quello vero, non arriva così, nel giro di giorni, o settimane, o anche mesi. L'amore vero è qualcosa che matura molto lentamente nel tempo».
Robert guardò a terra per qualche istante e poi alzò gli occhi. «Secondo me tu sei solo spaventato» disse.
«Spaventato?» chiese Lyle. «E di cosa?».
«Del… Se non mi ami, allora perché prima, quando abbiamo fatto l'amore, hai detto ti amo?».
«Non l'ho detto».
«L'hai detto, non mentire».
Lyle si ricordò. Erano sul letto nella camera gialla, i corpi fusi nella luce dorata; gli era scappato, come un respiro. «Be',» fece «ci sono delle circostanze in cui di solito si viene perdonati per non aver detto la verità proprio alla lettera. Quando si dice…».
«Basta con questo "si viene", "si dice"».
«Scusami. Quando io… quando noi abbiamo fatto l'amore, posso anche aver detto ti amo…».
«L'hai detto».
«Va bene, l'ho detto. Però, Robert, qui non siamo davanti a un problema semantico. In quel momento avrei potuto dire qualsiasi cosa».
«Anche adesso potresti dire qualsiasi cosa».
«Sì, potrei, ma non lo faccio: adesso ti dico la verità. Adesso, che siamo qui, uno di fronte all'altro e non stiamo facendo l'amore, ti posso parlare con più sincerità».
«Cioè non riesci a fare l'amore e a essere anche sincero?».
«Non so. Evidentemente no» rispose Lyle. «Però adesso lo sono».
«Come faccio a saperlo?».
«Perché te lo dico io».
Per qualche momento tacquero.
«E cosa mi dici? Qual è la verità?».
«Che non ti amo, per adesso. E Robert, caro, non è una cosa terribile. Provo altre cose, e col tempo ne proverò altre ancora, cose degnissime e meravigliose. Forse anche amore. Lo spero tanto. Ma l'amore è…» Lyle scosse la testa. «Robert, non puoi farti ossessionare da questo pensiero. Farà di te un infelice».
«Io sono infelice. Mi sembra di sanguinare. Di non essere più io, di essermi perso».
«Non essere melodrammatico, non ti sei perso. Anzi, dubito molto che tu ti sia ancora trovato».
«Questa è la cosa che odio di più,» disse Robert «che qualcuno ti dica cosa succede dentro di te».
«Scusa, hai ragione. Se dici che sei infelice, lo sei. E io sono infelice perché succede a causa mia, senza averne avuto la minima intenzione. Ci credi?». «Sì».
«Allora non possiamo tornare e andarcene a letto?». Lyle sfiorò la candida spalla di Robert.
«Io là dentro non ci torno» disse lui. Sollevò la spalla, appena appena; la mano di Lyle avrebbe dovuto trattenerlo o sarebbe scivolata via. Scivolò.
«Che significa?» gli chiese Lyle.
«Significa che a casa loro non ci torno. Penso che sono delle persone orribili… soprattutto quella Marian. Se credi che torno là dentro, sei pazzo».
«E allora dove vai?».
«A casa» disse Robert.
«E come ci arrivi?».
«Vado alla stazione. A piedi».
«Ma è lontana parecchi chilometri e non credo proprio che a quest'ora passino i treni».
«Mi sta bene fare dieci chilometri a piedi e mi sta bene aspettare il treno. Piuttosto che tornare in quella casa».
«Robert, non fare lo sciocco. Mi dispiace se loro… se io ti ho ferito, ma non puoi andartene nel cuore della notte. Non si fa. Andiamo a casa e domani mattina, se vorrai ancora andartene, troveremo una scusa e partiamo insieme. Te lo prometto».
«No,» rispose Robert «me ne vado adesso. Grazie per avermi parlato con sincerità». Si voltò e s'incamminò nel bosco scuro a passo deciso, come se il sentiero per la stazione fosse chiaro e segnalato.
Lyle cercò di chiamarlo, o di seguirlo, ma non fece né l'uno né l'altro. Era sfinito e ubriaco. Dopo un momento in effetti lo chiamò, ma non ebbe risposta. Si addentrò un po' nel bosco, in ascolto. Gli parve di sentire il rumore dei suoi passi, ma molto lontano, e quando puntò in quella direzione vennero coperti dallo scricchiolio dei suoi. Si affrettò e all'improvviso qualcuno gli diede una randellata in faccia. Il grido gli uscì ancora prima di ricevere la botta. Stordito, si arrestò nel buio e poi si rese conto che era solo finito contro un albero. Con la mano si toccò il viso: gli occhiali si erano rotti, e sentì del sangue sul naso e sulle labbra. Fermati, pensò, appoggiandosi all'albero. Si accorse che stava ansimando, e piangendo, perché il respiro gli usciva in strani singulti. Fermati, fermati. Era l'unico pensiero.