9
Lyle era seduto all'ombra, su una sedia Adirondack –quelle con larghe assi di legno disposte a ventaglio; Robert era sdraiato al sole, sull'erba accanto a lui, e leggeva, o meglio sfogliava, una rivista. John era nell'orto.
Si aprì la porta sul retro e Marian, che aveva messo a letto Roland, si avvicinò ai suoi ospiti.
«Vieni a sederti qui» le disse Lyle.
«No» gli rispose lei mostrandogli gli oggetti che aveva in mano: gli acquerelli che Lyle aveva portato a Roland, l'album da disegno e un bicchier d'acqua. «Voglio dipingere un po', voglio disegnare la casa vista dal prato».
«Ci dobbiamo spostare?» chiese Lyle.
«No, no, prendo anche voi».
«Non sono dei gran colori».
«Per me vanno benissimo» disse Marian. «Ti piace stare al sole, Robert?».
«Sì, molto» rispose lui.
«Ottimo». Marian si portò dietro una sedia e la piazzò sul prato rivolta verso la casa, a una distanza che non offriva loro molto intimità: ne dava solo l'impressione.
Si mise a dipingere e li sentiva chiacchierare anche se non riusciva a capire cosa dicevano. Dopo un po', però, cominciarono a parlare a voce più alta. «Tu, per esempio,» disse Robert a Lyle «sembri meglio adesso che a trent'anni».
«Stai meglio adesso» lo corresse Lyle. «Ma tu che ne sai? A quell'età non mi conoscevi».
«Marian mi ha fatto vedere una foto tua e di Tony in Egitto».
«Ah, davvero?».
Lei alzò gli occhi e vide che Lyle la guardava: le fece una smorfia. «Come sono i colori?» le chiese. Robert si girò.
Marian diede un'occhiata al foglio. Non era un bel risultato; i colori dell'astuccio erano inadatti, brillanti e sintetici; e quando aveva tentato di mescolarli per rendere le tinte bruciate del paesaggio si erano tutti impastati. «É un pastrocchio» disse. Poi, come se quel giudizio le impedisse di continuare, strappò dall'album lo spesso foglio umido e dopo averlo accartocciato, lo buttò sul prato in mezzo a loro, dove si riaprì un pochino.
«Volevo vederlo» disse Lyle.
«Ne faccio un altro,» rispose Marian «di voi due». Girò la sedia, ma rovesciò il bicchiere d'acqua. «Uff, che sbadata».
«Vado a riempirlo io» disse Robert alzandosi.
«Grazie» rispose lei porgendogli il bicchiere. Credeva che andasse al rubinetto accanto alle scale sul retro, ma Robert scese giù al fiume. Ovvio, pensò, non può sapere dov'è il rubinetto, è un estraneo. Non che la cosa lo sminuisse in qualche modo, ma lei provò lo stesso il desiderio di dirselo. Smettila, si ordinò. Lo guardò accovacciarsi sulla sponda, immergere il bicchiere e tornare. L'acqua del fiume era molto più limpida di quel che immaginava. Soltanto quando scorre tutta insieme è opaca; non un bicchiere alla volta.
«Adesso mettiti comodo e fa' finta che non ci sia» gli disse.
Robert riprese la sua posizione, ma Lyle si alzò.
«Dài, siediti,» fece Marian «ti voglio dipingere».
Lui le diede un'occhiataccia scuotendo la testa, e lei capì che non aveva nessuna intenzione di essere ritratto. Era arrabbiato perché aveva mostrato la fotografia a Robert? Se era così, era una sciocchezza, gli aveva solo fatto vedere una cosa appesa alle pareti di casa sua.
«Ho un bisogno disperato di un sonnellino» disse Lyle, e si incamminò spedito sul prato come se davvero potesse crollare prima di raggiungere il letto. Marian e Robert lo guardarono entrare in casa.
«Come fa a essere stanco» disse Robert. «E tutto il pomeriggio che ci stiamo sdraiati».
Ce ne stiamo sdraiati, avrebbe voluto correggerlo Marian, che invece disse: «L'indolenza stanca» e andò a sedersi nella sedia lasciata libera da Lyle. Aveva l'impressione di dover offrire i colori a Robert, ma non ne aveva davvero voglia. La sua schiena, notò, che da lontano pareva liscia e color cioccolato, era tutta butterata.
«Credevo che erano per Roland» disse lui con un cenno del capo verso gli acquerelli.
«Sì, certo, ma Roland è troppo piccolo. Lyle è un padrino affettuoso, ma poco pratico».
«Vuole che Roland diventa un artista. Per questo li ha presi».
«Magari fosse così facile» rispose lei. «Anzi, grazie a Dio non lo è».
«Tu cosa vuoi per lui?».
Marian voleva soltanto una cosa: che fosse vivo. Per evitare la domanda, gli chiese: «Ti piacciono i bambini?».
Robert girò qualche pagina della rivista. «Sì,» fece «mi piacciono le mani. E i piedi».
A quella risposta le caddero le braccia, neanche gli avesse domandato quali parti del pollo preferiva. Girò lo sguardo in cerca di una replica adeguata, ma non le venne in mente nulla. «Quanti anni hai?» gli chiese.
«Ventiquattro». Robert alzò gli occhi su di lei. «Fatti a giugno. E tu?».
«Quaranta». Marian si diede un'occhiata alle mani come se potessero smentirla. Poi batté più volte i palmi sui larghi braccioli della sedia. «Be',» disse «sarà meglio che vada a dare una controllatina a Roland».
«Certo» rispose Robert, e il suo tono non nascondeva di aver capito il pretesto, Marian voleva solo allontanarsi.
Non posso, pensò lei, l'ho appena messo a letto. «Siamo molto contenti che tu sia qui» disse, e unì le mani in grembo.
«Lo stesso per me».
«E che tu stia con Lyle». Robert non le rispose.
«Che farai quest'estate?» riprovò Marian. «A parte dipingere, s'intende».
«Lavoro. Faccio il cameriere in un ristorante indiano».
«Ah, sei indiano?».
«Mio padre. Vive a Delhi».
«Che cosa fa?».
«Il contraffattore».
«Ah. E cosa contraffà?».
«Varie cose che danno un mucchio di soldi. Jeans, soprattutto, e scarpe da ginnastica».
«E tua madre?» chiese Marian.
«E morta» rispose Robert. «Ero piccolo».
«E terribile. Mi dispiace molto. Era americana?». «Sì».
«Da quanto tempo vivi qui?».
«Dieci anni, più o meno».
«E vai spesso in India a trovare tuo padre?».
Lui rimase assorto qualche istante, come se la domanda richiedesse un po' di raccoglimento. «No,» rispose «è un po' che non lo vedo. Non credo… non so se è contento di come sono».
«Ah,» fece Marian «che sei un pittore?».
«No, che sono gay».
«Che gran peccato».
«Tu saresti contenta se Roland magari è gay?».
«Contenta? Mah, credo di sì. Se è contento lui».
«Però non per prima… Cioè, se è contento lui, poi lo sei anche tu».
«A dirti la verità,» rispose Marian «non è una cosa a cui abbia mai pensato. Roland non ha neanche un anno, mi sembra prematuro».
«Ovvio» rispose Robert e poi, subito dopo, aggiunse: «Scusami».
«Non ce n'è bisogno». Marian pensò: non è una cattiva persona, solo che non mi piace. Un'ape si posò sul bordo del bicchiere con l'acqua di fiume ed entrambi la guardarono. Marian la scacciò con una mano. «E meglio che vada a controllare Roland». Si alzò con una sensazione di sconfitta. «Non mangeremo prima delle otto, se ti viene fame prendi quello che vuoi in cucina. C'è un sacco di frutta».
«Grazie».
Aspettò un attimo come se ci fosse ancora qualcosa da dire e poi si avviò verso casa. Appena entrò sentì il pianoforte; andò in biblioteca e rimase sulla porta.
Lyle, con un tocco lieve e lento, gli occhi fissi sullo spartito, cercava di districarsi in un pezzo di Bach. Si fermò. «Sono completamente fuori esercizio».
«Non mi pareva male» disse Marian.
«Scusami se sono rientrato così di corsa, è che…». Lyle si strinse nelle spalle. «Non lo so». Suonò qualche altra nota e poi alzò lo sguardo. «Dov'è Robert?».
«E ancora fuori».
«Da solo?».
«Sì… io vado a dare un'occhiata a Roland».
«Io non l'ho sentito» disse Lyle. «Suonavo pianissimo».
«Oh, non ti preoccupare, ha il sonno profondo».
«Ci mettiamo al piano insieme, allora?».
Marian sorrise. «Okay. Alzati, che guardo cosa abbiamo. Dovrebbe essere ancora tutto qui».
Aprì la panchetta e scorse gli spartiti. «Che ne dici delle Danze ungheresi?».
«Le massacrerò,» rispose Lyle «ma proviamoci».
Si sedettero vicini e Marian mise lo spartito sul leggio. «Queste le avevamo imparate proprio bene. Ti ricordi?».
«Sì, ma erano parecchi anni fa».
«Soltanto due. Vediamo fin dove ci assiste la memoria».
«Fammi dare almeno un'occhiata» disse Lyle. «E non ho neanche gli occhiali; sarà la mia scusa».
«Sei pronto?» gli chiese lei dopo poco.
«Direi di sì. Piano però».
Marian mise le dita sui tasti, fece un cenno col capo e cominciarono. Non se la cavavano affatto male e ne suonarono una buona parte prima che lei all'improvviso si fermasse. «Aspetta un momento». Tese l'orecchio. «Forse è Roland, hai sentito?».
«No» disse Lyle dopo aver ascoltato a sua volta.
Marian si alzò. «E meglio che salga a vedere. Vieni con me».
La seguì su per la scala. Roland era in piedi nel lettino, ma non piangeva. Fissava dritto davanti a sé con un'espressione interrogativa.
«Eccoti qua!» disse Marian. «Guarda chi è venuto a trovarti, zio Lyle». Prese il bambino in braccio.
«Ormai potrebbe scavalcare le sbarre da solo».
«Non ci ha ancora provato, ma non credo che ci manchi molto. Sento un po' di puzzetta, tesoro? Eh sì. Vuole cambiarti zio Lyle? O lo fa la mammina?».
«La devozione dello zio Lyle arriva fino a un certo punto».
Marian scoppiò a ridere e baciò la tempia umida di Roland. «E un po' accaldato. Prenderesti quella pezzuola di spugna e la bagneresti sotto l'acqua fredda? Intanto io lo cambio».
«Sì» rispose Lyle e andò in bagno con la pezzuolina da neonato con le papere gialle; era grande come la sua mano. La inumidì e la strizzò, poi la bagnò di nuovo. Tony portava il pannolone nei suoi ultimi giorni di vita in quella casa. Lyle aveva creduto che sarebbe stato come cambiare un bambino, ma niente affatto: era come cambiare il pannolone a un uomo adulto. Sarebbe stato meglio se la malattia lo avesse fatto regredire, ma Tony non aveva mai smesso di essere sé stesso. Lyle si rese conto che si stava passando la pezzuola umida sul viso; la sciacquò e tornò nella stanza. Marian era seduta sulla sedia a dondolo e allattava Roland. «Ecco» le disse porgendogliela.
«Grazie. Siediti» e gli indicò una poltrona con sopra della biancheria pulita ben piegata. «Mettila pure sopra il cassettone».
Lyle la spostò e si sedette. Rimasero un po' zitti ad ascoltare Roland che succhiava e poi Marian disse: «Allora, che succede?».
«In che senso?».
«L'altro giorno, al telefono, mi hai detto che avevi tante cose da raccontarmi. Immagino ti riferissi a Robert». Intanto lei passava la pezzuola sui sottili capelli di Roland.
«Sì, credo di sì».
«Allora raccontami. L'hai conosciuto a Skowhegan?».
«Sì, ma insieme agli altri. Poi mi ha accompagnato all'aeroporto e abbiamo avuto modo di parlare un po'». «E…?».
«Mi è sembrato un tipo interessante, e dolce. I ragazzi della colonia sono quasi tutti terribili, ambiziosi e sicuri di sé, stupidi e senza la minima capacità di ascoltare. Ma Robert è diverso. Appena è tornato a New York mi ha chiamato e ho deciso di offrirgli lo studio di Tony come atelier».
«E bravo?».
«Non lo so» rispose Lyle. «All'inizio mi ha spinto soprattutto l'idea che di quello spazio usufruisse una persona giovane, e creativa. Secondo te Tony avrebbe approvato?».
Marian si strinse nelle spalle. Tony non era mai sembrato troppo incline a incoraggiare i giovani artisti. «Credo di sì» disse.
«Non ho visto i suoi lavori e devo ammettere che adesso ho un po' paura… e se dipinge degli orrori? Ma ho la sensazione di no. Lui dice che fa "paesaggi contemporanei"».
«Cioè? Le pompe di benzina e i parcheggi?».
«Mah, lo scoprirò presto. Però non me ne importa davvero. E l'idea dello studio a piacermi. A me, tutto sommato, costa ben poco, mentre a lui sembra chissà cosa».
«Ma come siete arrivati… sì, al sentimentale?».
«Al sentimentale?».
«Ah. E una storia solo di sesso?».
«No,» rispose Lyle «del sentimentale c'è, o quel che sia. Ma con mia grande sorpresa c'è anche il sesso. Non c'è molto da spiegare in questo genere di cose. Tu ci riesci? Succedono e basta».
«Be', no, ci si può provare» disse Marian. «É importante capire. Succedono… di sicuro per delle ragioni. Lo trovi così affascinante?».
«Tu no?».
«Certo che no» rispose Marian. «Cioè, non lo conosco ancora, e devo dire che sembra molto dolce. Però sono curiosa di sapere cosa ti affascina».
«In tutta onestà e superficialità, la sua bellezza. All'inizio è sempre importante, giusto? A me Robert pare bellissimo. E per qualche strano motivo che non capisco, anche lui mi trova attraente. E questo mi piace».
«Certo che ti trova attraente: lo sei».
«Non è una sensazione che mi capita di provare spesso».
«Be', questo è bello, in effetti».
«E poi…» continuò Lyle. «Non so davvero come dirlo. Sto cercando di scoprirlo anch'io. E una persona aperta, in un certo senso, forse perché è giovane, e ho l'impressione che non abbia ancora preso le sue decisioni, che non sia abbarbicato alle sue idee. E uno che ascolta, che ascolta sul serio».
«Quindi ti piace perché è malleabile?».
«Probabilmente è quello che intendo. Ma non perché mi interessi plasmarlo, o cambiarlo… e poi lui pensa con la sua testa. È più come mi fa sentire. Mi stimola a pensare a quello che dico e faccio in un modo di cui non ricordavo di essere capace».
«Già,» fece Marian «è interessante incontrare persone nuove: ci si vede in un modo diverso».
«Sì» confermò Lyle. «Mi sentivo fermo, nei modi, nella persona che ero. E bello sapere che si può cambiare anche adesso, così avanti nella vita».
«Non sei mica tanto vecchio».
«Ma io mi sento vecchio».
«Be', non cambiare troppo,» disse Marian «io ti voglio bene così come sei».
«Non ti preoccupare. Anzi, non mi piace pensarci troppo a queste cose, preferisco che accadano. Ma volevo che lo conoscessi. Ecco perché l'ho portato».
«Allora sono contenta. Non era quello che… sì, è stata una sorpresa, credo tu lo sappia, ma è meravigliosa. Sono felice per te».
«Davvero?» chiese Lyle. «Allora ti è simpatico? Avevo paura che…».
«Cosa?».
«Mah… che non approvassi».
«Perché? Che c'è da disapprovare?».
«No, è che è successo tutto così in fretta, non sono ancora a mio agio. Certe volte quasi non ci credo. Non so cosa sto facendo, so soltanto che sto molto meglio di prima. Soprattutto adesso, a parlarne qui con te».
Roland si era addormentato. Marian gli accarezzò la guancia col dorso delle dita, e dopo qualche attimo di silenzio Lyle ripeté: «E meraviglioso rivederti, e stare qui, a parlare in questo modo. Non so dirti quanto sia bello».
«Mi sei mancato».
«E tu come stai?».
«Bene».
«La depressione?».
«Niente, grazie al cielo» rispose lei. «Non mi…». Marian dondolò avanti e indietro. «Sembra passato tanto tempo, eppure non lo è. La mia vita è veramente diversa, adesso, e sembra quella giusta: qui e ora. Non abitare più a New York non immagini quante cose cambi.
Le giornate sono molto più semplici. All'inizio è terribile perché ti sembra di non contare più niente, di scomparire, un po' come se ti ritirassi dal mondo, ma non è affatto vero. Il mondo che ho trovato qui mi piace. E con Roland… be', cambia tutto. Sai che da quando sono rimasta incinta non ho più preso una pillola? Neanche un'aspirina».
«Magnifico» fece Lyle.
«Non voglio dire che le medicine non siano fantastiche. Sicuramente mi hanno salvato, ma più di tanto non possono fare. Tutto sta nel trovare la vita che fa per te. Sembra una banalità ma non lo è, almeno non lo è stato per me. La mia vita era tutta sbagliata prima. Se penso a quanta gente fa una vita sbagliata… E te ne accorgi solo quando è troppo orribile, e allora rischia di essere troppo tardi».
«Sono felice che le cose ti vadano bene» disse Lyle.
«E tu?» chiese lei. «Il tuo lavoro? Hai cominciato un nuovo libro?».
«No, ho degli articoli da scrivere, e un mucchio di convegni e conferenze. Te l'ho detto che mi sono preso un agente?».
«No, davvero?».
«Sì, è lo stesso di Sigrid. È incredibile quante telefonate abbiano cominciato ad arrivare… almeno all'inizio, adesso sta rallentando un po'. Ma in autunno sarò in un posto diverso quasi ogni settimana».
«Accipicchia, sei diventato una star».
«Oh, lo sai che queste cose non durano. Però, finché posso, tanto vale darsi da fare».
«Stupendo. Sono così contenta per te… Che peccato… Tony sarebbe stato contentissimo, sarebbe stato orgoglioso del tuo successo».
«Sì, lo so» disse Lyle.
Marian guardò Roland. «Che strano avere un figlio,» disse «è una cosa che continua a stupirmi. A volte penso che quando saprà parlare mi dirà tutto, ogni cosa che gli passa per la testa; e di lui conoscerò sempre ogni cosa, fino in fondo, come sento di fare adesso». Lo cullò un po'. «Lo so che non sarà così, ma intanto mi illudo». Alzò gli occhi su Lyle e sorrise. «Fino in fondo non conosceremo mai nessuno, vero Lyle?».
«Credo proprio di no».
Rimasero in silenzio. Il sole aveva raggiunto quell'ora o due di sosta fiammeggiante che precedono l'inizio della sua discesa.
«Mi sa che una dormita me la faccio davvero» disse Lyle.
«E l'ora della siesta, eh?».
Lui si alzò, diede un bacio a Marian e una carezza a Roland; i capelli, dove era passata la pezzuola, erano ancora umidi. «Dopo ci riproviamo, con le Danze?».
«Sì. Adesso fatti una dormitina».