Capitolo 15

 

NOME DI BATTAGLIA: TÍO PEPE

 

 La telefonata di Jacqueline arriva intorno alle otto e mezza di sera come un fulmine a ciel sereno. Piange a dirotto e le parole escono a fatica, spezzate da irrefrenabili singhiozzi. La richiesta è chiara: «Venga subito, dottor Pagano, o qui finirà in tragedia».

 Infilo una maglietta e un paio di calzoni leggeri, inforco la Vespa e in meno di un quarto d’ora mi ritrovo nel mezzo di un duello rusticano. Le urla mi hanno raggiunto nell’atrio del portone. Così come si spezza un incantesimo, il soffice e imbottito silenzio di casa Selman si è finalmente rotto. Giunto all’ultimo piano della villa, alla porta ho trovato Mabel, la domestica ecuadoriana dall’età indefinibile, in lacrime e con le mani giunte in un’incomprensibile preghiera quechua balbettata con le labbra tremanti. Irrompo in cucina dove mi imbatto in Giovanni che brandisce un coltellaccio da macellaio e, dall’altra parte del tavolo, Giacomo Selman scalzo, in mutande e canottiera, che si tiene a prudente distanza da lui. Sua moglie, dopo avere lanciato l’sos, se ne sta spalle al muro, muta e immobile come una statua. Appena mi vede mi lancia un’occhiata dove palpitano insieme terrore e sollievo. Il volto segnato da rivoli di mascara ormai secco ricorda quello di una madonna al cospetto della croce.

 «Metti giù quel coltello, delinquente!» strilla Giacomo Selman, forse rincuorato dalla mia comparsa. «Ti faccio rinchiudere, ci puoi scommettere. E farò anche arrestare quel farabutto del tuo amico!»

 Giovanni ha gli occhi sgranati e le labbra piegate in un sorriso cattivo che fa paura. «Tu non farai un bel niente perché io ti sbudello», replica con voce atona.

 «Questo è davvero troppo», risponde Selman. Il tono, così acuto da far venire i brividi, ricorda il rumore di un’unghia che graffia il piano d’una lavagna. «Con me hai chiuso, Giovanni. Per sempre.»

 Il ragazzo fa mezzo giro intorno al tavolo e il padre lo imita, in modo che si ritrovano l’uno nella posizione occupata dall’altro un attimo prima.

 Me ne sto sulla soglia della lussuosa cucina in legno massello, appena illuminata dalla stanca luce dell’imbrunire, con Mabel stretta al fianco che mi spinge verso i due contendenti.

 «Sei tu che hai chiuso», insiste Giovanni. «Per sempre.»

 Il giorno in cui ci siamo conosciuti, in casa di Jaime Ramos, ho visto con quale agilità è saltato dietro il divano. Mi dico che, se davvero volesse sventrare suo padre, lo avrebbe già fatto. Muovo un passo verso di lui, che ancora non mi ha degnato di uno sguardo, come se non esistessi. Si volta e mi guarda. «Tu non muoverti», intima. «E non immischiarti.»

 Mi blocco e chiedo: «Cosa è successo di così grave?».

 «Sono cazzi nostri! Perché non te ne vai?»

 «Vuole tornare dal suo amico!» sbraita Giacomo. «Così ricomincia a spacciare in libertà.»

 «Attento a come parli. Jaime non è uno spacciatore.»

 «Non si rende conto che rischia la vita», prosegue il padre. «Quel criminale lo manderà di nuovo a smerciare coca in una piazza della mafia!»

 Altro mezzo giro del tavolo, con la lama che nella penombra non riesce neppure a luccicare, sollevata in alto come un fallo triste, moscio.

 «Non mi ha mandato lui!»

 «Qualcuno ti avrà mandato», ribatto con calma. «Anche se non credo che la tua vita sia in pericolo.»

 «L’unica vita in pericolo è la sua», risponde gridando e agitando il coltello contro il padre adottivo. Ora mi accorgo che il timbro della sua voce non è né carne né pesce. Quando si esprime con calma ha la solida consistenza dell’eloquio di un uomo, ma appena si altera fa capolino, come un segnale di disperazione, l’esile vocina del bambino.

 “I bambini non uccidono”, mi dico.

 «Ma non credo che il tuo amico apprezzerebbe», continuo mantenendo lo stesso tono tranquillo. «Comportandoti così, non fai che metterlo nei guai.»

 «Che ne sai tu del mio amico?»

 «Stamattina, mentre facevi la guardia, abbiamo parlato.»

 «Lo so. E allora?»

 «È stata una conversazione interessante.»

 «Interessante?»

 «Eccome. Ho capito un sacco di cose di Jaime, prima fra tutte che non è una cattiva persona. Tutto quello che desidera è essere lasciato in pace. Gli ho promesso che l’avrei fatto, a condizione che tu non venissi coinvolto in altre attività di spaccio. Insomma, abbiamo stipulato quello che si chiama un accordo tra gentiluomini. Ma se tu ora combini casini, verrà coinvolto e io non potrò fare niente.»

 «Io non combino nessun casino!» replica riprendendo il balletto intorno al tavolo e puntando la lama contro Giacomo Selman. «È stato lui a cominciare.»

 «Sono arrivato a casa con un cellulare comprato apposta per te», lo interrompe il padre, ansimando. «E in cambio cosa mi sono sentito dire? “Stanotte vado a dormire dal mio amico!”»

 «E allora, cosa c’è di male?»

 «Gli ho detto che non glielo avrei permesso», aggiunge rivolto a me, «ma lui se n’è fregato. Ero sotto la doccia quando ha provato a uscire.»

 «Glielo avevo promesso!» insiste il ragazzo.

 «Balle», intervengo. «Sono pronto a scommettere che Jaime non ne sa niente e che, quando gli racconterò quello che stai combinando, andrà su tutte le furie.»

 «Non è vero!»

 Per tutta risposta estraggo il cellulare e glielo porgo. «Allora chiamalo e sentiamo quello che dice.»

 «Vaffanculo!»

 Cerco gli occhi di Selman. «Vede che ho ragione? Il problema non è Jaime.»

 «Ah no?» ribatte, sforzandosi di esibire un po’ d’ironia mentre, scalzo e in mutande, danza la carola con suo figlio armato di un coltellaccio da macellaio.

 «No. Il problema sono i film che si fa suo figlio.»

 Altro mezzo giro intorno al tavolo, mentre la cucina ? a dispetto del diligente lavorio dei condizionatori ? sempre più precipita in un’oscurità densa e vischiosa, quasi un presagio che ricorda il buio e la confusione di queste menti sperse in un calvario senza fine.

 «Non mi faccio nessun film!» ribatte il ragazzo, furioso.

 «Oh, io penso proprio di sì. Con chi te la prendi, Giovanni? Cosa vuoi dimostrare con quel coltello?»

 «Niente», replica con la voce incrinata da una insidiosa vena di magone. «Voglio solo essere lasciato in pace. Non sopporto di uscire e trovare la porta chiusa a chiave.»

 «Lo so che per te ogni limite diventa una violenza. Ma loro sono i tuoi genitori e non possono evitare di darti delle regole.»

 «Loro non sono i miei genitori!» urla brandendo il coltello.

 «Sono i soli che ti sono rimasti. Tua madre e tuo padre sono morti.»

 Con la coda dell’occhio scorgo il volto di Jacqueline coprirsi di lacrime. Piange in silenzio, forse per paura o semplicemente perché le parole del figlio l’hanno messa di fronte a un dato di fatto inopugnabile, e insieme clamorosamente falso. I paradossi sono sempre dolorosi perché ci confrontano con l’assurda condizione di sbagliare comunque, qualunque cosa facciamo.

 Ora il ragazzo è rivolto verso di me e mi guarda con odio. I suoi occhi a mandorla sono ridotti a due sottili fessure. Mi viene incontro con aria minacciosa.

 «Mi hai rotto il cazzo», ringhia.

 Tutto succede in un attimo. Il braccio teso che impugna il coltello sembra quasi un invito a fermarlo. Faccio un passo verso di lui e gli afferro il polso prima che riesca a ritirare la mano. Sento che si sforza per liberarsi, ma il movimento ora è bloccato. Mi guarda fisso negli occhi, senza dire una parola. Potrebbe provare a impugnare il coltello con la mano libera, la sinistra, ma non lo fa. Restiamo così per alcuni secondi, a scrutarci, come due galli da combattimento che non hanno più alcuna voglia di combattere. Boccheggia, il volto contratto in una smorfia che esprime rabbia, ma soprattutto impotenza e un infinito senso di futilità.

 Forse non cerca altro che una dignitosa via d’uscita da una situazione che si sta facendo grottesca, insostenibile.

 Forse.

 Decido di mollare la presa e lasciare libera la mano che stringe l’arma.

 È esattamente quello che si aspettava. Il suo labbro inferiore trema nello sforzo di trattenere il pianto e gli occhi diventano umidi. Apre le dita e lascia cadere il coltello, che cade sul pavimento con un rumore di ferraglia.

 Mi sembra di avvertire nell’aria il sospiro di sollievo di Jacqueline, di Giacomo e della povera Mabel.

 Per oggi, grazie a Dio, è finita.

 Ma non mi distraggo e continuo a tenere gli occhi conficcati in quelli di Giovanni, sforzandomi di non lasciar trasparire nessuna emozione. Non vuole sentirsi dire bravo. Non ha nessuna intenzione di ravvedersi o chiedere scusa. Non cerca lodi né ramanzine. Nemmeno spiegazioni. Credo di sapere quello che si aspetta da me.

 «Devo parlarti», dico. «Da solo.»

 È Jacqueline a scattare, staccandosi dal muro e facendoci strada verso il luogo canonico delle nostre conversazioni, il grande salotto con vista sulle luci della città.

 Mabel mi osserva uscire e il suo viso avvampa di un’ondata di gratitudine.

 Immagino il peso della disperazione di Giacomo Selman e non riesco a non sentirmi in colpa. È rimasto in cucina, in mutande e canottiera, senza poter scambiare una parola con il figlio dopo che questi lo ha inseguito brandendo un coltellaccio da macellaio. Vorrei parlargli subito, metterlo a confronto con Giovanni, ma so che, se lo facessi, rovinerei tutto. Così mi limito a dirgli: «Le domando scusa, mi lasci parlare con suo figlio. Dopo avrete tutto il tempo per chiarirvi tra voi».

 Jacqueline mi lascia solo con Giovanni e chiude delicatamente la porta. Il ragazzo prende posto sulla poltrona di sua madre ed evita di guardarmi. Io mi seggo sul divano di fronte a lui.

 «C’è qualcosa che devi spiegarmi», attacco, «ma, per favore, non raccontarmi balle.»

 «Io non devo spiegarti un bel niente!» replica stringendo i pugni.

 «Qualche giorno fa, a casa mia, ti ho mostrato la pagina Facebook di Manuel BSG.»

 Mantiene ostinatamente il capo chino, ma lascia scivolare un’occhiata nella mia direzione, da sotto in su. «E allora?»

 «Ti ho chiesto se fosse opera tua e hai risposto di non saperne niente.»

 «È così…»

 «Ho fatto una ricerca e ho scoperto il codice identificativo del computer da cui è stata creata quella pagina. È un portatile acquistato da tuo padre. Non credo che i tuoi genitori simpatizzino per le FARC.»

 Ora solleva la testa e compone un sorriso sprezzante. «Vuoi dire che ho mentito? Lo hai fatto anche tu con me, e continui a farlo. Dunque siamo pari.»

 «Continuo a farlo?»

 «Ho fatto una ricerca…» risponde facendomi il verso. «Ma quale ricerca! Ho visto come smanetti sul computer, tu non saresti mai in grado di risalire a nessun id. Di’ piuttosto che ti sei rivolto ai tuoi amici della polizia.»

 «Mi sono rivolto al mio amico Pertusiello, vicequestore in pensione che ha diretto per vent’anni la sezione omicidi. Al resto ha pensato lui.»

 «Jaime ha ragione: anche se sei stato in prigione e hai regalato un poster del Che a tua figlia, resti un amico degli sbirri.»

 «Ho spiegato a Jaime quali sono i miei rapporti con la polizia. Ma non è questo il punto. Ho riguardato la bacheca: contiene una documentazione storica molto accurata ed esprime molte idee che condivido in pieno. Tuo padre era un guerrigliero e credo che tu debba essere fiero di lui.»

 «Senti senti», mi sbeffeggia. «Aspettavo che venissi tu a ricordarmelo.»

 «Hai ragione», ammetto. «Nella pagina fai molti riferimenti alla Operación Odiseo, quella in cui fu ucciso il comandante Alfonso Cano.»

 «Il 4 novembre del 2011», conferma.

 «Sai che l’operazione fu realizzata a Suárez, la città dove sei cresciuto?»

 «Io non so dove sono cresciuto.»

 «Te l’ho già detto: in una cittadina a un centinaio di chilometri a sud di Cali, dove viveva la sorella di tuo padre.»

 Indossa ciabatte infradito di gomma che, strusciando sul parquet, fanno un rumore ovattato, quasi un gemito che sembra salire dalla gola di un neonato.

 «Davvero non ti ricordi di tua zia?»

 «Sì», ammette, e farlo gli costa un grande forzo. «Mia zia e i miei cugini.»

 «Ricordi il suo nome?»

 «Gloria.»

 «E i tuoi cugini?»

 «Il più grande si chiamava Pepe, come mio padre. Sai che in spagnolo sta per José? Gli altri non me li ricordo.»

 «È stata lei a raccontarti la storia di tuo padre?»

 Annuisce, lo sguardo fisso che insegue il movimento incessante dei piedi.

 «Ti avrà detto che ha ucciso gli assassini di Makayla, tua madre. Erano due narcotrafficanti di Cali. Tu eri appena nato e lui ha dovuto abbandonare la città e rifugiarsi a Suárez, dove ti ha lasciato alle cure di sua sorella.»

 Non risponde, ma so che mi sta ascoltando con attenzione.

 «Era braccato dagli uomini del cartello di Cali, che negli anni Novanta era una potente centrale del narcotraffico, ed è stato costretto a cercare rifugio nella selva. Qui è entrato in contatto con le FARC ed è diventato un guerrigliero.»

 Solleva il capo e mi guarda. «Perché mi racconti queste cose?»

 «Perché nella pagina non parli mai di lui.»

 «Non volevo che qualcuno potesse risalire a me.»

 «Invece è successo», ribatto, «ma non hai niente da temere: non parlerò con nessuno di questa storia.»

 «Neanche con i miei genitori?»

 «Loro sanno che tuo padre era un uomo della guerriglia.»

 Di colpo si irrigidisce, pronto a trincerarsi dietro un muro di silenzio: «Glielo hai detto tu?».

 «No», mi affretto a rispondere. «Lo hanno scoperto di recente dall’associazione che ha seguito la tua adozione.»

 Accenna un timido sorriso e sul volto gli si dipinge un’espressione di fierezza. «Li hanno informati male. Mio padre non era un uomo della guerriglia, era molto di più: Pepe Sánchez è stato uno dei luogotenenti del comandante Cano.»

 «Quindi è stato catturato a Suárez durante l’Operazione Odisseo…»

 «Sì, ferito e catturato, come è accaduto in Bolivia al Che. E anche mio padre è stato ucciso a sangue freddo il giorno dopo la cattura, il 5 novembre 2011, insieme ad altri suoi compagni.»

 «Chi ti ha raccontato queste cose?»

 Resta interdetto, non ha la risposta pronta.

 «Non sarà stato il tuo amico Jaime?»

 «Stai scherzando? Che vuoi che ne sappia lui…»

 «Non mentire, Giovanni. Mi ha raccontato delle condizioni di vita dei campesinos in Colombia e le sue idee non sono lontane dalle tue.»

 «Jaime vive in Italia da molti anni», insiste. «Non sa niente di quanto è successo nel 2011 a Suárez.»

 «Proviene da Cali: prima che tu nascessi, tuo padre lavorava per i narcos. Probabilmente anche Jaime era al loro servizio. Potrebbero essersi conosciuti laggiù.»

 «Ora sei tu che ti stai facendo un film», ribatte visibilmente infastidito. «Ti pare che, se lo avesse conosciuto, non me ne avrebbe parlato? Noi due siamo molto amici. E poi, perché mi fai tutte queste domande?»

 «Perché c’è un dettaglio che continua a martellarmi nel cervello senza che riesca a trovare una spiegazione.»

 «Quale dettaglio?»

 «La qualità della tua coca.»

 «Che vuoi dire?»

 «La droga che hai smerciato in quella discoteca non è la solita che si trova in giro. È di una qualità superiore. Questo mi porta a pensare che sia arrivata in Italia attraverso canali diversi dai soliti.»

 «Non ti seguo.»

 «Merce prodotta da un’organizzazione differente dai narcos e importata da qualcuno che non ha a che fare con la ’ndrangheta.»

 «Per esempio?»

 «Non sei stato tu a scrivere che vendere droga per una buona causa è un atto rivoluzionario? Per esempio, le FARC.»

 Scoppia in una risata livida, forzata. «Oh, sicuro! Questo sì che sarebbe un bel film!»

 «Che vuoi saperne, tu? Non mi hai detto che lo scambio avveniva attraverso una telefonata e un cestino della spazzatura?»

 «È la verità.»

 «E dunque? Chiunque avrebbe potuto rifornirti. E poi non mi hai risposto: chi ti ha informato su come è morto tuo padre? Deve essere stato qualcuno che ha rapporti con la guerriglia.»

 «Tutti in Colombia sanno come è morto Pepe Sánchez.»

 «Tu non vivi in Colombia.»

 «Ti risponderò a modo tuo: ho fatto delle ricerche…»

 «Mi hai preso per un idiota? Ho cercato anch’io nella rete, e non ho trovato niente.»

 «Forse non hai usato le chiavi giuste per aggirare la censura. Sai qual era il suo nome di battaglia?»

 «So che si chiamava José Sánchez Maurillo.»

 «Anche il comandante Cano all’anagrafe era Guillermo León Sáenz. Perché non provi a cercare Tío Pepe?»

 «Tío Pepe?» ripeto. «Come lo sherry?»

 «Así es», risponde, trattenendo un sorriso di trionfo. «Como el sherry.»