Capitolo 17

 

INCONGRUENZE

 

 Quando lascio la villa, il campanile di San Francesco d’Albaro batte le undici. Infilo controvoglia il casco, avvio il vecchio 200 PX color amaranto e mi dirigo verso casa. L’aria della sera è ancora calda, ma la vampa bollente che qualche ora fa saliva dall’asfalto non si avverte più. Le strade sono deserte e a tratti, percorrendo via Francesco Pozzo e via Casaregis, mi arriva la fragranza estenuata del gelsomino. Battuto per tutto il giorno da un sole feroce, torna finalmente a rifiatare ed esala il suo aroma dolciastro, quasi un umore proibito carico di promesse. Anche se per me il tempo delle promesse sembra esaurito, e a casa non c’è nessuno ad aspettarmi.

 Mi sento stanco e frastornato, ma ho la sensazione di respirare meglio. Tutto quello che è accaduto mi ha lasciato dentro l’impressione che, sotto l’ingessatura del loro ménage, i Selman si stiano sciogliendo e comincino a pensare al loro figlio in una luce nuova, a vederlo per quello che è e non come vorrebbero che fosse.

 Appena entrato nel mio appartamento, mi spoglio, infilo un paio di boxer e mi precipito ad accendere il computer. Alla pagina di Google digito: Tío Pepe. Compaiono una serie di link che rimandano al più celebre cherry del mondo, orgoglio delle cantine di Jerez de la Frontera. Clicco su «cerca» e aggiungo: FARC, Colombia.

 Tutto quello che esce è scritto in lingua spagnola. Tío Pepe (nome di battaglia di José María Sánchez Maurillo, nato a Cali il 10 marzo 1975 e morto a Suárez, dipartimento di Cauca, il 5 novembre 2011) è stato un guerrigliero colombiano delle FARC, ferito e catturato durante l’operazione Odisseo, realizzata dall’esercito con l’appoggio dell’aeronautica militare la notte del 4 novembre 2011 nelle vicinanze della città di Suárez. Era membro, con l’Indio Efraín e il Zorro, del corpo di sicurezza del comandante Alfonso Cano, che durante l’operazione perse la vita a causa di un bombardamento aereo dell’accampamento dove i guerriglieri erano acquartierati. Tío Pepe fu tradotto, insieme ad altri compagni, dall’accampamento alla caserma di Suárez. La data e le modalità della sua morte sono controverse. Dieci giorni dopo il blitz, le autorità colombiane dichiararono che otto terroristi arrestati durante l’operazione Odisseo, fra cui Tío Pepe, erano stati giustiziati per fucilazione nella caserma di Suárez. Ma secondo fonti attendibili la sua morte risale al giorno seguente la cattura.

 Continuo a cercare e trovo il blog di un simpatizzante della guerriglia colombiana che vive in Venezuela. Secondo costui otto prigionieri, a seguito di un processo sommario, furono fucilati una settimana dopo l’arresto, ma tra loro Tío Pepe non c’era. Il calibro del personaggio, che si era fatto conoscere per alcune audaci azioni di guerriglia, aveva fatto temere al governo del presidente Santos che si scatenasse una sollevazione popolare per liberarlo. Così, alle sei del mattino, arrivò l’ordine di ucciderlo. Un ufficiale dell’esercito che non aveva partecipato all’operazione, il tenente Roberto Hernández da Silva, si sarebbe candidato per compiere l’esecuzione a sangue freddo. Raggiunto il prigioniero, già ferito alla spalla sinistra, nella sua cella, gli sparò tre colpi: il primo al braccio destro, il secondo al cuore e il terzo, quando l’uomo era già morto, all’occhio destro. Tale rituale sarebbe stato motivato dal fatto che il Tío era ritenuto da tutti un tiratore dalla mira eccezionale, specialmente con la pistola. Il suo corpo è stato esposto per un giorno intero, appeso a una finestra della caserma di Suárez.

 La storia appare alquanto rocambolesca, ma corrisponde al resoconto contenuto in un comunicato ufficiale del Segretariado delle FARC, che trovo in un sito uruguayano di orientamento marxista. È citato il nome di Hernández da Silva come esecutore materiale dell’assassinio, anche se primo responsabile della morte di Tío Pepe viene indicato il governo colombiano.

 Visito altri blog che aggiungono ulteriori particolari. Un giornalista colombiano che vive in esilio scrive di avere incontrato, nel 2012 a Bogotá, un militare che nel novembre dell’anno precedente era di stanza nella caserma di Suárez. Questi gli ha rilasciato, previa garanzia dell’anonimato, una lunga intervista in cui racconta che quella mattina, quando un plotone di militari arrivò alla caserma con i prigionieri, c’era grande fermento. Hernández da Silva viene descritto come un ufficiale ambizioso, desideroso di mettersi in luce di fronte ai superiori. Il tenente, che allora aveva trentadue anni, si sarebbe offerto spontaneamente di uccidere Tío Pepe prima ancora che arrivasse l’ordine da Bogotá, perché a suo dire il guerrigliero, durante uno scontro con l’esercito, aveva ucciso due suoi commilitoni. Il militare conferma che il corpo del Tío rimase esposto per ventiquattro ore, perché tutti lo vedessero, non appeso a una finestra della caserma, ma sulla piazza principale della città, guardato a vista da militari armati. Fu in quell’occasione che si rese evidente la modalità dell’esecuzione: tre colpi di pistola, al braccio, al cuore e all’occhio. Rilevo una piccola incongruenza: secondo il soldato il braccio e l’occhio erano il sinistro, perché Pepe era mancino. Trovo conferma di questo particolare nella dichiarazione di un militante delle FARC riportata da un blogger cubano: Todo el mundo sabe Pepe disparaba con la izquierda.

 Proseguo la ricerca fino a notte inoltrata. Il caldo è insopportabile e non ho alcuna voglia di andare a letto.

 Con l’eccezione di alcuni resoconti ufficiali e interviste rese da soldati colombiani fedeli al regime, tutti insistono sulla crudeltà dell’esecuzione e sulla bieca figura del suo assassino, il tenente Roberto Hernández da Silva. Non sembra che il presidente Santos si sia troppo preoccupato di fare chiarezza sul giorno in cui il militante delle FARC è stato ucciso. Le dichiarazioni ufficiali indicano il 12 novembre, per fucilazione insieme ad altri otto terroristi, ma nessuna fonte governativa ha mai smentito quello che sta scritto ovunque: che Tío Pepe è stato assassinato senza processo il 5 novembre 2011.

 Pensando all’assassino di suo padre, mi torna alla mente quanto Giovanni ha scritto sulla pagina di Manuel BSG: la venganza sacrosanta por un crimen que pronto será lavada con la sangre, la vergogna che presto sarà lavata con il sangue. La frase ricorre in differenti post, l’ultimo del dicembre 2014.

 Diventa per me decisivo parlare con Jaime Ramos. In teoria è possibile che Giovanni abbia acquisito le informazioni sulle FARC e su suo padre facendo tutto da solo e avvalendosi della sua disinvoltura nell’uso di internet. La sua intelligenza e i ricordi sopravvissuti alla cesura dell’adozione forse gli consentivano di reperire le chiavi per aprire tutte le porte, ma la circostanza mi suona altamente improbabile. Mi ha raccontato di avere conosciuto Jaime tre mesi fa, in una sala da ballo latinoamericana, ma sospetto che i due si frequentino da un tempo ben più lungo. La pagina di Manuel BSG è stata creata nel dicembre 2012 ed è probabile che a quella data già si conoscessero.

 La mattina seguente mi sveglio intorno alle otto, dopo avere dormito meno di quattro ore. Un sonno nero senza sogni, come un cielo senza luna e senza stelle, tale e quale quello trascorso dopo l’anestesia, quando mi hanno aperto le vertebre cervicali fratturate dal proiettile sparato da Gianni Coiro.

 Dopo una doccia e un caffè consumato in piedi – ogni volta che mia figlia parte per le vacanze, ritorno alle mie vecchie, pessime abitudini: evidentemente non sono capace di prendermi cura di me stesso – esco di casa e scendo per lo Stradone fino a San Donato. Imbocco il carruggio in ombra di San Bernardo e mi ritrovo in piazza San Giorgio. Le strade sono già tutte un brulicare di gente. Tanti stranieri – soprattutto arabi e africani – che muovono verso via Turati, dove ogni mattina allestiscono un mercatino di ravatti che ha fatto scorrere fiumi di parole sui giornali cittadini e sui social network. È una questione di decoro – parola che mi fa venire l’orticaria – hanno scritto in molti, lo spettacolo della povertà fa scappare i turisti e appanna l’immagine della città. Punti di vista. Quando la povertà non può essere estirpata, bisogna spazzarla sotto il tappeto e renderla invisibile, trattando gli esseri umani alla stregua di acari.

 Percorro i portici verso il mercato del pesce, attraverso al semaforo e mi ritrovo davanti al portone dove abita lo spacciatore. Suono al numero sei del citofono. Nessuna risposta. Mi sorge il sospetto che si sia affacciato e mi abbia visto. Dopo circa due minuti ? che sotto il sole rovente sembrano un tempo lunghissimo ? sento il telefonino trillare. Chiamata da un telefono mobile, numero sconosciuto. Rispondo e riconosco subito la voce di Giovanni. Probabilmente ha attivato il cellulare che gli ha regalato suo padre. Con parole ancora impastate di sonno, mi apostrofa: «Ciao, Bacci. ¿Qué pasa?».

 «Ti sei appena svegliato?» domando.

 «No», mente, «sto per uscire di casa. Ho appuntamento con Jaime, abbiamo deciso di fare una scampagnata. Sono in ritardo, mi aspetta alla stazione del trenino di Casella tra dieci minuti.»

 «E perdi tempo a telefonarmi?»

 «Dopo ieri sera, avevo voglia di sentirti.»

 «Che bella idea! È stata tua o di Jaime?»

 «Mia», risponde. «Ho sempre desiderato prendere il trenino…»

 «Non mi sono spiegato: inventata così su due piedi, è una balla coi fiocchi. È opera tua o del tuo amico?»

 «Ma che stai dicendo?» protesta, fingendo di indignarsi.

 «Non ti ha appena chiamato per avvertirti che sono sotto casa sua?»

 «Di chi stai parlando?»

 «Fammi una cortesia: visto che non risponde al citofono, richiamalo e digli che devo assolutamente parlargli. Sono venuto da solo e non ha niente da temere.»

 «Ma se ti ho appena detto che mi aspetta…»

 «E avvertilo», lo interrompo, «che se non apre entro un minuto telefono alla polizia e salgo insieme a loro. Okay?»

 «Vedi che ho ragione?» sbotta quasi gridando, furioso. «Non sei altro che un maledetto sbirro!»

 «Muoviti», taglio corto. «Sono sotto il sole e fa un caldo infernale.»

 Prima di chiudere la comunicazione riesco ad afferrare qualche parola, bofonchiata sottovoce: «Speriamo che schiatti».

 Dopo circa un minuto il portone scatta. Salgo fino al terzo piano e trovo la porta del pusher socchiusa. Dalla penombra gli occhi grigi, bovini del colombiano mi scrutano diffidenti e visibilmente contrariati.

 «Hola, Jaime», saluto in spagnolo. «Mi fai entrare?»

 Spalanca l’uscio e con un gesto plateale mi invita a farmi avanti. Mentre richiude domanda: «Si può sapere cosa vuoi ancora da me?».

 La finestra è spalancata e dalle imposte chiuse, con gli scuri appena sollevati, la luce entra nella stanza con parsimonia, lasciandola immersa in una torpida semioscurità. Intorno regna il solito disordine e l’aria è impregnata di odore di fritto e cannabis, combinati con quelli di vernice fresca e legno lasciati dalla recente ristrutturazione.

 «Non pretendo che mi offri da bere», lo rimprovero bonariamente, «ma potresti almeno invitarmi a sedere.»

 Indica il divano e biascica uno stentato: «Accomodati dove vuoi».

 Cammina scalzo e indossa un paio di pantaloni lerci d’una tuta color vinaccia e una canotta impataccata di sudore da cui schizzano fuori i peli grigi del petto. Si appoggia al muro di fronte a me, vicino alla finestra, incrocia le braccia e ripete: «Allora, che vuoi?».

 «Non ti siedi?»

 «Preferisco stare in piedi», risponde trattenendo la rabbia. «Ti dà fastidio?»

 «Per me puoi anche annodarti nella posizione del loto, se ti riesce. Prima che ti precipiti alla stazione del trenino di Casella, vorrei farti qualche domanda.»

 «Trenino di Casella?» domanda senza capire.

 «È la balla che si è inventata Giovanni per pararti il culo.»

 «Quel ragazzo è più svelto d’un furetto», dice con un certo compiacimento, neanche parlasse di suo figlio.

 «Me ne sono accorto osservandolo spacciare all’Enterprise.»

 «Ancora con quella storia? Ti ho spiegato che non succederà più.»

 «Ti credo», lo rassicuro. «Dimmi, piuttosto: quando vi siete conosciuti?»

 Corruga la fronte e si passa una mano sul mento, raspando su una barba di almeno due giorni. «Saranno tre anni», dice. «In una discoteca di Sampierdarena.»

 «Tre anni fa era ancora un bambino.»

 «L’ho fatto entrare io», spiega. «Conosco i proprietari, vengono dal Salvador. Il ragazzo era fuori da solo, mi ha chiesto da fumare e abbiamo cominciato a chiacchierare. Mi ha detto che era di Cali, come me, ed è cominciata così.»

 «So che sei arrivato in Italia da una decina d’anni. Quando eri giovane, a Cali, hai conosciuto suo padre?»

 «Suo padre?» domanda ostentando uno stupore perfino eccessivo. «Perché avrei dovuto?»

 «Lavorava per il cartello di Cali. Non lo sapevi?»

 «Non so niente di suo padre», risponde secco. «Nemmeno come si chiama.»

 «Non dirmi che Giovanni non ti ha raccontato niente di lui.»

 Scuote energicamente la testa, anche troppo energicamente.

 «Non ti ha detto d’essere figlio di un combattente delle FARC, ucciso a sangue freddo a Suárez nel novembre del 2011?»

 «Il ragazzo non parla volentieri del passato.»

 «Però d’essere originario di Cali te l’ha detto subito.»

 «Era un modo per attaccare discorso.»

 «Ma che razza di amicizia è la vostra?»

 Scrolla le spalle, senza rispondere.

 «C’è qualcosa che vi lega, a parte la coca?»

 «Ti ho spiegato che non sono io a fornirgli la droga…»

 «Mi hai anche detto che conosci quelli che gliela forniscono.»

 Allarga le braccia, in un gesto che vuole comunicarmi tutta la sua capacità di sopportazione. «Sono stato per anni uno spacciatore, in quell’ambiente conosco un mucchio di gente.»

 «Li conosci bene?»

 Torna a stringersi nelle spalle. «Non troppo bene…»

 «Abbastanza da convincerli a non cercarlo più.»

 «In passato gli ho fatto qualche favore.»

 «Giovanni si è sempre rifornito da loro?»

 «Credo di sì.»

 «Sempre la stessa coca di qualità superiore?»

 «E io che cazzo ne so?» sbotta, quasi irritato con sé stesso per aver risposto a tutte le mie domande. «Si può sapere dove vuoi arrivare?»

 «Da quanto tempo il ragazzo spaccia cocaina?»

 «Non ne ho idea», risponde con strafottenza. «Quando ci siamo conosciuti, non abbiamo parlato di droga.»

 «Ah, no? E di cosa avete parlato? Di Mickey Mouse e Donald Duck?»

 «Di Cali e della Colombia», replica alzando la voce. «Non smetteva di fare domande.»

 «Ti ha chiesto anche delle FARC?»

 «Adesso non ricordo. È passato tanto tempo…»

 «Ma non ti ha mai confessato che suo padre era un guerrigliero», lo interrompo, e questa volta sono io ad alzare la voce. «Chi vuoi prendere in giro, Jaime?»

 Si stacca dalla parete e, strascicando i passi, raggiunge il frigorifero. «Ti va una birra?» domanda.

 «Per niente.»

 Spalanca lo sportello e tira fuori una lattina che apre agganciando l’anello con il dito e lasciandolo cadere in terra. Dà una prima sorsata, rutta e si avvicina al divano. «Perché ti ostini a non credermi?» mugugna in tono conciliante, quasi mellifluo. «Dopotutto fino a ora sono stato ai patti. Il ragazzo non ha più spacciato e si comporta bene, no?»

 «Ieri sera ha minacciato suo padre con un coltello.»

 «Questo non va bene», sentenzia scuotendo la testa. «Non va per niente bene.»

 «Ascolta», attacco. «Non so che farmene delle tue perle di saggezza. Spiegami piuttosto come sia potuto accadere che Giovanni abbia spacciato coca di prima qualità in una discoteca della ’ndrangheta.»

 «Mi hai già fatto questa domanda, e ti ho risposto quello che so.»

 «Hai detto che conosci i suoi fornitori ed eri sicuro che non fosse in pericolo.»

 «Sì, ci sono tante famiglie mafiose e tanti cartelli della droga. Si saranno messi d’accordo.»

 Ora si è seduto sul divano vicino a me, con i suoi denti marci e la sua schifosa birra tra le mani. Mi arriva la prima zaffata fetida, ed è quanto basta per farmi perdere la pazienza. Gli punto il dito indice contro il petto e cerco i suoi occhi smorti. «Giovanni mi ha detto che vi conoscete solo da qualche mese», dico in tono deciso, quasi minaccioso. «Sai spiegarmi perché?»

 «Il ragazzo mi vuole bene e cerca di proteggermi…»

 «Ora ti dico come la vedo io, Jaime. Giovanni ti protegge e non vuole alimentare il sospetto che la sua ribellione abbia a che fare con te. E probabilmente è così, i presupposti perché sbarellasse c’erano già tutti prima che ti conoscesse. Ma sei stato tu cercarlo, tre anni fa. Ti serviva un minorenne che spacciasse la droga in tua vece senza rischiare la galera e lui faceva al caso tuo.»

 «Quante volte ti devo ripetere…»

 Conficco il dito nelle sue carni flaccide, in profondità, finché geme per il dolore. «Non so come e perché, ma tu disponi di canali di rifornimento speciale. La tua coca è super e i tuoi padroni ti usano come volano nei nuovi locali che vogliono far decollare. Per qualche giorno piazzano merce di prima qualità, in modo che giri la voce e i clienti arrivino a frotte, poi lasciano che ti ritiri in buon ordine e ricominciano a vendere la solita roba. Non è stato forse così con l’Enterprise?»

 «Potrebbe essere, solo che non sono io…»

 «Giovanni è scappato di casa perché doveva spacciare all’Enterprise, una discoteca troppo lontana per consentirgli di tornare in nottata.»

 «Ma non sono stato io a fornirgli la droga…»

 «Certo che sei stato tu, perché tre anni fa lo hai arruolato con il preciso scopo di farne il tuo galoppino.»

 Beve un sorso di birra e, guardandomi storto, prova a comporre una specie di sorriso sfottente. «Non so come e perché: questo è il tuo motto! Il ragazzo ha ragione, tu non sai un cazzo e continui a farti i tuoi film nella testa.»

 «Ecco», proseguo, «ora viene la parte più interessante. Lo sai che il ragazzo tiene una pagina Facebook sotto il nome di Manuel BSG in cui inneggia alle FARC e mostra di conoscere molto bene la storia del movimento?»

 «Non me ne ha mai parlato.»

 «E non ti ha mai detto di aver visitato tutti i siti e i blog che raccontano della cattura e dell’assassinio di Tío Pepe, uno dei capi della sicurezza del comandante Cano?»

 «Mai.»

 «E sai chi era Tío Pepe?»

 «Tutti in Colombia sanno chi era il Tío.»

 Torno a conficcare il dito fra le costole, finché una smorfia di dolore gli deforma la faccia. «Come ha fatto il ragazzo a scoprire che Tío Pepe era suo padre?»

 «Perché lo chiedi a me?» urla spingendo via la mia mano e cercando di sollevarsi dal divano.

 Lo afferro per il braccio e lo trattengo. «Perché sono convinto che sia stato tu a raccontargli tutto.»

 «Io?» grida, cercando di liberarsi. Un rivolo di birra e saliva gli cola da un angolo della bocca, e viene asciugato con il dorso della mano. «Tu sei pazzo, poliziotto.»

 «Può darsi», replico continuando a strattonarlo. Dalla lattina un fiotto di liquido ambrato si riversa sul pavimento lercio. «Ma non trovi curioso che un ragazzino adottato, che per anni ha cercato in tutti i modi di rimuovere il suo passato, riscopra la storia di suo padre senza avere avuto alcun contatto con il suo paese di origine? L’unico contatto sei stato tu, Jaime.»

 «Dove vuoi arrivare?» domanda respirando a fatica.

 «Te l’ho detto: non mi stupirei se in gioventù, a Cali, avessi conosciuto Pepe Sánchez. Lavorava per il cartello della droga e gli hanno ammazzato la moglie poco dopo la nascita di Bernardo.»

 «Chi è Bernardo?»

 «Non sai nemmeno questo? È il nome di Giovanni prima che lo adottassero.»

 «E, secondo te, dopo circa quindici anni, il caso mi ha fatto incontrare dall’altra parte del mondo il figlio di Tío Pepe?»

 «Il caso», replico fissandolo negli occhi, «o le FARC. Lo hai detto tu: nessuno ha il monopolio della cocaina, specialmente di quella così buona.»

 «Tu sei pazzo», ripete. «E poi, io non ho mai lavorato per il cartello di Cali, quella gente mi faceva schifo.»

 «Allo stesso modo in cui ora ti fa schifo la ’ndrangheta?»

 Dà uno strappo e si alza in piedi. «Sai cosa ti dico? Vaffanculo!» Si porta a distanza di sicurezza e prosegue: «E io che ho rischiato la pelle per convincere uomini pericolosi a non fare del male a te e a Giovanni. Sono proprio uno stupido. Vatti a fidare degli sbirri».

 «Non fare la vittima, Jaime», dico ridendogli in faccia. «Tu hai parato il culo a te stesso. Sai bene che potrei denunciarti alla polizia e farti rispedire in Colombia nel giro di una settimana.»

 «Hai promesso che non lo farai.»

 «Non lo farò», confermo. «Ma tu piantala di raccontare balle.»

 «No, amico», ribatte tracannando un sorso dalla lattina. «Non lo farai perché hai bisogno di me.»

 «Ti ho già spiegato», sospiro, sempre più irritato, «che noi due non saremo mai amici.» Mi accorgo che non vedo l’ora di andarmene. « E poi, perché avrei bisogno di te?»

 Ora che si è rilassato può lasciarsi andare a una risata scomposta, dove gorgogliano birra e catarro. I denti marci fanno capolino dall’incavo della bocca e nell’aria si diffonde un acre sentore di fogna. Ne ho conosciute persone repellenti, ma nessuna disgustosa come Jaime Ramos.

 «Allora, vuoi rispondere?» insisto.

 Strozzato da un improvviso accesso di tosse, riesce appena a biascicare: «E me lo domandi?».

 «Sei tu, Jaime, che hai urgente bisogno di un dentista e di un medico.»

 «Perché fra tanti damerini che gli ronzano intorno», prosegue fingendo di non avere sentito, «ricchi, eleganti e profumati, sono rimasto il solo ad avere uno straccio di autorità su quel povero ragazzo.»

 Mi alzo in piedi e mi precipito verso la porta. Se non lascio subito questo appartamento possono accadere due cose, e nessuna delle due mi riuscirebbe sopportabile: o gli spacco la faccia o lo abbraccio.