Capitolo 10

 

IN TRASFERTA

 

 La telefonata mi raggiunge poco prima della mezzanotte, mentre guido all’altezza dell’uscita di Massa. È appena sfilato il cartello che annuncia tra venti chilometri lo svincolo per Lucca e Firenze. L’autostrada dove, una settimana fa, alle tre del mattino si è schiantata la sua bmw.

 Cesare Almansi. Il mio compagno di liceo, leader carismatico della nostra illusoria rivoluzione. L’avvocato che aveva ereditato dal padre la facoltà di sposare e vincere le cause dei perdenti. Il neoeletto senatore della Repubblica che si era illuso di tagliare le unghie delle mafie nel colossale business dello smaltimento dei rifiuti.

 Quante cose sei stato, amico mio. E in tutte sei andato fino in fondo, senza risparmiarti né concederti il sollievo d’una tregua.

 Ripenso al funerale, celebrato qualche giorno fa a San Benigno, nella sala della Compagnia unica del porto, gremita di uomini e donne che coprivano l’arco di quasi tre generazioni. I discorsi del sindaco e del presidente del Senato, venuto apposta da Roma, le testimonianze di tanti che ti hanno conosciuto e voluto bene. Le strette di mano, le condoglianze di rito alla vedova, le lacrime sincere dei compagni e la impassibile disperazione di Lou Suárez, la tua amante clandestina. Ha interpretato la sua ingrata parte fino all’ultimo, con una dedizione che rasenta il sacrificio. E forse continuerà a farlo, portando sulla tua tomba anonimi mazzi di fiori che esaleranno fragranza di sogni infranti e ricordi destinati a restare segreti. L’ho intravista di spalle nel corteo funebre schiacciato dal sole del mattino e ho subito riconosciuto la cascata dei suoi capelli biondi. Eravamo all’altezza della trattoria La Lanterna e al funerale mancava solo don Gallo, con il suo toscano e il suo carisma. Mi sono avvicinato e ho sussurrato: «Ciao, Lou, mi dispiace».

 Chissà cosa volevo dire. Che ero addolorato per la morte del mio amico? Dispiaciuto per la perdita che lei aveva subito? Mi stavo scusando per non averla cercata ? nemmeno una telefonata ? dopo la tragedia? O piuttosto volevo ricordarle che tutte queste cose restano vere, nonostante il fatto che la presenza di Cesare abbia reso impossibile il mio sogno d’amore? Lei non sembrava farsi domande, la sua mente era altrove, lontano. Ha forzato un sorriso sbiadito che forse voleva esprimere gratitudine, o piuttosto comunicarmi che tra noi non c’è bisogno di parole, mi ha afferrato la mano e ha stretto forte. Portava un paio di grandi occhiali scuri che coprivano lacrime che nessuno avrebbe potuto consolare, perché nessuno doveva sapere di loro due. Era sola in mezzo a quella folla assediata dal caldo e da un oscuro senso di colpa, sola e disperata al punto che starle vicino mi ha fatto sentire di troppo e l’ho lasciata andare.

 Mentre la voce del sindaco echeggiava nella grande sala dei portuali, pensavo allo schianto. Mi dicevo che quando qualcuno decide di ammazzarsi lascia una traccia, un biglietto di spiegazione, o almeno consegna a una persona fidata il significato riposto di un gesto così clamoroso e definitivo. Cesare era troppo intelligente per ignorare che in molti si sarebbero fatti domande sull’incidente. E invece ha scelto di rifugiarsi nel cono d’ombra dell’ambiguità.

 Il paladino della verità, colui che per tutta la vita ha smascherato l’ipocrisia di quelli che fanno affari in nome del popolo, si è lasciato scivolare nel nulla senza un perché. Poi mi è venuto in mente che la sua frequentazione con l’ambiguità è cominciata tanti anni fa, la notte in cui il suo amico Gianni Coiro ha ucciso Adele Semeria e lui ha voluto credere alla sua versione dei fatti e non lo ha denunciato. Non vizi privati e pubbliche virtù, ma qualcosa di molto più sottile e doloroso. Una sorta di presbiopia affettiva che, da un lato, ha offuscato la sua capacità di giudizio sulle persone troppo vicine, quasi una paralisi di fronte al male quando bruciava sulla pelle, e dall’altro non ha intaccato la stoica determinazione a combatterlo quando era abbastanza lontano per essere messo a fuoco.

 È stato forse questo l’effetto del romanzo di Gian Claudio Vasco? Rovesciare il cannocchiale e distanziare le cose in modo che potessero finalmente essere viste?

 A questo pensiero avverto un dolore acuto nel petto e per un attimo il nastro d’asfalto illuminato dai fari, le automobili in fuga e i cartelli colorati dell’autostrada sono cancellati. È ancora lei, la stramaledetta colpa, ma questa volta arriva sotto forma d’un sinistro bagliore, una folgorazione che mi gela il sangue e mi spinge a urlare e a rimpiangere di non essere morto al suo posto.

 Solo ora intuisco quanto ti assomigliassi, amico mio. Anch’io sono stato come te. Mara aveva ragione quando si ostinava a definirmi un analfabeta dei sentimenti. Attento a cogliere ogni movimento del cuore di coloro che il lavoro portava sulla mia strada, ma desolatamente distratto e incurante delle aspettative di quelli che mi erano più vicini. Ci sono voluti una pallottola che per poco non mi ha spappolato il cervelletto, e poi sei mesi di sospensione tra la vita e la morte, per cominciare a vedere le cose in un altro modo.

 Scorgo in lontananza il cartello che segnala l’uscita della Versilia, quando suona il telefono. È Pertusiello.

 «Sbaglio o sei in macchina?» domanda.

 «Non sbagli.»

 «E io che temevo di svegliarti. Si può sapere dove te ne vai a quest’ora?»

 «In cerca di rogne. Hai qualche novità?»

 «I miei colleghi in servizio», risponde con malcelata soddisfazione, «non hanno perduto le buone vecchie abitudini: rompere i coglioni e non guardare l’orologio. Mi hanno appena chiamato per comunicarmi quanto segue: il tuo pusher è un cittadino colombiano, si chiama Jaime Ramos Gutiérrez, nato a Cali il 15 luglio del 1966. È in Italia da una decina d’anni. Nel 2010 si è fatto tre mesi nel carcere di Marassi per detenzione e spaccio di cocaina. Attualmente il suo permesso di soggiorno è in regola: risulta assunto come manovale in un’impresa edile in odore di ’ndrangheta.»

 «Non l’ho ancora visto andare a lavorare.»

 «Con quello che guadagna, pagherà di tasca propria fior di contributi al suo datore di lavoro.»

 «È mai uscito dall’Italia?»

 «Vuoi sapere se è un corriere della droga? Non credo proprio, in questi anni non si è mosso da qui.»

 «Eppure la sua coca non è la stessa smerciata dalla mafia.»

 «Ho chiesto a un amico della Narcotici: a loro non risulta che sia arrivata sul mercato una partita di cocaina di alta qualità.»

 «Che sia una questione di taglio? Magari confeziona merce più pura.»

 «Al suo livello è impossibile. Ramos Gutiérrez è uno spacciatore di strada, le bustine gli arrivano preconfezionate.»

 «Allora deve procurarsi la roba da altri fornitori…»

 «Se è così rischia grosso. E sarebbe così bastardo da mettere in mezzo un ragazzino minorenne?»

 Il telepass è scattato e devo raccapezzarmi per ritrovare la strada della discoteca. Secondo i miei calcoli è molto vicina all’uscita dell’autostrada. «Grazie Totò», taglio corto. «Questa mattina ho riportato a casa il ragazzo, ma non c’è nessun lieto fine in vista. Domani ti racconto tutto.»

 Sto per riattaccare quando il commissario mi blocca: «Hai detto che stai cercando rogne. Che vuol dire?».

 «Ho appuntamento tra mezz’ora con il proprietario della discoteca.»

 «Non dirmi che sei tornato in Versilia…»

 «Eh, già», confermo.

 «Dunque avevo ragione: ci hai preso gusto… Ricordati però che in pratica ti hanno saldato le vertebre con due graffette. Se prendi un colpo sul collo ci rimani secco.»

 «Non preoccuparti», lo rassicuro. «Sono venuto in pace e disarmato.»

 Mi dirigo verso Forte dei Marmi. Il traffico sulla provinciale è sostenuto, e tutti sembrano muoversi nella mia stessa direzione. I fari illuminano una fila interminabile di canneti e il fusto nero di qualche gigantesco pino a ombrella. In lontananza, in direzione del mare, a tratti compaiono sospese nella foschia le luci della Versilia. Dopo dieci minuti mi ritrovo nello spiazzo dominato dal luccichio dell’edificio dell’Enterprise. Anche stanotte hanno fatto il pieno. Posteggio il Maggiolino sotto un pino, aspiro l’effluvio di resina e gas di scarico che galleggia nell’aria e mi avvio verso l’ingresso dove staziona il solito capannello composto da fumatori, guardiani della sicurezza e ubriachi molesti scortati fuori a smaltire la sbornia.

 Ieri sera ho recuperato il numero della discoteca e ho chiesto del proprietario. Ci sono voluti ben tre passaggi prima di riuscire a parlargli. Mi sono presentato e, quando gli ho spiegato che sto cercando il figlio minorenne di una facoltosa famiglia genovese, non ha fatto storie e mi ha fissato l’appuntamento. Si chiama Laganà e dalla voce sembrava piuttosto giovane. Cognome e accento non lasciavano dubbi sulle sue origini calabresi.

 I buttafuori sono stati avvertiti e una graziosa biondina in top rosso e blue jeans mi accompagna fino a una porta laterale. Apre con il pass e mi scorta lungo due rampe di scale, fino all’ufficio del padrone. È un sollievo scoprire che le pareti sono insonorizzate e il delirio di decibel che inquina lo spazio riservato ai clienti ? con relativo spostamento d’aria prodotto dai bassi ? qui arriva smorzato e appena percettibile. Le luci al neon illuminano le pareti plastificate color grigio topo e nell’aria si avverte uno sgradevole odore di linoleum. La ragazza bussa a una porta e la apre senza aspettare risposta. «Alberto, il signor Pagano è qui», dice.

 Laganà si alza dalla sua poltrona manageriale e aggira la scrivania munita di computer, interfono e telefono nero modello vintage, venendomi incontro con un sorriso cordiale e pieno di buona volontà. È un giovanotto sui trent’anni, capelli rossi crespi tagliati corti, indossa una polo bianca infilata in un paio di calzoni di taglio classico e mocassini scamosciati leggeri. Ha l’aspetto di un bravo ragazzo appena assunto nell’ufficio sinistri di un’assicurazione. «Dottor Pagano», attacca, «la aspettavo. Si accomodi, prego. Cosa posso offrirle? Che ne dice di un mojito ghiacciato? Con questa calura è quello che ci vuole.»

 In realtà la stanza è rinfrescata dall’aria condizionata, ma il viaggio è stato una faticaccia e un mojito fresco mi suona di buon auspicio, quasi la promessa di un ritorno felice. Accetto e lui si rivolge alla giovane, con la quale evidentemente coltiva una qualche intimità: «Amore, ci fai portare due mojito, per favore?».

 La ragazza annuisce, saluta e si dilegua oltre la porta, lasciandoci soli.

 «Come posso servirla?» domanda Laganà.

 «Dicendomi con sincerità come stanno le cose.»

 «Sono qui apposta.»

 Dal taschino della camicia estraggo una delle fotografie scattate al Porto antico. Con la mano libera copro l’immagine di Ramos e allungo la foto verso di lui. «Conosce questo ragazzo?»

 Laganà si protende in avanti, la scruta attentamente e dà l’impressione di soppesare quale sia la risposta meno compromettente. «Non mi pare…» borbotta strascicando le parole. «Direi di no.»

 «Strano, perché nel suo locale lo conoscono tutti.»

 «Tutti?»

 «Sì, dal cassiere ai buttafuori. Due notti fa l’ho seguito e ho visto fioccare pacche sulle spalle e batti cinque come se fosse un habitué di questo posto. Per non parlare degli avventori: appena s’è infilato in bagno, fuori s’è formata la fila.»

 Ho rivoltato la foto e l’ho posata sopra la scrivania. Laganà scatta e si riposiziona dritto sulla poltrona, gli occhi sgranati da un presunto stupore. Dopo essersi prodigato in gesti di disponibilità e gentilezza, vira bruscamente verso un tono che trasuda risentimento e indignazione: «Al telefono mi ha detto di essere un investigatore privato incaricato di ritrovare…».

 «…il figlio di una illustre famiglia genovese. È la verità, signor Laganà, e non è colpa mia se l’ho ritrovato qui, nella sua discoteca, mentre spacciava cocaina.»

 «Poteva almeno informarmi che si tratta d’uno spacciatore.»

 «Pensavo di farle un piacere non parlando di certe cose al telefono.»

 «Cosa vuole insinuare? Io non ho niente da nascondere.»

 «Allora chiami uno dei suoi gorilla e si faccia spiegare come mai è in confidenza con un pusher minorenne. Non sono loro gli addetti alla sicurezza?»

 «È quello che farò», replica, abbandonandosi allo schienale e traendo un lungo, sofferto sospiro. Il tono della voce cambia di nuovo e si fa quasi didascalico. «Però prima mi lasci spiegare come funzionano le cose nel mio locale. Siccome gli affari mi vanno piuttosto bene, non sono così stupido da rovinarmi con le mie mani consentendo che l’Enterprise diventi una piazza di spaccio. Non posso negare che, tra le centinaia di persone che vengono qui ogni sera, ci sia qualcuno che si infila in bagno per tirare di coca. Anzi, voglio dirgliela tutta: gran parte dei miei clienti provengono da Forte dei Marmi e lei saprà che tipo di gente frequenta quel posto d’estate. Ricchi industriali e professionisti con prole al seguito, che con la cocaina hanno una certa dimestichezza. Pago sei addetti alla sicurezza, ma se anche fossero dodici o quindici non potrebbero impedirgli di consumarla qui dentro. Ma di una cosa sono assolutamente certo: se vogliono farsi di cocaina o di qualunque altra sostanza vietata dalla legge, devono portarsela da fuori.»

 «E io sono assolutamente certo che due notti fa, qui dentro, davanti ai bagni c’era la fila. In cinque ore il mio giovane pusher avrà tirato su diverse migliaia di euro. E non era la prima volta: ho parlato con alcuni ragazzi che si erano riforniti da lui. Mi hanno detto che si fa chiamare Manuel e che la sua coca è la migliore che abbiano mai provato.»

 Rimane in silenzio, i suoi occhi si sono fatti stretti e mi scrutano con aria furbesca. Bussano alla porta. Una giovane vestita da cameriera, avvolta da un succinto abito nero con grembiulino bianco, capelli castani tagliati corti e abbronzatissima, bella quanto basta per attirare l’attenzione di qualunque uomo eterosessuale dotato di vista e olfatto integri, dopo avere educatamente salutato posa il vassoio con i mojito sul ripiano della scrivania. Quando richiude la porta, dopo essersi gentilmente congedata, lascia nella stanza un gradevole ricordo sotto forma di una scia profumata alle spezie.

 Laganà non perde tempo e afferra il suo bicchiere. Mentre infila in bocca la cannuccia articola un sorriso velenoso e attacca: «Mi ha detto che il ragazzo è figlio di una ricca famiglia genovese, giusto?».

 «È così.»

 «Vuole dirmi il suo nome?»

 «Nemmeno per sogno. Sono vincolato dal segreto professionale.»

 «Il segreto professionale?» ripete facendomi il verso. «El chico della fotografia non è italiano.»

 «Infatti viene dalla Colombia. È stato adottato otto anni fa.» A scanso di equivoci, estraggo il portafogli e gli squaderno davanti la fotocopia della mia licenza. «Queste sono le mie credenziali.»

 Gli lancia un’occhiata distratta e riprende a succhiare il suo cocktail. Rimetto in tasca il portafogli e comincio ad assaporare il mojito.

 «Mi dica cosa vuole», replica secco, assumendo un’aria distante, quasi infastidita.

 «Capire perché il ragazzo è venuto proprio qui.»

 «Non so risponderle», taglia corto sollevando le spalle, come se la nostra conversazione non lo interessasse più. «Tutto quello che posso fare è parlare con i miei dipendenti e riferirle quello che mi diranno. Se scoprirò che qualcuno di loro è d’accordo con il ragazzo, le assicuro che sarà licenziato su due piedi.»

 «Stasera ho intravisto il cassiere», azzardo. «È lo stesso dell’altra notte. Sembrava conoscere bene Manuel: hanno parlottato a lungo, non gli ha chiesto i documenti e lo ha fatto entrare gratis. Perché non lo invita a salire e gli facciamo qualche domanda?»

 «Se permette», risponde stizzito, le mascelle serrate e le narici leggermente aperte, «conosco i doveri dell’ospitalità e le buone maniere e, quando faccio le pulizie, non voglio estranei per casa.»

 Finisco di sorbire il mio mojito, ghiacciato e dolce al punto giusto, con un gorgoglio prolungato che segnala che io non ho la minima idea di cosa siano le buone maniere. Quindi sollevo la foto e la giro sul ripiano della scrivania, come se giocassimo una partita a telesina, e scopro l’immagine di Jaime Ramos.

 Il giovane Laganà la osserva per qualche istante, poi solleva lo sguardo con aria interrogativa. «E allora?» domanda. «Le piacciono i giochetti, dottor Pagano?»

 «Conosce quest’uomo?» chiedo indicandolo.

 «Mai visto», risponde stirando un sorrisino perfido. «La scorsa notte era qui anche lui?»

 «No, non c’era. Ma è del giro, se capisce cosa intendo.»

 «Capisco cosa intende. Ma prima di congedarci, voglio che le sia ben chiaro un concetto: ho conosciuto altri tipi come lei, gente che fa un lavoro sporco e che per guadagnare qualche spicciolo sarebbe capace di escogitare qualunque diavoleria.»

 «Quanto al fatto che il mio sia un lavoro sporco, sfonda una porta aperta. Il problema è che i lavori puliti oggi sono merce rara…»

 «Che vuol dire?»

 «Il confine tra l’economia legale e quella illegale è evaporato, signor Laganà. Nello stesso fondo di investimento ci sono i proventi del riciclaggio della droga e i risparmi del povero pensionato che ha lavorato una vita. Così quest’ultimo, suo malgrado, finisce per tifare per la stessa squadra dei boss mafiosi. Alla faccia della lotta di classe!»

 Stringe i pugni, sempre più infastidito. «Lasci perdere la filosofia e mi faccia finire: prima mi parla del figlio di una famiglia molto ricca, poi mi mostra la fotografia di un indio che si accompagna a una specie di barbone colombiano…»

 «Chi ha detto che è colombiano?»

 La sua esitazione dura una frazione di secondo, ma è un tempo sufficiente per essere percepita e registrata. «Lei ha parlato di colombiani…»

 «Io ho detto che il figlio adottivo dei miei clienti è colombiano. Della nazionalità dell’uomo non ho fatto parola.»

 Ora è sul punto di perdere la pazienza. Cerca di trattenersi, ma non riesce e comincia a gridare: «Lo guardi in faccia, cazzo! Si vede benissimo che viene dal Sudamerica!».

 «Potrebbe essere boliviano o cileno.»

 «Avrò la metà dei suoi anni, ma ho abbastanza esperienza per non farmi infinocchiare da gente come lei. Sa cosa sospetto, signor Pagano? Che con i suoi amici vi siate messi d’accordo per ricattarmi.»

 «Ricattarla?»

 «Certo, e non sarebbe la prima volta da quando ho rilevato questa discoteca. Temo che tra noi due il vero mafioso sia lei. Vi siete accorti che ogni sera facciamo il pienone e avete pensato: ecco una mucca da mungere per bene. Così avete spedito qui un minorenne a spacciare droga, magari con documenti falsi, per poi venire a minacciarmi. Su, signor Pagano, getti la maschera e mi dica: quanto vuole?»

 Nella mia scalcagnata carriera di investigatore privato mi sono ritrovato diverse volte sul banco degli imputati. Quando il lavoro ti porta a rovistare negli scantinati e nelle fogne dove razzola la peggior feccia dell’umanità, è inevitabile incorrere in questo rischio. Sono stato accusato di violenze, intimidazioni, sottrazione di prove e documenti, sequestro di persona e perfino omicidio. Accuse spesso clamorosamente false, ma qualche volta anche fondate, dalle quali ho dovuto difendermi dimostrando che non potevo agire diversamente. E tuttavia non mi era mai successo di sentirmi dare del mafioso e del ricattatore. La cosa non mi ha fatto arrabbiare, ma mi è venuta voglia di afferrare per il collo questo giovane bellimbusto e scuoterlo per bene. Per fortuna, ricordando la raccomandazione del mio santo protettore in pensione, ho lasciato correre e non l’ho fatto. Mi sono limitato a riprendermi la fotografia, alzarmi in piedi e lanciargli sulla faccia il mio biglietto da visita. «Ascoltami bene, ragazzino», ho detto, «tu non mi conosci e sei libero di pensare quello che ti pare. La sola cosa che ti chiedo è parlare coi tuoi tirapiedi e farti spiegare come mai sono tanto in confidenza con un minorenne che spaccia cocaina.»

 Ho spalancato la porta e, prima di richiuderla, ho aggiunto: «E se non è troppo disturbo, qualora si rifacesse vivo, fammi una telefonata che vengo a riprenderlo per un orecchio».