Capitolo 2
LA GUERRA DEI SELMAN
«Mio marito è un rammollito, un inetto. Se siamo arrivati a questo punto, la colpa è la sua.»
«Ma Jacqueline…»
«Jacqueline cosa?»
«Sei ingiusta! Chi si è prodigato per portare Giovanni in piscina, dal pediatra, alle lezioni private, da tua madre quando era bambino? E dov’eri tu quando gli prendevano le crisi e cominciava a spaccare tutto? Dov’eri, eh?»
La voce dell’uomo è stridula e fende l’aria evocando un senso di impotenza e castrazione. E più incalza la moglie, più denuncia la propria irrimediabile sudditanza di marito insufficiente, padre inesaudito e uomo dall’identità sessuale approssimativa.
Lei ne approfitta e affonda il colpo, spietata: «E piantala di urlare, sembri una checca isterica».
La checca isterica, congestionata in volto, strizza le palpebre e inghiotte saliva e umiliazione, prima di rinchiudersi in un mutismo carico di rancore.
Jacqueline non lo degna di uno sguardo. C’è qualcosa che mi sfugge in questa bella cinquantenne mediterranea che, alle undici del mattino, mi ha accolto in un vaporoso négligé giustificato dai trentacinque gradi della strada, ma non dalla temperatura dell’appartamento refrigerato e deumidificato da una batteria di condizionatori che ricordano una postazione antiaerea. Quegli occhi scuri, accuratamente truccati, tradiscono un’inquietudine e una disperazione appena velati dal piglio aggressivo con cui tratta il marito e da quell’esibizione di castigata sensualità che mi sforzo di eludere, blindato nell’ingessatura dell’aplomb professionale.
Mi hanno offerto una granita al caffè e ora ce ne stiamo seduti in un luminoso salotto nel cuore di Albaro, in una imponente villa del Seicento affrescata di colori vivaci dalle cui finestre si domina l’intera città. L’appartamento si sviluppa su due piani e tutto trasuda ricchezza e buongusto, dal parquet di ulivo al mobilio stile Luigi xvi, dai colorati tappeti orientali ai soprammobili antichi ? tra cui spiccano un’anfora e un mosaico d’epoca romana ? per non parlare delle cornici dorate appese alle pareti, che racchiudono tele dipinte nei secoli più fastosi della Repubblica marinara.
«Come le ho preannunciato al telefono», attacca lei, «abbiamo bisogno del suo aiuto per ritrovare nostro figlio. È uscito di casa quattro sere fa e non ne sappiamo più niente.»
«Quanti anni ha?»
«Sedici compiuti in febbraio.»
L’uomo scuote le spalle e si lascia sfuggire un sorrisino stizzito.
«Almeno così sta scritto», prosegue la moglie con un sospiro, «sull’atto di nascita stilato a mano, chissà da chi e chissà quando: Giovanni è un bambino adottato. Lo abbiamo conosciuto in Colombia quando aveva quasi otto anni. Sempre che il documento sia attendibile.»
«Potrebbe non esserlo?»
«Secondo il suo pediatra ha almeno un anno in più.»
«Quindi è quasi maggiorenne.»
«Non per la legge.»
«È la prima volta che scappa?»
«Lo fa ogni volta che viene contraddetto o gli viene negato qualcosa. Ma di solito ritorna, magari tardi…»
«Alle sei del mattino», interviene il marito, con una sorta di maligna soddisfazione.
«Non è mai successo che sparisse per tanto tempo.»
«Avete sporto denuncia alla polizia?»
«No.»
«Il ragazzo è minorenne, avreste dovuto farlo.»
Per la prima volta i coniugi si cercano con lo sguardo, entrambi con l’aria smarrita, quasi colpevole. Sulla stanza rinfrescata dal getto d’aria del condizionatore cala un silenzio imbarazzato, che mi dà la sensazione d’un ingranaggio in panne. E infatti i signori Selman tacciono, ostinati, aspettando che sia io a dire qualcosa. Finisco la mia granita e poso il bicchiere sul ripiano di cristallo. «Avete parlato di psicologo e crisi di rabbia. Giovanni è malato?»
La domanda non scioglie l’imbarazzo, ma almeno rimette in moto la conversazione.
«A scuola ci ha fatto dannare fin dal primo giorno. Gli hanno diagnosticato un deficit dell’attenzione, poi un disturbo della condotta…»
«Anch’io a scuola soffrivo di un disturbo della condotta: il primo e il secondo trimestre sulla pagella avevo sette, poi venivo graziato per non finire rimandato a settembre in tutte le materie.»
«Sono contenta che la pensi così», replica lei sbattendo le palpebre. Le ho finalmente strappato un sorriso. «Anch’io non credo che mio figlio sia malato.»
«Ah, no?» salta su il marito, tornando a sfoderare la sua vocina acuta e sgradevole come il suono di un violino nelle mani di un profano. «Come lo chiamerebbe un ragazzo che non è riuscito a finire la scuola media, chiede continuamente soldi per comprarsi hashish e chissà quali altre porcherie, e se non li riceve spacca porte, vetrine e soprammobili di valore inestimabile? Uno che fa quello che gli pare, entra ed esce di casa a qualunque ora del giorno e della notte e, se cerchi di fermarlo, ti manda dritto a fare in culo?»
«Delinquente in erba?»
«Ecco», conferma con una luce di soddisfazione negli occhi, «è stato lei a dirlo. Perché in questa casa quella parola è tabù.»
«Giovanni è solo un ragazzo difficile», ribatte stanca la moglie, come se quel discorso l’avessero già fatto mille volte. «Tutti i figli adottivi lo sono.»
«Nossignora! Ci sono ragazzi adottivi che sanno stare al mondo e assumersi le proprie responsabilità. Un mio collega ha una figlia adottata in Polonia che frequenta il terzo anno di legge con ottimi voti. E, nel tempo libero, aiuta sua madre in negozio!»
«Fa anche le pulizie di casa?» replica lei, sprezzante. «Magari la assumiamo come colf.»
«A proposito», la interrompo, «posso sapere qual è la vostra professione?»
«Io sono architetto», risponde. «Lavoro con mio marito, che è ingegnere civile e ha ereditato dal padre una delle maggiori imprese di costruzione della città, la Selman & Figlio. L’avrà sentita nominare, no? L’ha fondata suo nonno subito dopo la guerra e, dagli anni Cinquanta ai Settanta, quando Genova era una metropoli industriale, ha cambiato il paesaggio delle alture costruendo interi quartieri e cementificando tutto il cementificabile. Purtroppo la crisi del mercato ci ha ridimensionati, o forse ci mancano le conoscenze giuste. Così ci siamo orientati sulla ristrutturazione d’interni e la mia professione è diventata essenziale.»
Ecco da dove proviene tanto lusso. Lui ci ha messo i soldi e lei il buongusto. Un’accoppiata perfetta che l’arrivo di Giovanni deve avere scombinato, perché solo un cataclisma può indurre un animo sensibile, che per estrinsecarsi ha bisogno di denaro, a ripagare con spregio e dileggio chi glielo elargisce.
«Devo farvi una domanda scomoda», attacco, «ma consideratevi liberi di non rispondere.»
Entrambi mi scrutano in silenzio e lei, con un movimento calibrato al millimetro, accavalla le gambe.
«Perché avete deciso di adottare?»
A Jacqueline sfugge un sorriso del tutto simile a quelli che riserva al marito. «Per quale ragione si adotta, dottor Pagano?»
«Perché non si riesce ad avere figli.»
«Le abbiamo provate tutte», interviene lui. «Ma non è servito a niente.»
«Dev’essere stata dura», commento, sempre rivolto alla moglie.
«Non guardi me, i problemi li aveva mio marito.»
«Spermatozoi pigri», bofonchia l’uomo con aria mortificata. «Ho provato con cure ormonali d’ogni tipo, in Italia e all’estero, fino al ’99, quando Jacqueline è rimasta incinta, ma purtroppo le cose non sono andate bene.»
«Aborto spontaneo al secondo mese», spiega la donna in tono indifferente, come se riportasse un dettaglio trascurabile, rapidamente archiviato. «Secondo i medici può essere dipeso dalle cure a cui Giacomo si è sottoposto, lo spermatozoo era rachitico e l’embrione non ha attecchito.»
Finalmente sono venuto a sapere anche il nome dell’uomo, e mi accorgo che è lo stesso della moglie declinato al maschile. Giacomo mi fissa e nei suoi occhi leggo una muta protesta, anche se scommetto che sull’argomento della sterilità non oserà contraddirla. Non deve averlo mai fatto né lo farà mai.
«Lei è francese, signora?»
«Mio padre lo era», risponde, «ma, come avrà notato, la sola traccia che ne conservo è quella anagrafica: il mio nome è Jacqueline Leblanc. Ha mollato me e mia madre quando avevo sei mesi e da allora lo avrò visto quattro, cinque volte, e solo perché lei mi ha costretta. Io sono nata e cresciuta qui e non c’è nulla che mi leghi alla Francia.»
In effetti parla un italiano privo di qualunque inflessione.
«Tornando a Giovanni: dopo l’interruzione della gravidanza…»
«…abbiamo deciso di avviare le pratiche dell’adozione. Al tribunale per i minorenni ci hanno spiegato che la lista di attesa per i bambini italiani era lunga, noi non eravamo più giovani e allora abbiamo optato per l’adozione internazionale. Abbiamo un’amica che lavora in un’associazione che opera in Sudamerica. Giovanni lo abbiamo conosciuto alla fine del 2006 in un orfanotrofio di Cali, in Colombia. Siamo rimasti laggiù quasi due mesi e non le dico i disagi. Sa che Santiago di Cali è una delle città più pericolose al mondo? Abbiamo scelto un hotel di prima categoria in centro, mentre l’istituto stava in un barrio poverissimo e malfamato dall’altra parte del fiume. L’associazione ci aveva avvisato che in città i sequestri di persona sono all’ordine del giorno e così abbiamo ingaggiato un guardaspalle armato che ci accompagnava tutti i giorni in macchina per l’intero tragitto. Finalmente, all’inizio dell’anno dopo, è arrivato il decreto delle autorità colombiane e a febbraio, poco prima del suo ottavo compleanno, siamo partiti per l’Italia con Giovanni. Era magro e non rideva mai, ma con la nostra lingua già se la cavava bene. Alla fine dell’anno la parlava perfettamente. Altro che bambino malato!»
«Eravate entrambi convinti?»
«Di adottare?» Cerca il marito, che rifugge il suo sguardo. «Sa come funziona, è sempre la donna che soffre di più per la mancanza di un figlio…»
«Salvo rifilarlo al padre appena cominciano i problemi, come hai fatto tu.»
«Non è vero. Sono stata assorbita dal lavoro, questo sì, ma non l’ho mai trascurato…»
L’uomo rivolge lo sguardo al soffitto e scuote teatralmente la testa.
«Nei primi anni tutto è filato liscio, a parte le difficoltà a scuola… I guai sono cominciati tre anni fa, quando avrebbe avuto bisogno di un padre con le palle e invece si è ritrovato un uomo come mio marito, che ha paura perfino della propria ombra. Ha cominciato ad accontentarlo in tutto: lui marinava la scuola e suo padre gli regalava l’ultimo telefonino, spaccava un vaso cinese da tremila euro e lui gli comperava il computer più sofisticato… E la cosa più inquietante è che, dopo qualche giorno, quei preziosi regali sparivano e non se ne trovava più traccia.»
«In che senso?»
«In casa non li trovavamo più», interviene il padre. «Lo abbiamo sottoposto a pressanti interrogatori, abbiamo perfino minacciato di denunciarlo alla polizia, ma lui si chiudeva in un ermetico mutismo e non siamo mai riusciti a scoprire che fine avessero fatto.»
«Credete che li vendesse per comprare la droga?»
«I soldi per l’hashish certo non gli mancavano. Forse li regalava, o li gettava in un bidone della spazzatura.»
Lo dice con risentimento, quasi ferito, come se, con quei costosi regali, Giovanni avesse gettato anche lui in un bidone della spazzatura.
«Succedeva anche quando era la mamma a regalargli qualcosa?»
Rimangono interdetti, presi alla sprovvista da una domanda che a me suona così ovvia da risultare ingenua. Dopo una pausa, balbettando, Jacqueline risponde: «Non mi pare… ma quando mi sono accorta che la situazione ci sfuggiva di mano ho cercato una psicologa, dalla quale è andato qualche mese per poi marinare le sedute, come faceva con la scuola».
«È mai stato violento?»
«Non con me.»
«E con lei, signor Selman?»
«Qualche volta», borbotta distogliendo lo sguardo. «Insulti, minacce e qualche spintone quando cercavo di impedirgli di uscire…»
In faccia gli si legge un desolato senso di umiliazione.
«Che genere di minacce?»
Scuote ancora le spalle, minimizzando: «Ti ammazzo, ti spacco la testa, cose così».
«Detto con qualche oggetto contundente tra le mani?»
«No no, per carità: solo parole.»
«Che altro?»
«Ha sgraffignato qualche decina di euro, cifre di poco conto, dal mio portafogli.»
«E da quello di sua moglie?»
«Mai», risponde pronta Jacqueline.
«E fuori casa?»
«Non ci risulta.»
«Mi sembra di capire che l’oggetto dei suoi attacchi sia lei, signor Selman.»
«Oh, certo. Anche perché, da tre anni a questa parte, sono rimasto il solo abitante di questa casa che abbia rapporti con lui, a parte Mabel, la colf ecuadoriana. Mia moglie esce la mattina presto, quando Giovanni dorme, e torna la sera quando lui è già uccel di bosco. Nei weekend se ne sta in ufficio con la scusa del lavoro. Come si fa ad attaccare un fantasma, una madre che non c’è?»
«Non è vero, spesso viene a trovarmi in ufficio e pranziamo insieme. Con me è sempre gentile e affettuoso.»
«Oh, sicuro, e intanto ti scuce cinquanta euro.»
«È successo una volta sola, oltre un anno fa. E sono stata io a insistere, lui neanche li voleva…»
Mi accorgo che, quando si difende dagli attacchi del marito, il tono di lei è duro, deciso, senza quella nota querula e piagnucolosa che risuona nella voce di lui.
«Cosa sapete della sua storia prima dell’adozione?»
«Solo quello che ci ha raccontato la direttrice dell’istituto. La madre era giovanissima ed è morta poco dopo la sua nascita. Non conosciamo le cause della morte, solo che era di Cali e si chiamava García, perché sul certificato di nascita – sempre che sia veritiero – Giovanni risulta come Bernardo Sánchez García. È rimasto solo con il padre che, a quanto ci hanno riferito, era legato al narcotraffico e lo ha affidato a una sorella che viveva a Suárez, una città a sud di Cali. La donna era poverissima, aveva altri figli e non poteva mantenerlo. Così il bambino ha cominciato a vagare da una famiglia affidataria all’altra, fino al 2005, quando i servizi sociali lo hanno collocato nell’istituto dove lo abbiamo conosciuto. Questo è tutto quello che sappiamo di lui.»
«E il padre?»
«Nel 2011 c’è stata un’offensiva del governo contro i narcotrafficanti, che a Cali sono molto potenti. Si è trattato di una vera e propria guerra e l’uomo sarebbe stato ucciso in uno scontro a fuoco con l’esercito.»
«Quando lo avete adottato aveva quasi otto anni; conserverà pure qualche ricordo. Non gli avete mai chiesto niente?»
«Certo che lo abbiamo fatto, con delicatezza, come ci era stato consigliato, ma ha sempre risposto che non ricordava niente. Ci ha raccontato solo qualche episodio legato alla vita dell’istituto, soprattutto violenze e soprusi da parte dei ragazzi più grandi. Ha completamente dimenticato anche lo spagnolo. Ne abbiamo parlato con la psicologa, la quale sostiene che la rimozione del passato in questi bambini è la regola, anche perché la loro esistenza è costellata di esperienze traumatiche molto dolorose.»
Sento che qualcosa mi sta irritando, ma non saprei dire cosa. Forse il fatto che queste spiegazioni mi arrivano fredde e cerebrali, senza sofferenza e come uscite dal manuale del perfetto genitore adottivo. Così, prima ancora di avere pensato, mi scappa detto: «Insomma, è fuggito da una guerra per finire in un’altra».
Il signor Selman, che ha seguito il racconto della moglie con aria distratta, quasi scocciato, si scuote e guardandomi torvo domanda: «Cosa intende dire?».
«Quello che ho detto, ingegnere. E mi sembra che, in questa guerra, il ragazzo abbia scelto senza esitazioni da che parte stare. Nonostante il fatto che lei abbia trascorso con lui più tempo della sua signora.»
La sua voce esce nuovamente stridula, ma priva della solita, petulante lagnosità: «Le ricordo, dottor Pagano, che l’abbiamo assunta per trovare nostro figlio, non per tenerci sedute di psicoterapia».
«Si sbaglia: voi non mi avete ancora assunto. Non accetto un incarico senza essermi fatto un’idea della situazione. E mi sembra onesto confrontarmi con i miei clienti, senza finti pudori.»
Jacqueline è sulle spine e non si trattiene: «Vuol dire che potrebbe rifiutare l’incarico?».
«Ne ho viste parecchie di situazioni di questo tipo, anche se non si trattava di figli adottivi. Gli adolescenti a volte scappano, è un modo come un altro per dimostrare al mondo qualcosa di totalmente fasullo: che non hanno più bisogno dei loro genitori. Il problema è acchiapparli prima che si facciano del male. Ma qui c’è qualcosa che non mi convince.»
L’apprensione della donna si fa sempre più palpabile. «Che cosa? Cosa non la convince?»
«Dopo quattro giorni dalla scomparsa di un minorenne si chiama la polizia, non un investigatore privato. Perché vi siete rivolti a me? Avete qualcosa da nascondere?»
«Abbiamo una reputazione da salvaguardare», risponde il marito con una specie di nitrito. «Se ci rivolgiamo alla polizia, domani saremo su tutti i giornali. Ha idea di quanto la cosa potrebbe danneggiare la nostra immagine, e quindi il nostro lavoro?»
«I vostri affari sono più importanti della vita di vostro figlio?»
«La vita?» interviene la moglie. «Cosa c’entra la vita? Non penserà che Giovanni…»
«…possa essere in pericolo? Francamente sì, signora. Dopo quattro giorni può essergli successa qualsiasi cosa.»
«Il ragazzo è un atleta e sa difendersi egregiamente», obietta il padre, tra sarcastico e compiaciuto.
«Avete idea dei mezzi di cui dispone la polizia, rispetto a uno scalcinato detective come me?»
«Di lei ci hanno detto un gran bene», replica la donna con una punta di civetteria. «E poi si sa che è ben inserito negli ambienti della questura…»
«Una volta, forse.»
«In che senso?»
«Quando il mio amico Pertusiello era a capo della sezione omicidi. Purtroppo è andato in pensione, sei mesi fa.»
Jacqueline Selman torna ad accavallare le gambe, ma questa volta lo fa con naturalezza, senza studiare il movimento. Nel tono della sua voce risuona finalmente un accenno di autentica preoccupazione. «Qualunque cosa, dottor Pagano. Ci chieda qualunque cosa e la faremo, ma non ci lasci soli.»
«Sporgete subito denuncia.»
«Andrò oggi stesso in questura», dichiara. «Che altro?»
«Ho bisogno di perquisire la camera di Giovanni. Cosa ha preso con sé prima di sparire?»
«Camicie, magliette, jeans e mutande», risponde la madre. «In tutto uno zaino da viaggio.»
«Dunque ha pianificato di star fuori un po’ di tempo.»
Mi guarda stralunata, quasi non mi vedesse, e risponde incerta: «Sì, è possibile…».
«Mi serve una sua fotografia recente e un elenco dei luoghi e degli amici che frequenta.»
«Abbiamo qualche fotografia, e altre può trovarle sul suo profilo Facebook. Purtroppo, delle sue attuali amicizie non sappiamo niente. Però possiamo indicarle i nomi dei vecchi compagni di scuola.»
«È sempre qualcosa. Ha con sé un telefonino?»
«Tutti quelli che gli abbiamo regalato sono spariti nel nulla.»
«Come il computer, immagino.»
«Come il computer.»
«E come lui.»
«Già», ripete Jacqueline sconsolata. «Proprio come lui.»