Capitolo 12
GIOVANNI, BERNARDO, MANUEL
La signora Selman non regge a lungo le conversazioni scomode. Ha lanciato un’occhiata al suo prezioso Cartier ed è trasalita. «Dio mio, le undici e mezzo!» ha detto sollevandosi di scatto dalla poltrona. «Vado a svegliare Giovanni.» Ed è sgusciata fuori dal salotto, lasciandomi solo a rimuginare su quanto ci siamo detti.
Mi muovo nervoso nella stanza e i passi mi portano fino alla finestra. Un grande pino marittimo copre in parte la veduta della città, immersa in un bagno di calura che rende l’aria densa, quasi oleosa.
Jacqueline mi ha fornito una quantità di informazioni preziose su Giovanni, i suoi genitori naturali, la sua storia, sul marito Giacomo e la tragedia che deve avergli segnato l’esistenza, ma di sé mi ha detto una sola cosa importante: che la disordinata sessualità di suo figlio la turba e le impone di tenerlo a distanza. Quanto al resto, dovrei accontentarmi di sapere che detesta la Francia perché suo padre era francese e l’ha abbandonata quando aveva appena sei mesi. Per quale ragione abbia sposato un uomo dagli spermatozoi pigri che tratta con sufficienza e definisce una «checca isterica», che cosa l’abbia spinta a adottare un figlio di otto anni che portava lo stesso nome del cognato suicida e a rovinarsi la vita dopo avere diligentemente frequentato gruppi e corsi sull’adozione, rimane avvolto dal mistero. Per me, e forse anche per lei.
Il fatto è che non possiamo essere totalmente coscienti delle ragioni che muovono le nostre scelte. Del resto, la consapevolezza alza tra noi e le nostre azioni una barriera fragile come cristallo, e basta poco a mandarla in frantumi. Perciò la vita è per gran parte impegnata nell’ingrata occupazione di raccogliere cocci. Forse siamo più vulnerabili di quanto vogliamo credere, e le verità che sostanziano il nostro sapere sono anch’esse fragili e troppo astratte per regolare la complessità dell’esistenza.
Si spalanca la porta ed entra Giovanni. Regge fra le mani un croissant divorato a metà e un bicchiere di spremuta d’arancia. È appena uscito dalla doccia, i capelli corvini ancora lustri d’acqua. Indossa un paio di bermuda colorati e una canottiera attillata che lascia trasparire i pronunciati muscoli del dorso. Nuoto e pallanuoto: due, tre ore in vasca ogni giorno per quasi sei anni. Mi guarda di sguincio e sorride. Avanza verso il divano mentre sulla porta compare sua madre.
«Giovanni», lo rimbrotta, ma è un rimprovero molle, quasi una velata dichiarazione di complicità, «ti ho detto di finire la colazione in cucina, ora seminerai il divano di briciole…»
«Non preoccuparti, mamma», risponde lui sulla stessa linea d’onda, «ci starò attento.»
In effetti appoggia il bicchiere sul tavolino e, prima di addentare la brioche, porta la mano a coppa sotto il mento e raccoglie le briciole, che poi deposita con cura nel posacenere.
«Ciao, Giovanni», lo apostrofo. «Ti va di fare due passi?»
«Va bene», risponde senza entusiasmo, sorseggiando la spremuta.
Jacqueline si avvicina con l’aria leggermente imbarazzata, o forse eccitata. Anche lei sorride mentre prende posto sul divano a fianco di suo figlio. «Dove andrete di bello?» domanda, allungando timidamente il braccio e accarezzandogli una guancia. Forse vuole dimostrarmi che, in presenza di qualcuno, non ha paura di lui.
«Fa caldo», risponde il ragazzo, cercando il mio sguardo. «Staremo qui intorno. Devo comperare le sigarette.»
«Se volete pranzare fuori, il dottor Pagano ti accompagnerà al McDonald’s.»
Questo è un colpo basso che non mi aspettavo. Sono pagato per proteggere suo figlio, non per rovinarmi lo stomaco con disgustosi panini di plastica.
«Ho un’idea migliore», ribatto. «Sotto casa mia c’è la crêperie di un mio amico, il Capitano. Lo chiamano così perché per molti anni ha fatto il cuoco sulle navi. Se ci verrà fame potremo farci una crêpe.»
La proposta lascia indifferente il ragazzo, che domanda: «Dove abiti?».
«Nella città vecchia: Stradone Sant’Agostino. Lo conosci?»
Fa cenno di sì con la testa. «Come ci arriviamo fin là?»
«Con la mia Vespa. Tengo sempre un casco di riserva.»
«Okay», borbotta rassegnato. «Prima però devo comprare le sigarette.»
Jacqueline ci segue fino all’uscita come un’ombra, con una trepidazione che quasi mi innervosisce. Sarà anche felice di avere ritrovato suo figlio, ma l’enfasi con cui esprime la speranza, aggrappandosi come una patella a coloro in cui ripone la sua fiducia, mi ricorda la sua imbarazzante propensione a scappare, mollando il cerino acceso nelle mani di qualcun altro.
Appena lasciamo l’appartamento e infiliamo le scale, siamo investiti da una vampa di calore che mi fa rimpiangere la rarefatta frescura di casa Selman. Quando usciamo all’aperto la situazione è ancora peggiore e mi ritrovo grondante di sudore a friggere sull’asfalto infuocato dal sole. Inforco gli occhiali scuri, mentre Giovanni mi cammina accanto come se levitasse. Sulle scale non ha detto una parola. Gli domando se ha sentito il suo amico.
«Pensavo che ti avesse chiamato.»
«Non l’ha fatto.»
«Non potevo certo chiamarlo dal telefono di casa», risponde. «Per fortuna mio padre stasera mi regala un cellulare.»
«Vuoi usare il mio?»
Scuote la testa e si dirige verso i negozi di via Albaro, dove è anche il tabaccaio. Ripongo il telefono e lo seguo senza fare commenti.
A un tratto prende a sghignazzare e domanda: «L’hai vista mia madre?».
«In che senso?»
«Da quando sei arrivato è tutta trillante.»
«Non so come fosse prima.»
«È vero che i miei ti pagano per farmi da angelo custode?»
«Piuttosto da guardia del corpo», replico. «Come l’hai saputo?»
«Mio padre.»
Dunque padre e figlio ora si parlano. È un buon segno, anche se ho il sentore che questa nuova piega del mio incarico disturbi il signor Selman, costringendolo nei panni scomodi del padre insufficiente dipinto dalla moglie.
«Cosa vi siete detti prima che mi svegliassi?» domanda ancora.
«Abbiamo parlato di te.»
«Davvero?» Nella voce risuona un fondo di sarcasmo.
«Mi ha raccontato la tua storia.» Al diavolo i segreti.
«Chissà che noia.»
«Neanche per idea. Non immaginavo che la tua vita in Colombia fosse stata così avventurosa.»
«Avventurosa?» Alza le spalle. «Io non mi ricordo niente.»
«Neanche che tuo padre era un guerrigliero?»
Lo sento irrigidirsi, come se gli avessi puntato una pistola alle costole. Anche il passo, che solitamente è rapido e fluido come quello di un felino, rallenta e si fa pesante, quasi legato. Cerca il mio sguardo sotto gli occhiali scuri. «Che ne sai tu di mio padre?»
«Te l’ho detto», rispondo, sfilando gli occhiali e sostenendo la presa dei suoi occhi. «Quello che mi ha detto lei, e anche qualcosa di più, che tua madre ancora non sa.»
«Forza allora», risponde con aria di sfida. «Raccontami tutto.»
«Dunque ho ragione: non hai dimenticato.»
«Te l’ho detto», ripete. «Io non ricordo niente e non so niente.»
Entra dal tabaccaio e, appena uscito, si accende una sigaretta. La sua espressione è cambiata e si è fatta cupa, quasi torva. Comincia a tirare lunghe boccate di fumo, una dopo l’altra, senza aspirare. «Allora, cosa aspettiamo?» grugnisce insofferente. «Dov’è la tua Vespa?»
Posteggiamo in piazza Sarzano e scendiamo lungo lo Stradone. Davanti alla crêperie del Capitano mi dice che ha appena fatto colazione e non ha fame. Neanch’io ne ho. Lo invito a salire in ufficio e gli spiego che mi piacerebbe sentire la sua opinione su una pagina interessante che ho trovato in rete.
L’idea di smanettare sul computer sembra non dispiacergli. Acconsente e, mentre saliamo in ascensore, borbotta: «Hai parlato di ufficio? Allora non abiti qui».
«Ci abito e ci tengo anche l’ufficio. Sono due appartamenti attigui. Quando li ho acquistati, circa vent’anni fa, erano in condizioni disastrose e ho fatto un ottimo affare.»
«Potevi rivolgerti ai miei», commenta sornione. «Dicono che mia madre nelle ristrutturazioni sia un vero talento.»
«E tu?»
«Io cosa?»
«Qual è il tuo talento?»
Scrolla le spalle e non risponde. Il volto si ingessa in una specie di maschera di desolante futilità.
«Ci sarà qualcosa che ti riesce bene…»
«A pallanuoto l’allenatore diceva che ero bravo.»
«Perché hai mollato?»
L’ascensore si arresta al quinto piano. Giovanni scrolla nuovamente le spalle. «Così», risponde a testa bassa. «Allenamenti tutti i giorni, mi sono rotto le scatole.»
Mi dico che stare chiuso cinque ore nel bagno di una discoteca mentre gli altri si divertono non deve essere uno spasso, ma evito di affrontare l’argomento.
Sul ballatoio, si sofferma a osservare la targa di ottone sulla porta dell’ufficio:
Dott. Giovanni Battista Pagano – Investigazioni.
Quindi indica la porta accanto, quella che vicino al campanello non porta nessuna indicazione. «Scommetto che è casa tua.»
«Indovinato», rispondo. «Quale vuoi che apra?»
«Quella», dice segnando la porta di casa.
Casa, penso. Abita in una delle zone più prestigiose della città, in una villa lussuosa della quale da anni possiede le chiavi per entrare e uscire quando gli pare. Gli basta chiedere per vedere esaudito qualunque desiderio, oggi un sofisticato telefono cellulare e domani un costoso capo di abbigliamento. Eppure il buco è ancora lì e non si è mai richiuso. Nessuna villa potrà riempire il vuoto di una casa che non c’è stata, d’uno squallido tugurio dal quale si è visto ogni volta mandare via come un reietto. E, nella vita, un reietto cosa può fare di buono? Quale talento concedersi quando l’esperienza gli ha insegnato che nessuno lo vuole?
Entriamo e richiudo la porta. Mentre lo osservo, perso in mezzo alla stanza inondata di sole, esplorare con occhi avidi di curiosità il divano, la libreria, la fotografia di Aglaja, il batik di iuta che ho portato dal Kenya, la radio, il piatto e l’altoparlante dello stereo, il ripiano che divide il vano cucina dal soggiorno, sono preso da una dolorosa tenerezza e mi dico che, per oggi, può bastare così. Eviterò di portarlo al computer per sottoporlo a un nuovo interrogatorio.
«E il televisore?» domanda.
«Come vedi, non c’è.»
Sgrana gli occhi e trattiene una risata: «Non hai un televisore?».
«Ne ho uno in camera di mia figlia, collegato al pc. Lo usa quasi solo per vedere film.»
«È lei?» domanda indicando la fotografia sulla libreria, racchiusa in una piccola cornice di legno.
«Sì, è Aglaja.»
«Che nome strano», farfuglia. «Vive qui con te?»
Annuisco.
«Non ce l’ha una madre?»
«Siamo divorziati da molti anni», spiego. «Lei abita a Chiavari con il nuovo marito. Aglaja ha scelto di vivere qui per frequentare l’università.»
Di colpo sembra accorgersi del terrazzino, oltre il quale si vede il giardino deserto di Architettura. «Quella è la facoltà di mia madre!» esulta sorpreso, con una punta di orgoglio.
Annuisco ancora. «Come fai a conoscerla?»
«Quando ero piccolo, qualche volta veniva a parlare con i suoi colleghi e mi portava con sé.»
«E tu eri contento?»
«Io mi annoiavo a morte.»
Ha bruscamente virato dall’entusiasmo a un tono piatto, che vuole ostentare indifferenza. Come se il passato vissuto con i genitori adottivi non avesse importanza. Allora mi convinco che devo fare quello che mi sono ripromesso, anche a costo di vederlo scappare da questa casa sbattendo la porta.
«Vieni», dico. «Andiamo in ufficio.»
Attraversiamo il corridoio dove si aprono le porte del bagno, della mia stanza e di quella di Aglaja. Superiamo la pesante porta che divide l’appartamento dall’ufficio e poco dopo siamo entrambi dietro la mia scrivania, il portatile acceso e Giovanni che lo scruta con una certa diffidenza. Si è accomodato sulla poltrona girevole saltandovi sopra come un bambino e io sono rimasto in piedi al suo fianco. Comincio a smanettare, apro Facebook e vado alla pagina di Manuel BSG. Non mi sfugge un movimento rapido del suo pomo di Adamo, come se deglutisse qualcosa di indigesto.
Osserva la foto di Alfonso Cano in tenuta mimetica, quella di copertina con la bandiera colombiana e lo stemma delle FARC, legge i primi messaggi di stato, scritti in italiano, ma non tocca né la tastiera né il mouse. Nella stanza è calato un silenzio glaciale. Dopo un tempo che mi sembra infinito sussurra: «Che roba è?».
«Mi hai chiesto di dirti quello che sapevo di tuo padre.»
«Questo sarebbe mio padre?» domanda indicando l’immagine di Alfonso Cano.
«No», rispondo. «Questo è il capo delle FARC, ucciso in combattimento il 4 novembre 2011, durante un’incursione dell’esercito e dell’aeronautica in una cittadina chiamata Suárez, un centinaio di chilometri a sud di Cali. Il blitz è conosciuto come Operación Odiseo, e fu tenuto segreto fino all’ultimo momento. Li hanno presi di sorpresa e per la guerriglia è stato un brutto colpo. Conosci il nome di quest’uomo?»
Solleva il capo e mi sorride, un sorriso storto che pare una smorfia. «Io non conosco neppure il nome di mio padre.»
«Allora te lo dico io: tuo padre si chiamava José Sánchez Maurillo, e anche lui era un guerrigliero.»
Reagisce con rabbia: «Questo me l’hai già detto».
«È stato assassinato alla fine del 2011 proprio a Suárez. E in quella piccola città vivono anche le sue sorelle, in particolare quella che ti ha accolto quando lui si è arruolato nelle FARC.»
«Perché mi racconti queste cose?»
«Perché penso che per te non sia facile conciliare due padri così diversi: un guerrigliero che ha combattuto nella selva e un ricco costruttore che forse non ha neppure fatto il militare.»
«Conciliare? Io nemmeno sapevo chi fosse mio padre. Nessuno mi ha mai detto niente.»
«Neanche tua zia?»
«Mia zia?»
«Sua sorella: erano molto poveri e avevano sei figli. Non ricordi i tuoi cugini?»
«Te l’ho detto: non ricordo niente.»
Afferro il mouse e comincio a fare scorrere lentamente gli stati del diario. La storia delle FARC, i proclami in pessimo castigliano, fino alla fatidica frase: la venganza sacrosanta por un crimen que pronto será lavada con la sangre.
«È da questa pagina che hai imparato tutte queste cose?» domanda con un’aria così strafottente da convincermi sempre più che il profilo di Manuel BSG sia opera sua.
«Diciamo che sulla guerriglia colombiana avevo vaghi ricordi e, dopo avere letto questa pagina, sono andato a documentarmi.»
«E come sei finito su questo diario?»
«Cercando te.»
«Me?»
«Sì, quando ho ricevuto l’incarico, ho cercato in rete tutto quello che poteva riguardarti.»
«Cosa c’entro io con questa roba?»
«In discoteca ti conoscono come Manuel, e Manuel è anche il nome di Marulanda Vélez, il fondatore delle FARC. Inoltre BSG sono le iniziali del tuo nome colombiano: Bernardo Sánchez García. Non dirmi che non sapevi nemmeno questo.»
Scuote per la terza volta le spalle. «L’avevo dimenticato.»
All’improvviso si alza in piedi e comincia ad aggirarsi per l’ufficio, come poco prima aveva fatto nel soggiorno. Osserva lo stereo, scorre i cd, sbircia fra i libri della biblioteca, ne prende uno fra le mani e poi lo ripone. Ma la curiosità ha lasciato il posto a un palpabile nervosismo, e ho l’impressione che la sola cosa che vorrebbe fare è fuggire via. Eppure compie uno sforzo e si controlla. Quando lo sguardo cade sulle pipe mi chiede se può fumare.
«Fumo anch’io, come vedi.»
«Tu fumi la pipa», risponde. Si accende una sigaretta e comincia a tirare boccate lunghe e frequenti, espellendo il fumo come se lo sputasse. La punta della sigaretta si fa d’un rosso vivo, rovente. Evita di guardarmi e, trattenendo la collera, dice: «Sei proprio uguale a loro».
«A loro?»
«Libri, musica classica e discorsi complicati. Chissà che palle si farà tua figlia!»
«A loro chi?» domando ancora.
«Giacomo e Jacqueline.»
«Vuoi dire i tuoi genitori.»
«Non hai appena detto che mio padre si chiamava José Sánchez Maurillo?»
«E tu?»
«Io cosa?»
«Chi sei tu? Giovanni, Bernardo o Manuel?»
«Io sono un ragazzo, nient’altro che un ragazzo», risponde alzando la voce e stringendo i pugni. «Ho sedici anni e tutto quello che chiedo è fare la mia vita ed essere lasciato in pace! Non mi servono né angeli custodi né guardie del corpo.»
Si è accostato alla scrivania e, con un gesto rabbioso, ha schiacciato il mozzicone nel posacenere.
«Vuoi essere lasciato in pace per spacciare cocaina?»
«Posso anche farne a meno. L’ho fatto solo per tirar su un po’ di grana.»
«Non credo a una parola di quello che dici. E in ogni caso, caro ragazzo, hai le idee alquanto confuse. Non sei tu che puoi farne a meno, sono io che ti impedirò di tornare in quella discoteca, o in qualunque altra piazza di spaccio, a costo di chiuderti a chiave in una stanza.»
Mi si fa incontro con aria minacciosa, agitando il pugno davanti al mio volto come se volesse colpirmi. «Ma chi ti credi di essere?» sibila serrando le mascelle.
«Un investigatore pagato per evitare che qualcuno ti faccia la pelle», rispondo afferrandogli il polso e bloccandolo.
Mi fissa con gli occhi stretti e il respiro affannoso. Lascio la presa e lui torna ad abbassare il braccio. «Nessuno vuole farmi la pelle», farfuglia.
«Tu credi davvero che si possa uscire dal giro così? Alzando i tacchi e dicendo buonasera? La cocaina che hai smerciato è diversa da quella che circola sul mercato. Chi te l’ha fornita?»
«Non lo so.»
«Che cazzo dici? Qualcuno deve pur avertela procurata.»
«Mi telefonava da un numero criptato e mi diceva dove andare a ritirarla. Solitamente in un cestino della spazzatura ai giardini di Quinto.»
«E i soldi? Anche quelli li lasciavi nel cestino della spazzatura?»
«Sì.»
«Da quanto tempo dura questo traffico?»
«Mesi? Anni?» risponde stirando un sorriso sprezzante, velenoso. «Che differenza fa?»
«Fammi parlare al più presto con il tuo amico colombiano.»
«Ti ho già detto che lui non c’entra niente.»
«Non importa: voglio parlare con lui.»
«Sarà lui a decidere quando parlare con te», ribatte con aria di sfida.
«Tu digli di darsi una mossa.»
«Se no che succede?» ribatte con una risata livida, forzata. «Vuoi chiudere anche lui in una stanza?»
«No, Giovanni. Lo denuncio e lo faccio arrestare.»
«Lo faresti veramente?»
«Certo», confermo con un sorriso conciliante. «Adesso scendiamo a farci una crêpe. Tutti questi discorsi mi hanno fatto venir fame.»