Capitolo 6
GLI EROI SON TUTTI GIOVANI E BELLI
Ma nella fantasia ho l’immagine sua:
gli eroi son tutti giovani e belli.
Francesco Guccini, La locomotiva
L’uomo avrà una quarantina d’anni ma ne dimostra molti di più. Incede con il passo pesante e faticoso di chi non ha vissuto bene, quasi il destino volesse punirlo per la sua sciatteria. La vita non è generosa con i poveri cristi come lui. Proviene dal Sudamerica, come il ragazzo che gli cammina al fianco, anche se lui non possiede gli stessi occhi a mandorla né la fierezza e il fisico scolpito d’un guerriero indio. Ha i denti marci, la corporatura tozza e la pelle olivastra, indossa una sudicia camicia alla coreana, d’un color grigioverde, sopra un paio di calzoni di lino, larghi e frusti. Ai piedi porta un paio di sandali sformati, che contengono a stento i piedi gonfi e sporchi. Si vede che non è cresciuto nell’aria ovattata e fresca d’una villa di Albaro, nutrito con una dieta calibrata ricca di carboidrati e proteine, e addestrato agli sport più esclusivi come il tennis e il nuoto. Quello che i Selman hanno cercato di raschiare via dal corpo e dall’anima del loro figlio, plasmando Bernardo finché non è diventato Giovanni, è tutto impresso nel respiro affannoso di questo miserabile che campa facendo spacciare cocaina a un minorenne scappato di casa.
Li ho visti uscire insieme stamattina, intorno alle dieci, dal portone di via del Molo. Erano due ore che gli facevo la posta. Sono entrati nel Porto antico e hanno raggiunto uno dei bar del Millo dove si sono seduti all’ombra e hanno ordinato la colazione. Non sembrano preoccupati del fatto che siamo in pieno centro e che il ragazzo potrebbe essere ricercato dalla polizia.
Per non dare nell’occhio mi sono abbigliato come un turista straniero e in questi panni mi sento terribilmente ridicolo. T-shirt bianca, bermuda color kaki, occhiali da sole, zainetto da trekking e un cappello di paglia finto Panama. Abito a pochi passi da qui e sono nato e cresciuto tra piazza Sarzano e la porta Siberia. L’idea che qualche amico o conoscente mi veda così travestito mi procura un sottile disagio, tanto che decido di sbrigare il mio compito e togliermi dai piedi il più in fretta possibile. Al collo mi penzola una macchina fotografica digitale con il teleobiettivo che mi consente di riprendere Giovanni e il suo pusher con una lunga sfilza di primi piani senza che se ne accorgano.
L’uomo parla spagnolo – lo deduco leggendo il labiale, anche se non riesco a capire quello che dice – e sorride raramente, mettendo in mostra i suoi denti marci e due occhi tristi che non reclamano altro se non una svagata attenzione. Invece Giovanni si beve ogni parola fissandolo con rispetto, quasi con riverenza. Mi rattrista il pensiero che, quando Giacomo Selman vedrà le fotografie, schiatterà di gelosia e il suo livore si farà ancora più acido.
Il mio lavoro finisce qui. Ho trovato Giovanni e so dove si nasconde e chi lo ha adescato facendone una gallina dalle uova d’oro. Non mi resta che tornare nella lussuosa, colorata villa sulla collina di Albaro, raccontare quello che ho scoperto e riscuotere il mio assegno. Al resto penserà la polizia.
Sto per avviarmi verso piazza Caricamento, abbandonando Bernardo e il suo mentore alla loro tardiva colazione e al loro destino, quando mi accorgo che qualcosa mi trattiene. Un dubbio, o forse il bisogno di trovare un senso a questo incarico esaurito in poco più di quarantotto ore. Il caldo si è fatto feroce e lo spiazzo aperto dell’Expo non offre un filo di ombra. Lancio un’occhiata alla calca sul molo, davanti al battello che porta i turisti a San Fruttuoso e Portofino. Luoghi magici, noti in tutto il mondo. Quante volte li ho raggiunti con il gozzo del Capitano, durante le nostre battute di pesca alla traina, all’inseguimento di tonni e lampughe. E se i tonni e le lampughe non abboccavano, ci restavano sempre il sole e il mare e il verde della vegetazione che si specchiava nell’acqua, insieme al gusto di fare quattro chiacchiere o di restarcene in silenzio.
Mi seggo su una delle panchine rotonde sistemate intorno alle palme e di tanto in tanto osservo in lontananza i due compari che continuano a parlarsi fitto fitto.
La scorsa notte ho notato che in discoteca il cassiere, i buttafuori e molti avventori trattavano Giovanni con familiarità. Questo significa che in quel posto, anche se è comparso da meno di una settimana, lo conoscono e soprattutto lo tollerano. Quando si è infilato nel bagno ha mandato una specie di segnale, l’attività di spaccio è cominciata e nessuno è intervenuto per bloccarlo. Spacciare coca non è come vendere noccioline, per farlo devi godere d’una sorta di salvacondotto, specialmente se lo fai in un posto così affollato, una piazza che sembra rendere un mucchio di soldi. Dunque il vecchio pusher deve avere qualche contatto importante nella zona. Un altro aspetto interessante della faccenda è che, a sentire i due ragazzini interrogati in discoteca, la cocaina smerciata dal giovane indio è di ottima qualità. Probabilmente arriva dalla Colombia attraverso le vie collaudate del narcotraffico, ma mi piacerebbe conoscere i dettagli, anche se questo genere di curiosità non rientra nel mio incarico: come mai è così buona? E come diavolo fa il puzzone a procurarsela? Infine mi chiedo come questi due individui, così differenti fra loro, che in comune hanno solo l’appartenenza allo stesso continente, si siano trovati e piaciuti fino al punto di diventare soci in affari. Se sia successo perché Bernardo ha annusato negli abiti lerci e nello sguardo triste dello spacciatore l’odore della sua terra e se questo basti a spiegare la considerazione che mostra verso di lui, mentre ai suoi genitori riserva disprezzo o indifferenza.
La mente torna al profilo di Manuel BSG, alle FARC, ai proclami di fuoco postati in pessimo castigliano su Facebook. Se smerciare cocaina per finanziare la lotta armata è un atto rivoluzionario, da feccia del mondo il pusher è diventato una specie di eroe romantico. Jacqueline Selman ha allontanato l’idea con un senso di ribrezzo, ma qualora Manuel e Giovanni fossero la stessa persona, dovrà fare i conti con un’altra, amarissima sorpresa. D’altra parte, sia lei sia il marito non hanno mai trovato nelle tasche di Giovanni il becco d’un quattrino. Forse l’attività di spaccio è cominciata solo dopo la sua fuga? Certo è che nella bolgia di quella discoteca il ragazzo ha intascato una cifra di tutto rispetto. Che ne fa Giovanni dei soldi? Li regala al suo fornitore? E questi come li usa, dal momento che veste come un pezzente e non riesce neppure a pagarsi le cure di un dentista?
Afferro il telefono e chiamo Pertusiello. Mi risponde la voce di Agnese, circonfusa da un rumore di fondo che riconosco subito, un misto di voci, grida in lontananza e il suono dell’onda che lambisce le pietre della riva. Mi spiega che si trovano ai bagni Roma, in corso Italia, dove hanno prenotato la cabina per tutta la stagione. Ne approfitta per ricordarmi che è venerdì e che questa sera mi aspettano a cena. Il commissario è a mollo, come gli ha consigliato il medico. Il moto fa bene al cuore. Camminare e nuotare con regolarità, senza forzare troppo, preserva la funzionalità delle coronarie. I dottori hanno le loro ragioni, ma io resto convinto che quello che sto per dirgli farà al suo cuore un effetto migliore di qualunque medicina. Il commissario arriva ansimando e Agnese gli passa il telefonino.
«Scommetto che l’hai trovato», dice sputando acqua.
«Indovinato, è qui a pochi metri da me insieme al pusher che gli fornisce la coca.»
«Cazzo», sbotta, «dunque si è allontanato da casa per spacciare pesante.»
«Non so, forse spacciava anche prima, ma ora ha trovato una piazza lontana.»
«Quanto lontana?»
«Una discoteca della Versilia. L’ho seguito fin là.»
«In questa stagione sono i posti più gettonati», commenta. E, tra l’ironia e la preoccupazione, aggiunge: «E così non hai resistito al richiamo d’una notte brava».
«È stata dura», ammetto.
«Lo credo, vecchio mio. Al tuo posto ci andrei più cauto.»
«Il ragazzo vive con il pusher», taglio corto, «un sudamericano piuttosto malmesso che abita in via del Molo. Prima di parlare con la famiglia vorrei mostrarti alcune foto e chiederti di fare qualche accertamento.»
«Porta le foto questa sera, insieme a due bottiglie di vino bianco fresco. Che so: un buon Greco di Tufo, o magari un Fiano di Avellino, o quello che pare a te. L’Agnese cucina pesce.» Un breve silenzio, quindi domanda: «Ma a che ti serve il mio aiuto?».
«Vorrei provare a costruire una storia.»
«Qui la storia sembra sempre la stessa: c’è un figlio di buona donna che non vuole rischiare il culo e manda avanti un minorenne.»
«L’ho pensato anch’io», confermo. «Il fatto è che probabilmente sono entrambi colombiani…»
«Bella scoperta. La coca mica la spacciano i beduini.»
«Questo pusher sembra uno sfigato, ma in quella discoteca il ragazzo si muoveva come se tutti gli ingranaggi fossero oliati alla perfezione.»
«Sarà sfigato il pusher, ma non l’organizzazione per cui lavora.»
«Chi gestisce il traffico della coca da quelle parti?»
«Come dappertutto: la ’ndrangheta e la camorra. Sono loro che trattano direttamente coi cartelli della droga.»
«In quella discoteca ci saranno state oltre cinquecento persone, uomini e donne di tutte le età. In tanti con una gran voglia di farsi e i soldi per comprare la roba. Sicuramente il giovanotto ha tirato su diverse migliaia di euro.»
«E allora?»
«Secondo te, su una piazza come quella, aspettano la coca di un miserabile mezzo sdentato, lercio e gottoso, che abita in un appartamento scalcinato di via del Molo? »
«Continua.»
«Sembra trattarsi di roba di prima scelta.»
«Non l’avrai mica sniffata…»
«Sono stato tentato, giusto per rimanere sveglio, ma ho ripiegato sul caffè. Però ho domandato a quelli che l’avevano fatto.»
Una pausa di silenzio. «Sai una cosa, Bacci?» brontola. «Non capisco dove vuoi arrivare.»
«Non so, mi chiedo se sia possibile smerciare cocaina senza passare per il giro della mafia.»
«Hmmm… Non in pieno luglio, e non in una megadiscoteca della Versilia.» Altra pausa di silenzio. «Ma perché mi fai questa domanda?»
«Te lo spiego questa sera, davanti a una bottiglia di Fiano di Avellino.»
Ci salutiamo e, all’improvviso, come un colpo di pistola sparato a tradimento, mi coglie un senso di oppressione che mi toglie l’aria e mi sento invaso da una cupa tetraggine, quasi mi fosse calata addosso una nera cappa di malinconia. Forse ho avvertito qualcosa nel tono del mio amico commissario? Oppure ho visto qualcosa che ha risvegliato fantasmi del passato?
Mi guardo intorno e scorgo di spalle una criniera di capelli castani raccolti in un intrico di treccine rasta. Appartengono a un giovanotto che mi è appena sfilato davanti. Ha il passo deciso e indossa un paio di calzoni alla pescatora, ciabatte infradito e una maglietta su cui è effigiata un’immagine che è diventata un’icona. È il volto di un uomo con la barba e il basco stellato, ritratto da un grande fotografo cubano che da quello scatto non ha ricavato neanche un centesimo.
Allora comincio a capire e mi rendo conto che, in tutta questa storia, sono io a coltivare un’illusione, a sperare nel perdurare di un sogno e a volermi convincere che qualcosa di nobile alligni in una vicenda ordinariamente squallida e priva di qualsiasi aura. Forse perché ho letto dell’operazione Odisseo, condotta dall’esercito e dall’aviazione colombiana nel novembre 2011, quando il comandante delle FARC Alfonso Cano è stato ucciso vicino a Suárez, un centinaio di chilometri a sud di Cali. E quel resoconto mi ha richiamato alla mente un’altra vicenda che, dopo quasi cinquant’anni, non ho ancora digerito.
Era il 9 ottobre 1967. In un remoto villaggio della sierra boliviana chiamato La Higuera, dopo essere stato catturato e rinchiuso in una scuola elementare, per ordine del presidente Barrientos è stato assassinato a sangue freddo il comandante Ernesto Che Guevara. L’uomo con la barba e il basco ritratto da Robert Capa non aveva ancora compiuto quarant’anni. Gli eroi son tutti giovani e belli. Forse perché per diventare eroi bisogna morire prima d’essere contaminati dall’abominio della storia.
Una parte della mia generazione ha sempre avuto una predilezione per i perdenti, fino a celebrarne il culto sulle T-shirt e nelle malinconiche canzoni di Carlos Puebla e degli Inti Illimani. L’ultimo è stato lui, il mio amico Cesare Almansi, al quale non toccherà neppure questo privilegio e nessuno dedicherà mai una poesia né una canzone. E così ora cerco improbabili risarcimenti e riscatti morali in narrazioni immaginarie, fuori tempo massimo, mentre nel mondo reale vige il dominio asettico e brutale del denaro, scambiato con polvere bianca come con qualunque altra cosa, si tratti di armi, rifiuti tossici o dignità.
Sono io che inseguo divinità indie là dove c’era solo miseria e degradazione, e storco il naso di fronte alla ricchezza d’un padrone del cemento che, una volta tanto, ha fatto una cosa buona ed è arrivato in soccorso d’un bambino perduto, in un tardivo e forse disperato tentativo di redenzione dalla brutalità del mondo.
In preda a questi pensieri dimentico il caldo e i miei abiti fasulli da turista anglosassone, scatto in piedi e mi avvio verso casa. Giovanni Selman è ancora là, seduto al tavolino del bar, che ascolta incantato il suo pusher e sorseggia un cappuccino pagato con i soldi di qualche ragazzino che, nei prossimi anni, dovrà fare una lunga trafila al sert, il servizio pubblico per le tossicodipendenze, a spese dell’erario e dei contribuenti.