Capitolo 9

 

A CASA

 

 Ecco un altro redivivo che si materializza al cospetto di due genitori surrettizi, né più né meno di quanto ho fatto io con Agnese e Totò Pertusiello ieri sera. Orfano come me, si abbandona all’ultimo simulacro di famiglia che gli è rimasta, la quale lo accoglie come si fa con un figliol prodigo, lasciando rimproveri e domande scomode chiusi nel cassetto d’un futuro tanto incerto quanto inquietante.

 Ho telefonato a Jacqueline per avvisarla che avevo trovato Giovanni e che stavamo raggiungendo la villa in taxi. Era in ufficio con il marito e, dopo essersi lasciata scappare un gridolino di gioia, ha risposto: «Veniamo subito».

 Per una volta il lavoro potrà aspettare.

 Quando siamo arrivati ci ha accolto la domestica ecuadoriana che, appena ha visto Giovanni, gli ha gettato le braccia al collo e, piangendo a dirotto, non cessava di ripetere: «Oh, mi querido, ¿dónde has estado todo este tiempo?» sentendosi rispondere con un laconico e supponente: «In giro, Mabel, in giro».

 Non trascorre un quarto d’ora che si sente suonare alla porta. Ora Giacomo e Jacqueline Selman se ne stanno impalati sulla soglia del salotto davanti al loro figlio, senza sapere cosa dire e cosa fare, se non balbettare il suo nome come se recitassero una preghiera. È lui a toglierli d’impiccio. Scatta su dal sofà dove ci siamo accomodati e muove verso di loro con un’espressione criptica, di contentezza inquinata da un turbamento indecifrabile. Abbraccia prima sua madre e poi suo padre quasi fossero statue di porcellana, rigide e delicate, con un gesto che – inspiegabilmente ? mi appare spontaneo e forzato insieme. Entrambi rispondono con una stretta impacciata da un imbarazzo che sembra timore e forse è solo confusione. Poi tutti prendono posto, Giovanni accanto a me e i Selman sulle due poltrone sistemate oltre il tavolino di cristallo, entrambi seduti sulla punta del cuscino.

 «Ci hai fatto preoccupare», esordisce Jacqueline, fasciata in un abitino fucsia, accollato e così scandalosamente stretto da costringerla a tenere le ginocchia ben serrate. «Temevamo che ti fosse successo qualcosa… qualcosa di brutto.»

 «Abbiamo chiesto al dottor Pagano», le fa eco Giacomo. «E lui ci ha consigliato di rivolgerci alla polizia.»

 «Per denunciare la tua scomparsa», si affretta a chiarire lei. E aggiunge: «Ma tu come stai?».

 Giovanni annuisce e risponde: «Bene», con voce così impercettibile che nessuno lo sente. I suoi occhi volano bassi, come le rondini quando sta per piovere. Anche lui è impacciato e non sa cosa dire. Le rondini invece, quelle vere, si lanciano nell’azzurro slavato del cielo mandando acute strida che posso solo immaginare per via delle finestre sigillate e del ronzio dei condizionatori.

 «Dove sei stato, dove hai dormito tutte queste notti?» domanda ancora la madre, cercando nel mio sguardo una sorta di approvazione.

 Giovanni si stringe nelle spalle e farfugliando ripete: «In giro».

 «Vuoi dire all’aperto?»

 Lui annuisce e Jacqueline non riesce a trattenersi: «Intendi per la strada, come i barboni?».

 «Anche», si giustifica lui con un sorriso vuoto e lo sguardo che fluttua nel nulla. «Fa così caldo…»

 «E dove hai messo i vestiti che ti sei portato via?» azzarda il padre con una punta di rimprovero. Il pensiero che abbiano seguito il destino dei suoi costosi regali – telefonini, computer, Play Station e tutto il resto – non gli dà pace.

 «Li ha lasciati a casa di un amico», lo rassicuro.

 «Perché sei scappato così?» insiste, alzando appena il tono e riaccendendo il ricordo della sua voce stridula. «Che cosa ti abbiamo fatto per meritarci questo?»

 «Ci hai fatto prendere uno spavento…» interviene la donna.

 «Ma niente», bofonchia il ragazzo, tornando a scuotere le spalle. «Non mi avete fatto niente.»

 «E allora perché…?» insiste il padre.

 «Avevo voglia di stare un po’ fuori…»

 Jacqueline torna a guardarmi, e nei suoi occhi intuisco una confessione inespressa. Anche Giacomo Selman mi rivolge un’occhiata dove frigge tutta la rabbia che il suo stomaco ha dovuto ingoiare e il suo fegato non è riuscito a metabolizzare, mentre ascoltava le elusive risposte di Giovanni con la mente ottenebrata dal pensiero che suo figlio è diventato uno spacciatore, uno spacciatore di cocaina.

 La donna sembra volermi dire che questo è il copione di sempre, la stanca replica di un film che si ripete identica da tre anni. «Grazie a Dio sei qui e stai bene», sussurra allungando un braccio verso il ragazzo, alla ricerca di un contatto che lui non lascia cadere, protendendo la mano e accarezzandole fuggevolmente le dita. Anche questo gesto sa di déjà-vu, quasi un rituale pacificatore che non pacifica un bel niente, perché tra un’ora o un giorno tutto tornerà come prima. Ma non deve essere arrivato per caso.

 «Il dottor Pagano», attacca cambiando tono, «è un investigatore privato.»

 Lo sguardo di Giovanni è incollato alle Nike, che non hanno cessato un attimo di strisciare nervosamente sul parquet.

 «Lo abbiamo assunto per ritrovarti, ma credo che voi due vogliate farvi una bella chiacchierata.»

 Non è questa la mia impressione. Non credo proprio che il ragazzo muoia dalla voglia di parlare con me, se non per chiedermi di pagare il conto delle promesse che gli ho fatto.

 «Vi lasciamo soli», aggiunge quasi cinguettando. «Prendetevi tutto il tempo che volete: oggi tuo padre e io non andremo in ufficio.» Poi sbircia l’elegante orologio da polso – forse un Cartier con il cinturino d’oro ? e sussulta: «Mio Dio, è quasi mezzogiorno! Lei si ferma a pranzo con noi, dottor Pagano?».

 Per un attimo mi sento solidale con il bilioso ingegner Selman. Dopo un quarto d’ora di vuoti salamelecchi, al momento di affrontare le questioni spinose – lo spaccio di droga, il pusher sudamericano, il destino di suo figlio – Jacqueline Leblanc non trova di meglio che filarsela in cucina come una brava casalinga disperata ma non troppo. La sua vocazione per la delega è disarmante, nell’arte della fuga è più geniale di Bach.

 «Dipende», rispondo.

 «Dipende?» replica contrariata. «Da cosa?»

 «Da quello che vorrà Giovanni.»

 «Da quando sono i ragazzi a decidere per gli adulti?»

 «Da quando gli adulti rinunciano a farlo per loro.»

 Avvampa e contrae le labbra in una smorfia risentita, ma evita di contraddirmi e si limita a rispondere: «Dirò a Mabel di preparare per quattro, lei si consideri libero di fare come le pare».

 Le sopracciglia aggrottate e l’aria avvilita di Giacomo Selman costituiscono il commento più eloquente all’uscita di scena dei due coniugi.

 Rimasti soli, Giovanni non perde tempo e incalza: «Perché non hai parlato del mio amico?».

 «Perché non era necessario.»

 «Come sarebbe? Hai promesso…»

 «I tuoi sanno tutto, Giovanni.»

 «Tutto cosa?»

 «Che ti sei rifugiato nell’appartamento di un pusher, che spacci coca in discoteca e che forse stai rischiando la pelle.»

 Se a tradimento gli avessi affibbiato un manrovescio, la sua reazione non sarebbe stata altrettanto sbalordita. Prima sussulta, poi mi fissa con un’espressione incredula, i suoi pensieri corrono veloci all’indietro, come a riavvolgere il nastro alla ricerca d’una smagliatura, un particolare che gli mostri dove ha sbagliato, che cosa gli sia sfuggito. È impallidito e gli occhi sono diventati di nuovo due fessure che bruciano di odio e paura. «Hijo de puta», ripete. «Mi hai tradito.»

 «No», rispondo deciso. «Sanno tutto ma non faranno niente, né a te né al tuo amico.» Sono così convinto da risultare convincente. Mi sono aperto un varco nella sua furia. Temevo che con un balzo sarebbe fuggito via e mi tenevo pronto a bloccarlo, invece rimane al suo posto e continua ad ascoltarmi.

 «Ci denunceranno e ci faranno arrestare.»

 «No», ripeto. «Non contro la mia volontà.»

 «Come fai a dirlo?»

 «Sono stato io a trovarti: me lo devono.»

 «Come hanno scoperto la verità?»

 «Da me.»

 «Da te? Come è possibile?»

 «Non è vero che ti ho visto solo ieri mattina, quando sei uscito dalla stazione. Ti ho intercettato il giorno prima, dopo ore che ti facevo la posta. Quando finalmente sei arrivato, sono diventato la tua ombra. Ho preso il treno con te e sono sceso a Massa. Ti ho seguito fino alla discoteca dove hai spacciato tutta la notte e, al ritorno, ho pedinato il taxi che ti ha portato a casa del tuo amico.»

 «Così gli hai raccontato tutto…»

 «Certo, mi hanno pagato e ho fatto il mio lavoro.»

 «Bel lavoro di merda.»

 «Sono d’accordo. Ma nessuno denuncerà né te né il tuo amico.»

 «Non ti credo.»

 «In quella discoteca ho anche parlato con alcuni ragazzi che avevano comprato la tua coca. Mi hanno detto che la polvere magica di Manuel è la migliore che si sia mai vista in giro.»

 «Non è il mio amico che mi dà la coca. Lui mi ospita e basta. È colombiano, come me. Ci siamo conosciuti tre mesi fa in una sala da ballo e siamo diventati amici.»

 «Salsa e merengue?»

 «Sì, musica caraibica, a Sampierdarena.»

 «D’accordo, farò finta di crederti. Ti ospita perché gli sei simpatico. Del resto, scommetto che quando ne hai voglia sai essere un simpaticone. Ma rispondimi: è vero o no che la tua coca è la migliore?»

 «Sarà più pura.»

 «Allora ho ragione a preoccuparmi: stai rischiando la pelle.»

 Gli scappa un sorriso vacuo, quasi tronfio, che suggerisce una presunta o reale incoscienza. «E perché rischierei la pelle?»

 «Perché stai facendo concorrenza alla mafia.»

 «Che ne sai tu di queste cose?»

 «Ne so molto più di te, ragazzino. La qualità della cocaina in commercio è come il tasso d’interesse bancario: viene deciso ai piani alti. Se uno se ne va in giro a spacciare coca purissima, si mette contro il sistema.»

 «E tu da che parte stai?» ringhia. «Dalla mia o da quella della mafia?»

 «Che domanda stupida, Giovanni», replico scuotendo la testa. «Credi che se stessi con la mafia saresti ancora vivo?»

 «Non so più cosa credere», mormora, e le labbra si serrano e gli occhi si velano d’una patina umida. «Né di chi fidarmi.»

 Dalla tasca estraggo il telefono mobile e glielo porgo. «Tieni, chiama il tuo amico e raccontagli tutto. A quest’ora sarà in pensiero per te.»

 Resta immobile, curvo, i gomiti puntati sulle gambe. E continua a fissarsi le scarpe. I secondi trascorrono lenti. Il silenzio è rotto soltanto dal ronzio dell’aria condizionata e dal suono del nostro respiro.

 «Allora?» insisto.

 «Non mi freghi», borbotta agitando la testa. «Così ti resta il numero in memoria.»

 «Se vuoi puoi cancellarlo. Immagino che tu sappia come si fa.»

 Afferra il telefono, si alza dal divano e, mentre compone il numero, si allontana. Il pusher risponde dopo pochi secondi. «Hola, sono io», dice il ragazzo.

 Lo vedo sparire dietro una porta che si richiude alle sue spalle, escludendomi da qualcosa che è molto più di una conversazione al telefono. Giovanni mi sta lasciando fuori dalla sua vita segreta. Tra noi si erge un’antica, sontuosa porta di legno massiccio, laccata d’un tenero giallo paglierino e ornata di stucchi dorati perfettamente in armonia con lo stile della villa dove Bernardo Sánchez García ha trascorso metà della sua esistenza ed è diventato Giovanni Selman. Una porta che misura una distanza oceanica tra due tempi e due luoghi, incastonata come un gioiello nel cuore d’un edificio eretto forse un secolo dopo che i conquistadores spagnoli avevano compiuto il genocidio della sua gente. Una cesura che mi appare incolmabile tra la selva, le caotiche periferie di Cali e le innevate vette andine ? smisurate come la montagna della foto di copertina di Manuel BSG ? e l’atmosfera rarefatta e la frescura sigillata di questo sontuoso appartamento il cui silenzio merita d’essere rotto solo dalle note di un quintetto barocco.

 Dopo una decina di minuti Giovanni ritorna, scuro in volto, e mi lancia il telefono. Prende posto sulla poltrona dove sedeva sua madre e, guardandomi di sbieco, dice: «Il mio amico ti vuole parlare».

 «Va bene», rispondo. «Quando?»

 «Forse domani, ma non a casa sua. Ti porterò io da lui.»

 «Va bene», ripeto. «Non si fida di me?»

 «Nemmeno io mi fido», grugnisce cercando di fare la voce dura. «Tutte queste domande sulla mafia non mi piacciono. Non sarai uno sbirro?»

 «Se fossi uno sbirro e sospettassi che tiene una partita di droga in casa, credi che ti avrei permesso di chiamarlo?»

 «Ti ho detto che non è stato lui a fornirmi la coca!»

 «Hai ragione», mi scuso, «me ne ero dimenticato. D’altra parte, potrebbe essere anche vero.»

 «Che cosa?»

 «Ti ho visto spacciare in discoteca, in una notte devi aver tirato su qualche migliaio di euro.»

 «E allora?»

 «Il tuo amico veste come un pezzente e ha tutti i denti marci. Se guadagnasse tanto non sarebbe così malandato.»

 «La sua è stata una vita difficile.»

 “Anche la tua, Bernardo”, penso. Ma non glielo dico. «È colombiano come te?»

 «Sì, viene dalla mia stessa città.»

 «Santiago di Cali?»

 Annuisce. «Ci sei mai stato?»

 «No», rispondo, «pero conozco un poco de América Latina.»

 «Sai lo spagnolo?»

 «Cuando yo era joven, después de haber sido liberado de prisión, viví seis meses en Cuba.»

 «Sei stato in prigione?»

 «Cinque anni in un carcere di massima sicurezza, sono uscito nel 1980. Mi avevano condannato per terrorismo.»

 Si è fatto improvvisamente interessato e si beve ogni parola, come l’ho visto fare con il suo amico, solo che con me la sua diffidenza è palpabile.

 «E come mai sei ancora vivo?»

 «Alla fine mi hanno assolto.»

 Non riesce a trattenere una risata che cova una punta velenosa di disprezzo. «Prima terrorista e poi poliziotto», dice. «Hai cambiato bandiera e ti sei venduto. Scommetto che in cambio della libertà hai denunciato i tuoi compagni!»

 «Non ho denunciato nessuno. La mia storia la puoi leggere sui giornali dell’epoca. Specialmente “Il Secolo xix” ha dedicato molto spazio ai miei processi.»

 «Lo sai come chiamano al mio paese i guerriglieri?»

 «Lasciami indovinare: terroristi.»

 «E tu cosa ne pensi, poliziotto?»

 «Hai mai sentito parlare di Ernesto Che Guevara?»

 «Certo che sì.»

 «Bene: appeso al muro, in camera di mia figlia, c’è un poster con la sua fotografia.»

 «Tua figlia conosce il Che?»

 «Sa che era un guerrigliero rivoluzionario e che è stato assassinato in Bolivia.»

 «E perché tiene il poster in camera?»

 Non è facile rispondere a questa domanda.

 «Credo che lo consideri un eroe», borbotto. «O forse per amore di suo padre.»

 «Cosa c’entra suo padre?»

 «Quel poster gliel’ho regalato io.»