Capitolo 18
UN BIZZARRO SCHERZO DEL DESTINO
Nel pomeriggio il cielo si è rannuvolato e l’afa è diventata opprimente. Ho deciso di raggiungere Pertusiello ai bagni Roma per metterlo al corrente degli ultimi avvenimenti. Ci siamo sdraiati su due lettini vicino alla battigia e abbiamo lasciato che il respiro del mare ci aiutasse a chiarirci le idee.
Il commissario mi ha informato che Agnese è partita questa mattina di buon’ora. Ha raggiunto la sorella in un paesino delle Langhe per una breve vacanza e il mio amico rimarrà da solo per qualche giorno.
«Se n’è andata», lo provoco, «e si è portata via il sole.»
«Seee», ribatte sistemandosi sul lettino. «Si fosse portata via pure il caldo.»
Anche se ha perso un bel po’ di chili, a vederlo muoversi mi ricorda un grosso, impacciato leone marino che arranca sulla spiaggia.
Prima di affrontare qualunque discussione ho bisogno di una bella rinfrescata. Mi tuffo in mare e faccio una lunga nuotata. L’acqua è tiepida come brodo. Quando torno a riva, Totò mi avverte che ha sentito trillare il cellulare nello zaino. Controllo e scopro che la chiamata viene da mia figlia. Da quando ho accettato questo incarico, non l’ho più sentita. È partita zaino in spalla ai primi del mese insieme a Essam, diventato ormai una specie di fidanzato ufficiale, ed è come se mi fossi dimenticato di lei. La richiamo e risponde subito.
«Ciao, pa’», esordisce.
«Ciao, Aglaja. Tutto bene?»
«Siamo sulla costa ionica della Calabria, in campeggio.»
«Come si chiama il posto?»
«Le Castella.»
«Davanti a voi ci sono i ruderi del castello aragonese?»
«Ruderi? Non direi proprio. C’è un castello perfettamente restaurato.»
«Sono stato da quelle parti una quarantina d’anni fa», mi giustifico. «Molto prima che tu nascessi. Ci hanno girato alcune scene dell’Armata Brancaleone…»
«Ah!» fa senza dar segno di entusiasmo.
La cosa mi sorprende perché Aglaja è un’accanita cinefila e, tra i registi italiani contemporanei, Monicelli è uno dei suoi preferiti.
Segue un breve silenzio. «Qualcosa non va?» chiedo.
«No no», si affretta a rispondere. «Tutto a posto.»
«Dal tono della voce, non si direbbe…»
«È un problema mio, ho ventisei anni suonati.»
«Che significa?»
«Non ci sentiamo da quasi due settimane, e se non chiamavo io…»
Ripenso al periodo che ha preceduto l’intervento chirurgico. Aglaja ha voluto restare a casa con me per assistermi e lo ha fatto per sei, interminabili mesi, sottraendo tempo ed energie allo studio e alla propria vita. La mattina in cui Gianni Coiro si è sparato in bocca, lei si trovava in casa, nella sua stanza, a pochi metri dal mio ufficio. Per un attimo ha temuto che avesse sparato a me e si è spaventata a morte. Mi ha seguito negli Stati Uniti e ha vissuto il calvario dell’intervento e il lungo decorso postoperatorio. E quando finalmente, dopo avere concluso la stesura della prima parte della tesi di laurea, si è presa una meritata vacanza, suo padre si è eclissato e per quindici giorni non si è fatto sentire.
Dirmi che di mezzo c’è stato l’incarico dei Selman, la scomparsa di Giovanni, l’impegno per ritrovarlo – insomma il solito, maledetto lavoro ? non serve a placare i miei sensi di colpa. La verità è che è sempre stato così. Clara ha fatto bene a impedirmi di frequentare mia figlia quando era bambina. Ora è una donna e può sopportare tutto questo, ma allora ne sarebbe rimasta segnata per sempre.
Perciò evito di accampare giustificazioni. «Hai ragione», dico. «Sono una bestia, mi dispiace.»
«Non importa», borbotta. «So come sei fatto. Scommetto che con questo caldo ti sei buttato in un nuovo caso.»
«Hai indovinato.»
«È il primo della tua nuova vita», commenta, alleggerendo il tono. «Mi auguro che non sia troppo rischioso.»
«Non c’è nessun pericolo», rispondo. E questa volta dico la verità. «Mi hanno incaricato di ritrovare un ragazzino scomparso.»
«E l’hai trovato?»
«Dopo meno di quarantotto ore.»
«Dunque non hai perso il tuo smalto.»
«Oh, sì che l’ho perso. Infatti ho intenzione di fare qualche cambiamento. Quando ritorni ne parliamo.»
«Sono contenta», dice, e si capisce che lo è davvero.
«Di che?»
«Sentire mio padre che parla del futuro mi fa un gran piacere. Non c’ero più abituata.»
«Io sono contento di sentire te, Aglaja. Non immagini quanto.»
«Ma sì che lo immagino: mica sono un’orfanella. Volevo solo farti sentire un po’ in colpa.»
«Quando ritornerete?»
«Ancora una settimana: Essam riprende il lavoro e i soldi stanno finendo.»
«Vuoi che faccia un bonifico sul tuo conto?»
«Meglio di no, pa’. Abbiamo bisogno di un incentivo per rientrare.»
«Dunque siete stati bene…»
«Puoi dirlo forte.»
«Mi fa piacere, davvero. Questa vacanza te la sei proprio meritata.»
«E le altre no?»
«Sì, certo, anche le altre. Ma quest’ultimo è stato un annus horribilis, e tutti avevamo bisogno di uno stacco.»
Segue una pausa di silenzio, quasi un ripensamento. Poi si decide e con voce incerta butta lì: «Ho letto del tuo amico senatore».
«Già», replico. «È difficile da digerire.»
«Mi dispiace, era un uomo perbene.»
Ecco di cosa è capace mia figlia: trovare la parola giusta, quella che coglie l’essenza delle cose. Del mio amico Cesare avevo sentito tante definizioni, e tante ne avevo lette sulla stampa, ma nessuno lo aveva mai chiamato così. Eppure, prima di essere tutto ciò che le sue innumerevoli attività e la sua personalità fin troppo ingombrante lo hanno portato a rappresentare, Cesare Almansi è stato questo: un uomo perbene.
La invito a salutarmi Essam e ci congediamo con la solita formula, quella che abbiamo sempre usato, fin da quando era bambina.
«Ciao, Aglaja.»
«Ciao, pa’.»
Quando riattacco, avverto un piacevole senso di leggerezza e mi dico che anche questa di Aglaja è una dote che ha del miracoloso: restituire buonumore e mettere gli altri a proprio agio. In questi ultimi anni, in cui siamo tornati a vivere insieme, ho avuto modo di apprezzare le qualità di mia figlia. La sua tranquillità, la disposizione ad affrontare le situazioni più complicate con calma, senza sciatarsi, l’attitudine a trovare il buono anche nelle persone più scostanti e difficili. Qualche volta mi sono chiesto se tutto ciò non abbia un costo troppo alto per lei, inducendola a sacrificare le proprie esigenze a vantaggio degli altri. Ma con il tempo, assistendo alle sue manifestazioni di rabbia e al suo modo speciale di affrontare le persone, genuino e diretto, mi sono convinto che non è così. La verità è che Aglaja è in pace con sé stessa e si piace così com’è. Senza diventare mai spocchiosa o superba, ha di sé un’alta considerazione che, a conti fatti, risulta del tutto realistica.
«Era lei?» domanda Pertusiello senza guardarmi, sdraiato sul suo lettino da spiaggia.
«Sì, è in Calabria, sulla costa ionica.»
«Con Essam?»
«Già.»
«Allora fanno sul serio.»
«Credo di sì», rispondo. «Non sono più ragazzini.»
Scoppia in una delle sue risate, appena trattenuta per il fatto che la spiaggia è affollata e tutti intorno possono sentirci. «Tu allora con le donne sei rimasto ragazzino a lungo, diciamo oltre la mezza età!»
«Va’ a farti fottere!»
«Per fortuna ti sei dato una calmata con la vecchiaia…»
«Vecchiaia?» ribatto. «Ma se dopo l’intervento mi sento un leone.»
«Beato te», fa lui, battendo le mani sulle cosce. «E mannaggia a me che non mi sono fatto sparare da nessuno!»
Ancora qualche schermaglia di rito, il nostro modo di esprimere l’un l’altro amicizia e affetto – e anche di confermare che, almeno tra noi, acciacchi e pensione non hanno cambiato niente ? poi il commissario si fa serio e domanda: «Aglaja ti ha parlato di Almansi, vero?».
Annuisco senza aggiungere altro, lasciando intendere che non mi va di tornare sull’argomento. C’è qualcosa di irrisolto in questa storia – irrisolto e maledettamente doloroso – che mi impedisce di guardarla con lucidità e farne oggetto di conversazione perfino con me stesso. Ma Pertusiello non è il tipo da fermarsi di fronte a una questione di tatto. È sempre stato così: il suo assillo è capire, racchiudere i fatti entro una forma che abbia il crisma della verità. Anche quando i fatti assomigliano a sostanze eteree e, come in questo caso, non si lasciano catturare dalle nostre rozze congetture.
«Qualche tempo fa», attacca, «ai bagni Catainin ti ho fatto una domanda…»
«…e io non ho risposto», lo interrompo brusco. «Mi hai chiesto se credessi alla spiegazione ufficiale del colpo di sonno. Il fatto è che non so cosa credere.»
«Eppure lo conoscevi bene.»
«Anche questo è falso. Ci siamo frequentati ai tempi del liceo, qualche secolo fa, e durante i primi anni dell’università. Non avevamo niente in comune, se non l’illusione di cambiare il mondo e sentirci rivoluzionari, senza avere la minima idea di cosa fosse una rivoluzione. Il mondo è cambiato seguendo percorsi che neppure immaginavamo, io sono finito in prigione e lui ha intrapreso la carriera paterna. Quando ci siamo rivisti è stato quasi per caso, la maledetta notte in cui il suo amico Gianni Coiro ha ucciso Adele Semeria. Ero finito a casa sua al solo scopo di ringraziare l’avvocato Aristide Almansi: mi aveva difeso e aveva vinto la causa in appello senza chiedere una lira. Dopo quella volta non ci siamo mai più incontrati né sentiti. Nemmeno per gli auguri di Natale. Non chiedermi come mai, perché non lo so. È stato così fino all’anno scorso, quando mi ha ingaggiato durante la campagna elettorale. Ti sembra che possa dire di conoscerlo bene?»
Mi accorgo che ho parlato troppo, e con troppa foga, per risultare credibile. Pertusiello trae un lungo respiro e risponde laconico: «Sì».
«Ho seguito le sue imprese sui giornali, come avvocato e come militante ambientalista, e non ho mai smesso di stimarlo per la sua coerenza. In fin dei conti non ha mai abbandonato gli ideali della nostra gioventù, ha combattuto le mafie e la corruzione e in tribunale ha difeso sfigati, profughi, immigrati clandestini e vittime di violenze e abusi d’ogni genere.»
«Vedi che lo conoscevi?» insiste. «Era un vincente, perché avrebbe dovuto uccidersi?»
Resto in silenzio qualche secondo, mentre dallo stomaco avverto salire un vago senso di nausea. «Hai letto il romanzo di Gian Claudio Vasco?»
«Perché me lo domandi?»
«Racconta della mia ultima indagine e della sua amicizia con Coiro, l’uomo che mi ha sparato.»
«Certo che l’ho letto. Pensi che, dopo avere scoperto di aver protetto per trent’anni un assassino, abbia deciso di farla finita?»
«Ti sembra così strano? E poi, anche se nomi e circostanze erano cambiati, leggendo il romanzo in molti hanno pensato a lui. E la stampa ne ha approfittato per costruirci sopra una ignobile speculazione.»
«Senso di colpa e vergogna l’avrebbero schiacciato?»
«Forse.»
«Ma perché aspettare tanto? Ha scoperto la verità su Coiro nel febbraio dell’anno scorso e il libro è uscito a settembre. Perché uccidersi proprio ora, a distanza di quasi un anno?»
«Il suo matrimonio andava in pezzi, la moglie e l’amante gli hanno mostrato tutta la loro infelicità, il progetto di legge sullo smaltimento dei rifiuti è finito nel dimenticatoio…»
«Troppi pesi da sopportare tutti insieme?»
«Troppi fallimenti, troppo dolore…»
«Dunque è questo che pensi: non è stato un colpo di sonno.»
Un senso di costrizione mi opprime il petto e quasi mi toglie il respiro. «Non ha lasciato scritto niente», ribatto. «Non avremo mai certezze, solo supposizioni, fragili verità…»
Pertusiello mi sta scrutando, forse lo fa da tempo, ma me ne accorgo solo adesso. «Di’ un po’, guaglio’…» borbotta. Ma si interrompe.
«Cosa? Che devo dirti ancora?»
«Non è che, per caso, ti senti in qualche modo…» Non trova la parola. Ora sì che sta facendo i conti con una questione di tatto, «implicato?»
Lo ha detto come se stesse per posare il piede sull’innesco d’una mina.
Ma non c’è il rischio di nessuna esplosione. Non adesso che la rabbia e la colpa sono evaporate sotto le sferzate dell’anticiclone Caronte, le mie energie sono state assorbite dalla fuga di Giovanni e, di tutta questa storia, rimane solo un’infinita, sconsolata amarezza. «Sì», ammetto, «ci sono dentro fino al collo. Ma ormai è tardi, non posso fare più niente.»
«Sai una cosa, Bacci?» replica alleggerendo il tono. «Per molti versi la vicenda del tuo amico Almansi è emblematica.»
«In che senso?»
«Sembra la tragica metafora della nostra sgarrupata generazione…»
«Già», confermo. «Peccato che Cesare non fosse un’idea astratta, ma una persona in carne e ossa. Sai come l’ha definito mia figlia? Un uomo perbene.»
Alzo gli occhi al cielo e la vista delle nuvole, ammassate sul mare come un denso corpo scuro, aumenta il senso di oppressione. Anche gli uccelli – gabbiani reali e gabbianelle ? hanno perso la voglia di volare e si lasciano stancamente cullare dalle onde sul pelo dell’acqua.
Restiamo così, in silenzio, chiusi nei nostri pensieri, finché il commissario si decide a cambiare argomento e domanda: «Novità sul ragazzo adottato?».
Rispondo che ho parlato con il pusher e mi sono convinto che Giovanni lo conosca da almeno tre anni, cioè da quando ha cominciato a ribellarsi ai suoi genitori. Gli illustro la teoria che potrebbe spiegare perché la coca smerciata dal ragazzo è di prima qualità: marketing a beneficio della mafia. Un modo efficace per promuovere locali e discoteche appena acquisiti, o risollevare quelli decotti – come l’Enterprise ? che hanno bisogno di essere rilanciati.
«Mi sembra convincente», conferma. «Perciò i miei colleghi della Narcotici non hanno notizia di partite di coca extralusso immesse sul mercato.»
«Convincente fino a un certo punto», obietto. «Quando l’ho stretto all’angolo, contestandogli il fatto che il computer da cui è stata creata la pagina di Manuel BSG era il suo, Giovanni ha ammesso parecchie cose. Non soltanto sa benissimo che suo padre era un guerrigliero delle FARC – informazione che coincide con le notizie raccolte dai suoi genitori adottivi – ma conosce a fondo la storia della sua fine: si chiamava Pepe Sánchez, conosciuto come Tío Pepe. Era uno dei capi della sicurezza del comandante Alfonso Cano ed è stato ferito e catturato durante l’operazione militare che è costata la vita al capo delle FARC. Lo hanno portato nella caserma di Suárez, dove, su ordine del governo, il giorno dopo la cattura è stato assassinato da un tenente dell’esercito di nome Hernández da Silva.»
«Cazzo», mi interrompe, «oltre quarant’anni dopo, sembra la storia del Che!»
«È quello che mi ha detto Giovanni.»
Pertusiello è un volpone e, anche se in congedo, non ha messo in pensione il cervello. Infatti coglie subito il punto: «Quando è stato ucciso?».
«Il 5 novembre del 2011.»
«Giovanni era in Italia dal 2007. Come ha saputo tutto questo? Gliene hanno parlato i genitori adottivi?»
«I coniugi Selman non erano informati. Hanno scoperto che il padre naturale era un guerrigliero solo qualche giorno fa. Non sanno neppure chi sia Tío Pepe.»
«Allora è stato quel figlio di puttana…»
«Aspetta», lo interrompo. «In teoria il ragazzo potrebbe avere dei ricordi. Quando era più piccolo ha frequentato la zia, sorella di Pepe Sánchez, che gli avrà parlato di suo padre, magari dipingendolo come un personaggio mitico, un eroe rivoluzionario senza macchia e senza paura. Secondo i Selman, prima di finire in istituto, il bambino è fuggito più volte dalle famiglie che lo avevano in affidamento per cercare suo padre.»
«Quando è stato inserito in istituto?»
«Un anno prima dell’adozione, a sette anni.»
«Io mi ricordo tutto di quando avevo sette anni, e tu?»
«Io non sono stato adottato», ribatto con una punta di irritazione, che sale da chissà dove. «E, anche se qualche volta lo avrei desiderato, non ho fatto tabula rasa della mia infanzia.»
«Hai ragione», ammette. «Noi non abbiamo dimenticato la nostra lingua madre.»
«Giovanni sì, salvo recuperarla maldestramente negli ultimi tre anni…»
«…dopo avere incontrato il pusher colombiano.»
«Già.»
Si volta su un fianco, appoggiando il peso sul gomito, e mi scruta di traverso con un’espressione tra il malizioso e il provocatorio. «Dove vuoi andare a parare, Bacci?»
Rabbini e psicoanalisti insegnano che, in certe situazioni, la migliore risposta è una controdomanda. «Secondo te?»
«Ramos sa chi era Tío Pepe?»
«Dice che in Colombia lo sanno tutti, ma nega di averlo mai collegato a Giovanni. Non solo: sostiene che il ragazzo non gliene avrebbe mai parlato.»
«Questa puzza di balla», commenta storcendo il naso.
«Una balla colossale, anche perché Ramos non lesina proclami anticapitalistici e sputa veleno sui narcos e sulle mafie.»
Si umetta le labbra e porta il dito indice vicino al naso. «Però è anche vero», borbotta perplesso, «che sta in Italia da oltre dieci anni, spaccia al servizio della ‘ndrangheta e deve anche essere una gallina dalle uova d’oro, se si sono inventati un lavoro fasullo apposta per lui. Non è verosimile che abbia cercato Giovanni di proposito, sapendo che era figlio di Tío Pepe.»
«E dunque?»
«Si tratterà di un bizzarro scherzo del destino.»
«Ammettiamo che tu abbia ragione, che lo abbia incrociato per caso e che sia venuto a conoscenza della storia del ragazzo solo a posteriori. Per legarlo a sé potrebbe essersi inventato di avere conosciuto Tío Pepe, oppure potrebbe averlo conosciuto davvero. Non dimenticare che Jaime Ramos è nato a Cali e probabilmente ha sempre vissuto nel mondo del narcotraffico. Anche il padre di Giovanni, prima di diventare un militante delle FARC, era un narcotrafficante del cartello di Cali. Potrebbero essersi conosciuti laggiù…»
«È possibile», ammette. «Ma perché ti scaldi tanto? Che cosa cambia se si sono conosciuti oppure no?»
«Giovanni nutre per Ramos una vera e propria venerazione. Dovresti vedere come pende dalle sue labbra…»
«Me ne sono accorto», conferma, «dalle fotografie.»
«E poi c’è la circostanza della cocaina di qualità superiore. Come se la procura?»
«Se il suo lavoro è quello di lanciare i nuovi locali acquisiti dalla ’ndrangheta, gliela procureranno loro. Non penserai che la droga smerciata dalla mafia sia tutta uguale: ai professionisti non arriva certo la robaccia che circola per le strade.»
«Eppure Giovanni è convinto di spacciare con uno scopo preciso: finanziare la causa per cui è morto suo padre.»
«Il che significa che il pusher lo ha manipolato a dovere.»
«E se invece…» Lascio la frase in sospeso, perché io stesso non so come proseguire.
«E se invece cosa?» incalza Pertusiello, sollevandosi sul lettino. La sua pelle, naturalmente scura, dopo due mesi di assidua frequentazione dei bagni è diventata nera, moresca. Ora che ha perduto peso e ha acquisito un aspetto forte e sano, sembra ringiovanito. Vedere il mio amico così in forma mi procura un senso di felicità che, in qualche modo, ha a che fare con la gratitudine.
Per me che sono un irriducibile ateo ? e non ho chiesto grazia o protezione a nessuno, nemmeno davanti alla porta della sala operatoria, limitandomi a confidare nelle mani esperte di un chirurgo cinese alto appena un metro e sessanta – il solo beneficiario della gratitudine non può che restare il destino, quella complessa trama di accidenti che, intersecandosi nei modi più imprevedibili, decidono della nostra felicità e della nostra disperazione, della vita e della morte. Portare gratitudine al caso è un ossimoro, un controsenso, ma questo è il solo modo in cui riesco a concepire l’esistenza: una sequenza di alternative cominciata molto prima della nostra nascita e che finirà quando non ci saremo più. Se, ogni volta che la sfanghi, tutto quello che riesci a pensare è che ti è andata di culo, dove altro puoi riporre la tua gratitudine?
Alla domanda di Pertusiello non rispondo, limitandomi a trarre un respiro profondo che mi riempie i polmoni d’aria salmastra.
Allora è il mio amico a parlare per me. «Credi che non abbia capito cosa vai rimuginando?» attacca. «E se Ramos fosse legato non solo alla mafia, ma anche alle FARC? E se la cocaina di eccellente qualità arrivasse dalla guerriglia, e i proventi dello spaccio servissero a finanziare la causa rivoluzionaria? E se Giovanni non fosse il cavallino d’uno squallido pusher della ’ndrangheta e tutta questa storia avesse un altro senso ? più alto e più nobile ? capace di redimere il dolore e la rabbia di un ragazzino strappato alle sue origini…»
«Vedo che hai capito», lo interrompo. «Se questa vicenda non fosse ? come hai detto tu – uno scherzo del destino, ma un’improbabile, paradossale, incredibile opportunità di riscatto offerta dal destino alle sue vittime?»
Il cicalino del portasigarette manda il suo segnale e, sollevando i folti sopraccigli, il commissario estrae dal borsello la scatola e l’accendino e ne cava fuori una Gauloise. Comincia a palparla, come fosse la superficie liscia e setosa del seno d’una bella donna. Non ha smesso un minuto di fissarmi. Quindi si apre a un sorriso lento e intriso di complicità e sussurra: «Eh…».
«Eh!» rispondo.
«Sognare, dopotutto, non costa nulla.»
E, socchiudendo gli occhi, accende la sigaretta e aspira con gusto una lunga boccata di fumo.