Epilogo
La prima settimana di agosto è sfilata via senza imprevisti né trasalimenti. La famiglia Selman è partita per la Colombia e, fino a questo momento, nessuno di loro ha avvertito il bisogno di telefonarmi. Lo interpreto come un segno di buon auspicio, la prova che le cose non hanno preso una brutta piega.
Ora che Aglaja è tornata dalle vacanze, ho ricominciato a consumare la colazione seduto a tavola – caffè, latte, cereali, pane, burro e svariate composte e marmellate – e ad aprire la giornata commentando con lei le notizie del giornale radio. È una piacevole abitudine, una delle tante, che scandisce la nostra convivenza di padre single divorziato e figlia quasi fidanzata e quasi laureata, prossima a trasvolare in altri lidi non appena avrà concluso gli studi e, con essi, questo ciclo obbligato della vita.
Sono trascorsi dieci anni esatti da quando ci siamo ritrovati, dopo altrettanti in cui io non ho potuto vederla e lei non ha voluto sentirmi. Non perché mi odiasse, ma perché farlo era troppo doloroso per lei. Tant’è che, in quarta liceo, si è ribellata, è scappata dalla casa di Chiavari dove viveva con Clara e il suo nuovo marito e mi ha raggiuto in Sardegna, alla marina di Sàrrala. Non poteva saperlo, ma quella casa che lei vedeva per la prima volta – un edificio bianco, squadrato, con tre stanze affacciate su una vigna di cannonau che conduce alla spiaggia e al mare ? era il luogo dove è stata concepita.
Mi sono chiesto come sarà, dopo. Quando deciderà di frequentare un master in un’altra città, probabilmente all’estero, e non sarà più qui ogni mattina a fare colazione e a commentare le notizie del giornale radio. Aglaja sta per laurearsi in lettere moderne e difficilmente troverà lavoro in Italia. Probabilmente andrà in un altro paese, in cerca di opportunità per far fruttare le sue conoscenze. L’esperienza dei sei mesi di Erasmus in Francia, tre anni or sono, mi ha fornito una pallida idea di quello che accadrà, e di come mi sentirò. Ma è giusto così, i figli si fanno per poi lasciarli andare.
Devo smetterla con questa sindrome del reduce di guerra che si sente in credito con il mondo. Devo piantarla di pensare che il destino mi ha rubato una fetta di vita per la quale ho diritto a un risarcimento. Se ho buttato via cinque anni chiuso in una prigione, nessuno me li restituirà più. E lo stesso vale per il rapporto con mia figlia: mi è mancata per quasi dieci anni, è vero, ma non posso pretendere di rifarmi a sue spese trattenendola e impedendole di vivere la sua vita. Aglaja si è già sacrificata abbastanza, prendendosi cura di me dopo che mi hanno sparato. Il solo risarcimento possibile consiste nel vederla impegnata a costruire la propria strada, soddisfatta di sé, tenace e combattiva. E nel sapere che l’affetto che ci lega non conoscerà distanze capaci di affievolirlo.
Appena è tornata non ha perso tempo e mi ha tempestato di domande sui miei progetti lavorativi. Non stava più nella pelle per la curiosità. La sua prima domanda è stata: «Non vorrai andare in pensione?». E nel tono ho sentito un misto di paura e desiderio.
Ho ben chiare le ragioni del suo desiderio, il mio è un lavoro sporco e pericoloso ed è stato la ragione del nostro allontanamento. Quello che mi sfugge è perché abbia paura che suo padre chiuda bottega. Dopotutto, sono trent’anni che consumo pneumatici e suole delle scarpe sulle strade, alla ricerca di persone scomparse e di quelli che le hanno fatte scomparire.
«Non è alla pensione che ho pensato», ho risposto. «Però mi sono accorto che questo lavoro sta diventando troppo faticoso per me.»
«E allora?»
«Devo trovarmi un socio, un giovane che mi affianchi, impari il mestiere e si prepari a sostituirmi.»
«Hai pensato a qualcuno in particolare?»
Sono rimasto in silenzio, indeciso se fare il nome che mi è saltato in testa oppure svicolare, quando lei mi ha afferrato le mani, gli occhi puntati nei miei come due raggi laser, e mi ha anticipato: «Non avrai pensato a Essam, vero?».
«Vuoi la verità?»
«Certo che voglio la verità!»
«Ebbene sì, ci ho pensato. Ma l’ho subito scartato.»
«Non per via della sua religione, mi auguro.»
«Di questi tempi, la sua fede non gli faciliterebbe le cose», ho replicato, leggermente infastidito dal tono inquisitorio delle sue domande. «Ti immagini l’iter della pratica per concedere il porto d’armi a un giovane musulmano?»
«Potresti sempre chiedere aiuto al tuo amico commissario.»
«Dubito che servirebbe a qualcosa. Ma non è solo questo: gli mancano i requisiti di base.»
«Ovvero?»
«La cittadinanza italiana e una laurea triennale.»
«La laurea potrebbe prenderla con facilità, Essam non ha mai avuto problemi con lo studio.»
Ho scrollato energicamente la testa e ho risposto: «Resterebbe comunque cittadino egiziano…».
Mia figlia ha cambiato di colpo espressione, i suoi occhi castani, scuri e profondi, si sono fatti tondi come palline da ping pong e, rimandando indietro un risolino beffardo, ha sparato: «E se lo sposassi?».
Tutto avrei immaginato, fuorché Aglaja tifasse per il mio lavoro, al punto da desiderare che il suo fidanzato mollasse la professione di cuoco per ripercorrere le orme di un padre che troppe volte è andato vicino a lasciarci la pelle.
«È quello che Essam ha sempre desiderato», ha insistito, testarda. «Da quando era un bambino.»
«Appunto. Da bambino io sognavo di fare il vigile urbano.»
«E perché non l’hai fatto?»
«Non me lo ricordo più.»
Sono trascorse quasi tre settimane da quella conversazione, e Aglaja è tornata spesso sull’argomento. Ho accettato di riparlarne, ma a un patto: che non ne facesse parola con Essam. E lei ha mantenuto la promessa.
Stamattina siamo seduti nel soggiorno inondato di luce, la tavola apparecchiata e la radio accesa. Aglaja indossa una maglietta e un paio di jeans, io sono ancora avvolto nell’accappatoio di spugna. Lei è di fretta, deve correre in università per parlare con il suo relatore di laurea. Il giorno in cui è partita per le vacanze ha consegnato la prima parte della tesi e oggi arriverà il verdetto, anche se si mostra tranquilla e non dà segni di nervosismo. Evidentemente è sicura di aver fatto un buon lavoro.
Le notizie scorrono piatte, quasi completamente prive d’interesse. All’improvviso, tre parole calamitano la mia attenzione: Roma, ambasciata, Colombia. Mi concentro in ascolto e seguo un racconto che, per quando sommario, mi fa gelare il sangue.
Nella notte, sul grande raccordo anulare, la polizia ha rinvenuto un’automobile crivellata da colpi di arma da fuoco. Si tratta di una berlina nera di grossa cilindrata. Da principio si è pensato a un regolamento di conti tra bande di malavitosi, ma l’ipotesi è stata subito scartata per il fatto che l’auto portava l’insegna del corpo diplomatico. All’interno, il cadavere d’un uomo sui trentacinque anni, al quale sono stati sparati diversi colpi, al cuore, alle braccia e a un occhio. L’uomo faceva parte del servizio di sicurezza dell’ambasciata della Colombia.
«Oh, cazzo!» mi scappa detto.
Aglaja ha appena finito di bere il caffè. Mi guarda con aria interrogativa e scatta in piedi per correre via. «Che succede, pa’?»
«Temo di conoscere il nome di quell’uomo.»
«Un colombiano?»
«Un tenente dell’esercito che, a quanto pare, ha fatto carriera.»
Ci salutiamo e, senza neppure sparecchiare, mi precipito nell’ufficio, accendo il computer e comincio a frugare nelle pagine dei maggiori quotidiani nazionali. La conferma arriva puntuale. Il morto si chiamava Roberto Hernández da Silva e faceva parte del corpo di sicurezza dell’ambasciata. Nelle due ore successive che trascorro attaccato al pc, emerge altro materiale. Un sito colombiano annuncia «la morte dell’aguzzino» e smentisce il comunicato dell’ambasciata colombiana. Hernández da Silva non si trovava a Roma in veste di membro del corpo di sicurezza, ma inviato dai servizi segreti per smantellare una rete di esponenti delle FARC presenti in Europa con un obiettivo preciso: avviare contatti con le forze democratiche del vecchio continente e allargare il consenso intorno agli obiettivi politici dell’organizzazione. Tale attività assumeva una importanza strategica nel processo di pacificazione in corso in Colombia.
Il motore di ricerca, man mano che il tempo passa, mi conduce ad altri siti che fanno riferimento all’operazione Odisseo, alla morte del comandante Alfonso Cano e al ruolo di Hernández nell’assassinio del combattente guerrigliero Tío Pepe. Un giornale di orientamento filogovernativo conferma che il militare era a Roma per conto dei servizi segreti, ma afferma che obiettivo della sua missione era smantellare una vasta rete di narcotraffico collegata alle Forze armate rivoluzionarie.
Vado in camera, indosso una maglia e un paio di calzoni corti e intanto mi tornano in mente le parole riportate sul profilo di Manuel BSG: la venganza sacrosanta por un crimen que pronto será lavada con la sangre.
Esco in strada e, quasi correndo, mi precipito lungo lo Stradone in direzione di via del Molo. Imbocco via San Bernardo e la percorro tutta, finché esco in piazza Cavour, dove la luce cruda del sole mi investe con il suo respiro arroventato. Ora sono davanti al portone dove abita Jaime Ramos, l’amico di Giovanni, il più repellente pusher gentiluomo che abbia mai conosciuto.
Suono al citofono, e nessuno risponde. In quel momento vedo l’anziana signora che, alcune settimane fa, mi aveva fornito le prime informazioni su di lui. Sta ritornando a casa con il suo trolley della spesa e, quando mi vede, mi riconosce subito.
«Che cosa gli ha fatto?» domanda con aria allegra.
«A chi?»
«Al sudamericano del terzo piano.»
«Perché, gli è successo qualcosa?»
«Non mi dica che non sa niente», replica guardandomi di traverso.
«Glielo giuro.»
«Ha lasciato l’appartamento. E le dirò che, francamente, non ho nessun rimpianto.»
«È sicura che non gli sia accaduto niente?»
«Ma se l’ho visto salire su un taxi con due valigie…»
«Quando?»
«Saranno passati cinque, sei giorni. Era elegante come un damerino, non l’avevo mai visto vestito così.»
«La ringrazio», dico congedandomi.
La donna infila la chiave nel portone, poi si volta di scatto e, strizzando l’occhio, sussurra: «Mi dica la verità, le prometto che resterà fra noi: lei è per caso un vigile urbano?».
Genova, 8 febbraio 2016