Capitolo 13
ALL’OMBRA DI SAN COSIMO
Questa notte il caldo non ha dato tregua. Ho dormito a singhiozzo e, ogni volta che mi risvegliavo fradicio di sudore, mi baluginavano nella mente le immagini di un sogno. Alle cinque del mattino ho deciso che era inutile accanirsi alla ricerca di un sonno che non sarebbe mai arrivato, tanto valeva alzarsi e fare qualcosa. Mi sono ritrovato in mutande nella cucina silenziosa appena illuminata dalla fioca luce dell’aurora.
Mentre preparavo il caffè mi è tornato alla mente, nitido e quasi reale, un frammento del mio sogno. Ero là, in America, nella stanza dell’ospedale. Sentivo il mio corpo bloccato – come in effetti è stato, per sei mesi prima dell’intervento e altri tre durante la convalescenza ? un ricordo spiacevole che è rimasto inciso nella mia memoria somatica e forse non se ne andrà più. Una sorta di effetto dell’arto fantasma, se non fosse che ne sono uscito indenne e ho recuperato appieno l’integrità del mio corpo e delle sue funzioni. Disteso sul letto guardavo attraverso la finestra aperta le foglie degli aceri appena increspate dalla brezza della sera. Mi pareva di sentirne anche l’odore. Stavano cambiando colore e da verde pallido si erano fatte rosse. A un tratto la porta si spalancava ed entrava un ragazzo: Giovanni Selman. Mi guardava e sorrideva. Non ci trovavo niente di strano nel fatto che fosse venuto a trovarmi, quasi lo stessi aspettando. Provavo a parlargli ma lui non ascoltava. Si limitava a ripetere: «Ora capisci come ci si sente?».
Quello che mi ha sempre irritato dei sogni è che non sappiamo che farcene. Eppure, dagli assiri alla cabala fino alla psicoanalisi, gli uomini hanno coltivato la convinzione che essi siano messaggi da decifrare e contengano verità più profonde di quelle che riusciamo ad afferrare durante la veglia.
Ho fatto colazione, infilato il costume da bagno, una maglietta e un paio di bermuda e sono uscito di casa. Lo Stradone era deserto. Ho inforcato la Vespa con l’idea precisa di raggiungere Pieve Ligure. Non c’erano macchine in giro e l’aria calda profumava degli umori della notte. Sull’Aurelia sentivo forte l’aroma del gelsomino, della resina dei pini e, a tratti, l’odore della salsedine che saliva dal mare. Ho parcheggiato la Vespa in uno slargo della statale, fissato il casco alla sella e preso l’asciugamano che durante l’estate tengo sempre pronto nel bauletto. Sono sceso fino a Fontanino e, mentre percorrevo la lùvega crosa che conduce fino al mare, sono stato sopraffatto dal flusso dei ricordi.
L’ultima volta che sono venuto in questa caletta, una decina d’anni fa, non ero solo. Con me c’era un’infermiera dell’ospedale Galliera che si chiama Valeria. Era il mese di agosto e Mara era partita con il suo nuovo compagno per una crociera in barca a vela nelle isole greche. Mi sentivo uno straccio, affamato di amore e di sesso, finché Valeria non ha tamponato il buco. Anche lei usciva da una storia che l’aveva fatta a pezzi e potrei dire che, in quel breve periodo, entrambi ci siamo usati per lenire il bruciore delle nostre ferite. Da allora mi sembra trascorso un secolo e fatico a riconoscermi nell’uomo che ero.
Ora capisci come ci si sente?
Quando raggiungo il grande scoglio di Fontanino, grigio e piatto come una lastra di ardesia, il sole è già alto sul monte Fasce, ma il costone di roccia alle mie spalle impedisce di vederlo. I suoi raggi accarezzano la superficie del mare che si screzia d’un brulicare di bagliori. L’area chiusa dagli scogli, una vera e propria piscina naturale, è ancora immersa nell’ombra. Sono le sei e mezza del mattino e intorno non c’è anima viva. Dopo avere sistemato il telo ed essermi spogliato su una pietra lambita dal sole, mi tuffo nel mare aperto. Con ampie bracciate mi porto verso il largo. L’acqua fresca dà tono al mio corpo e scioglie il groppo che la notte mi ha lasciato dentro. Mentre nuoto, respirando regolarmente, mi ritorna in mente il sogno. È quasi un’illuminazione.
Che la cabala e Freud avessero ragione?
Forse è così che si sente Giovanni, bloccato e sospeso tra un presente e un passato che non riesce a conciliare. Forse il suo arto fantasma è rappresentato dal bambino che a tre anni frugava affamato in una discarica e a cinque trasportava droga per le vie di Suárez. Quel bambino non c’è più, così come è scomparsa l’imbragatura ortopedica che mi immobilizzava il collo e la testa. Tuttavia, allo stesso modo in cui quest’ultima ha marchiato indelebilmente la percezione del mio corpo, facendo riaffiorare un senso doloroso di costrizione, anche l’esperienza d’essere sperduto, orfano e solo al mondo si è impressa nella sua mente per non lasciarla mai più. Non può ricordare la zia né i cugini senza rivivere quello spavento e quella desolazione. Perciò si arrabbia quando gli parlo della Colombia e di suo padre.
Il mare è calmo e, dopo una lunga nuotata, ho riguadagnato il mio posto sulla pietra ora inondata dal sole. Mi sono disteso sul telo stirando i muscoli delle braccia e delle gambe. Da terra arriva una leggera brezza che presto si affloscerà, lasciando campo libero alla morsa del caldo. Con gli occhi chiusi ascolto lo sciabordare dell’onda contro la scogliera, monotona e delicata come una carezza.
Eppure, sento che qualcosa mi sfugge.
Ieri ho telefonato a Pertusiello e gli ho raccontato del mio colloquio con il giovane proprietario dell’Enterprise di Forte dei Marmi. Dopo mezz’ora mi ha richiamato – da quando è in pensione è diventato ancora più efficiente e tempestivo – e mi ha spiegato che in passato la discoteca è stata chiusa più volte per spaccio di cocaina ed ecstasy, mancando per un pelo di finire nella lista dei beni della mafia passibili di sequestro. È controllata dalla ’ndrangheta e il giovane bellimbusto dall’aspetto così tranquillizzante, tutto cortesia e zelo legalitario, non è che un fantoccio della mafia. Dunque Giovanni è finito a smerciare in una delle più note piazze di spaccio della Versilia. Difficile credere che l’abbia fatto senza il placet di quella gentaglia. Ma come mai la sua cocaina è così speciale?
Mentre inseguo questi pensieri mi lascio prendere da un piacevole torpore e finisco per addormentarmi. Mi sveglia lo squillo del cellulare, riposto nello zainetto. Mi affanno a estrarlo rapidamente e faccio bene perché sul display illuminato compare una chiamata che proviene da un numero criptato.
«Hola», dice una voce rauca in spagnolo, respirando a fatica. «Sono io, l’amico di Giovanni.»
«Finalmente», rispondo nella sua lingua. «Ce ne hai messo di tempo.»
«Parli bene lo spagnolo.»
«Faccio del mio meglio.»
«Bravo, amico. Vuoi vedermi stamattina?»
Lancio un’occhiata all’orologio, quasi le nove. Ho dormito più di due ore. «Dove possiamo incontrarci?»
«Telefona a Giovanni, ti accompagnerà lui», risponde. Quindi aggiunge: «Mi raccomando, non fare scherzi o non mi vedrai più».
Ha riattaccato.
Chiamo Giovanni sul telefono di casa. Risponde subito, come se aspettasse la mia chiamata, e ci accordiamo di vederci alle dieci e mezza in piazza Matteotti, all’angolo con salita Pollaiuoli.
Ora la caletta di Fontanino è per gran parte illuminata dal sole e la sua pietra grigia si sta scaldando. Non è deserta come quando sono arrivato. Una coppia di ragazzi, un uomo anziano che da sotto un ampio cappello di paglia mi scruta con curiosità, una bella donna con due bambini piccoli che sguazzano in una pozza vicina alla piscina racchiusa dagli scogli. Si sono sistemati alla giusta distanza gli uni dagli altri, per non disturbarsi a vicenda. Sono accaldato e sento la pelle scottare. Prima di raccogliere le mie cose e tornare a Genova, mi tuffo nella vasca interna, dove l’acqua del mare oscilla seguendo il movimento dell’onda, e nuoto in apnea inseguendo piccoli banchi di pesci, nella speranza di portare con me almeno il ricordo di questo contatto fresco e prezioso come un brandello di felicità.
Alle dieci e venti posteggio la Vespa in via Petrarca e scendo in piazza Matteotti. Giovanni è già lì che mi aspetta con la faccia scura.
«Hola», gli sorrido, dandogli una leggera pacca sulla spalla. «¿Qué pasa?»
«Todo bien», risponde con aria indifferente. «Seguimi.»
Scendiamo per salita Pollaiuoli e comincia a guidarmi nel labirinto della città vecchia, infilandosi nei vicoli più stretti e scuri fra Canneto, San Bernardo ed Embriaci, probabilmente con l’intenzione di confondere un ratto da carruggi come il sottoscritto.
«Guarda amico che stai perdendo tempo», lo avverto più volte, inutilmente. «Ci sono nato e cresciuto in questi vicoli, potrei muovermi a occhi chiusi senza perdere la strada.» Ed è la verità, perché basterebbe l’olfatto a guidarmi tra la puzza di piscio del carruggio che costeggia San Torpete, la fragranza di spezie che dalla drogheria Torielli si allunga per vico San Biagio e il profumo del rosmarino che sale dal besagnino di piazza della Stampa.
Alla fine ci ritroviamo davanti alla chiesa di San Cosimo, dove Jaime Ramos Gutiérrez ci sta aspettando con una birra in mano, seduto in un esiguo rettangolo d’ombra sui gradini del sagrato. Indossa una camicia bianca con le maniche corte, tutta stropicciata e chiazzata di sudore, i soliti calzoni di lino e i sandali deformati dai suoi piedi gonfi e pelosi.
«Buongiorno», lo apostrofo, continuando a usare lo spagnolo. «Finalmente ci conosciamo.» Mi avvicino e gli stringo la mano. Ostento un trasporto che non provo affatto, ma lo faccio per tranquillizzare Giovanni che ci sta guardando. Il colombiano ricambia con una stretta vigorosa. Ha il palmo sudato. Mi seggo all’ombra vicino a lui, mentre il ragazzo si va a posizionare di vedetta all’imbocco del carruggio. La sua ingenuità mi fa sorridere. Dovrebbe sapere benissimo che se volessi far arrestare il suo amico l’avrei già fatto, ma evidentemente indossare la divisa della sentinella lo fa sentire importante.
Qualche raro passante attraversa la piccola piazza, dirigendosi verso la collina di Castello. Dall’interno della Mandragola, la trattoria alla nostra sinistra, arrivano voci. Stanno cucinando per il pranzo.
Il colombiano mi lancia un’occhiata di striscio, beve un sorso dalla lattina e, dopo essersi asciugato le labbra con il dorso della mano, domanda: «Sei della polizia?».
«Sono un investigatore privato. Mi chiamo Bacci Pagano.»
«Mi hanno parlato di te. Sei amico di un sacco di poliziotti.»
«Non esageriamo. Sono amico di qualche poliziotto, selezionato con cura.»
«Non mi piacciono gli sbirri.» Beve un altro sorso. Sudore rancido, denti marci e alcol saturano l’aria d’un fetore di fogna.
«A me invece non piacciono i pusher che spacciano cocaina senza rischiare un cazzo, mandando allo sbaraglio i minorenni.»
«Il ragazzo mi ha spiegato tutto», replica annuendo e aggrottando le sopracciglia. «Non sono stato io a dargli la droga. Ma ho parlato con le persone giuste. Puoi dire ai suoi genitori di stare tranquilli, non succederà più.»
«Chi sarebbero le persone giuste?»
«Questo non posso dirtelo, ma devi fidarti.»
«Non hai niente di meglio da offrire che la tua parola, Jaime?»
«Come sai il mio nome?» sussulta. «Giovanni ha promesso…»
«Non è stato Giovanni. Ho fatto le mie ricerche.»
«Vedi che ho ragione? Sei amico degli sbirri.»
«E tu di chi sei amico? La discoteca dove hai spedito il ragazzo appartiene alla ’ndrangheta.»
«Non l’ho mandato io», insiste. «I vostri mafiosi non mi sono mai piaciuti. Sono sporchi capitalisti che comprano la materia prima dai narcos. Quei maiali sfruttano i campesinos come schiavi. Io non voglio avere niente a che fare con quella gente.»
«Senti senti», lo provoco. «Uno spacciatore che parla come un rivoluzionario.»
«Io non spaccio più. Sono pulito. I tuoi amici poliziotti non ti hanno detto che lavoro come manovale?»
«Tu non hai mai lavorato, Jaime. La ditta che ti ha assunto appartiene a quelli che sfruttano i tuoi fratelli campesinos. E a loro conviene fornirti una buona copertura, perché gli rendi molto di più come pusher che come muratore. In compenso eviti di spaccarti la schiena.»
«Mi parli senza rispetto perché sono un immigrato ispanico…»
«Ti parlo così», lo interrompo, «perché non mi piace essere preso per il culo. Sono anch’io un figlio dell’immigrazione. Mi sono sempre reputato un genovese doc e invece mi sbagliavo. Per il mio ultimo compleanno ho ricevuto un regalo originale: una ricerca genealogica. Così ho scoperto che la famiglia di mio padre è originaria del casertano, una regione del Sud vicina a Napoli. Ai primi del Novecento il mio bisnonno ha lasciato il paese ed è salito a Genova in cerca di fortuna. Ha trovato moglie e lavoro, ma con la fortuna non gli è andata bene: faceva il camallo nel porto e scaricava le merci dalla stiva delle navi. A quarantadue anni è rimasto schiacciato da una cassa lasciando una vedova con tre figli piccoli da sfamare.»
«Sempre italiano era.»
«A quel tempo, in questa città un casertano era più straniero di te.» Faccio una pausa e proseguo: «Ma non è tutto: in gioventù sono stato un rivoluzionario, uno di quelli che combattevano contro i maiali capitalisti, o perlomeno ho creduto di esserlo. Quanta galera hai fatto in vita tua, Jaime?».
«Sei mesi.»
«Per spaccio di cocaina?»
Annuisce e beve un altro sorso.
«Io ho fatto cinque anni, in un carcere di massima sicurezza. Per terrorismo. E la fregatura è che non sono mai stato un terrorista.»
«Al mio paese chiunque si opponga al governo viene chiamato terrorista.»
«E come viene chiamato chi manda i ragazzini a rischiare la pelle al suo posto?»
«Quante volte ti devo ripetere che io non c’entro?»
«Se non sei stato tu, sarà stata qualche tua conoscenza.»
«Sì, vecchie conoscenze, gente che non frequento da tempo. Giovanni è nato nella mia città, Santiago di Cali, e per me è come un figlio…»
«Allora sei doppiamente bastardo: i figli si proteggono, non si mandano allo sbaraglio.»
«Sapevo che non c’era pericolo», dice scuotendo energicamente la testa. «Loro sanno quello che fanno.»
«Loro non sanno un cazzo. Ho parlato con il padrone dell’Enterprise, un certo Laganà.»
«E cosa gli hai detto?»
«La verità.»
«Quale verità?»
«Che lavoro per una ricca famiglia genovese. Che ho beccato il loro figlio minorenne a spacciare cocaina nella sua discoteca e che, se fosse successo ancora, avrei preso il ragazzo per un orecchio e avrei fatto arrestare lui.»
Si lascia scappare un mezzo sorriso che scopre i denti marci. «Dunque ora puoi stare tranquillo.»
«Niente affatto», rispondo alzando la voce. «La coca spacciata da Giovanni non è la solita merda che la mafia fa circolare nelle discoteche. È una droga di qualità superiore.»
Lo vedo interdetto, come se il ragazzo non gli avesse riferito che conoscevo questo particolare.
«Come fai a dirlo?» domanda ostentando indifferenza.
«Ho fatto due chiacchiere con alcuni clienti a cui l’ha venduta. Mi hanno detto che la coca di Manuel – così è conosciuto laggiù ? è speciale.»
Scuote la testa e borbotta: «I ragazzi non sanno riconoscere la droga di buona qualità…».
«Ti sbagli. Avresti dovuto esserci: davanti ai bagni si è formata la fila. Quando Laganà verrà a sapere che qualcuno gli fa concorrenza con merce migliore della sua – e puoi stare certo che succederà – non penso che la prenderà bene.»
Scrolla le spalle e continua a mostrare una serenità che potrebbe essere cinismo. Forse davvero dell’incolumità di Giovanni non gliene importa un accidente, o forse c’è un’altra spiegazione che al momento mi sfugge. «Se non la prenderà bene», pontifica tirando un lungo respiro che sembra un rantolo, «la prenderà male. Peggio per lui. Come ha reagito quando glielo hai detto?»
«Ha fatto finta di indignarsi.»
Prova a tracannare un altro sorso, ma la birra è finita. «Merda», dice, e tira giù una bestemmia. Quindi accartoccia la lattina e torna a guardarmi di traverso. «Vuoi sapere cosa penso, amico?»
«Noi non siamo amici, Jaime.»
«Okay, detective, però su una cosa devi convenire: andare a raccontare a un mafioso che il ragazzo spacciava in casa sua non è stata una mossa furba.»
«Non sapevo che si trattasse di un mafioso.»
«Appunto. Dovevi prima informarti, far fruttare i tuoi agganci nella polizia.»
«Vuoi forse insinuare che, se Giovanni è in pericolo, la colpa è mia?»
«Giovanni non è in pericolo. Ma tu non potevi saperlo.»
«E tu?»
«Io cosa?»
«Il ragazzo ti avrà raccontato dove andava e cosa faceva.»
«Certo che me l’ha raccontato.»
«Quindi sapevi che l’Enterprise è una piazza di spaccio della ’ndrangheta.»
«Nel nostro ambiente lo sanno tutti.»
«Sapevi anche che stava smerciando una droga di qualità superiore?»
«Conosco i suoi fornitori e la cosa non mi stupisce.»
«Da dove arriva quella coca?»
«Non ne ho idea, arriverà dalla Colombia, dal Perù, o magari dal Messico.»
«E come arriva, per quali canali, se i mafiosi non ne sanno niente?»
«Ci sono tante famiglie mafiose», risponde con un sospiro, sollevando gli occhi al cielo, «e tanti cartelli di narcotrafficanti. Bisognerebbe domandarlo a loro. Te l’ho detto: io sono fuori dal giro da tanto tempo.»
Sembra molto sicuro di sé e, a malincuore, devo rassegnarmi all’idea che sul traffico della droga non gli scucirò neanche una parola. Allora decido di chiudere la conversazione ricordandogli la sua posizione: «Bene, Jaime, per oggi basta così».
«Peccato», mi sfotte. «Cominciavo a prenderci gusto.»
«Ficcati bene in testa un concetto: se scopro il ragazzo con un solo grammo di cocaina in tasca, telefono ai miei amici sbirri e ritorni dietro le sbarre. Siamo intesi?»
«Non preoccuparti, signor Pagano», risponde con una risata rauca, rifilandomi una pacca sulla spalla. «Non succederà: anche se è uscito dai giochi, la parola di Jaime Ramos vale sempre qualcosa!»