Capitolo 14
GIACOMO
Puntualmente il telefono squilla quando non dovrebbe. Lo sento strepitare nel soggiorno, mentre l’acqua fredda della doccia mi lava via, con il profumo del mare, il tanfo di birra e marciume emanato dall’alito di Jaime Ramos. L’incontro con il colombiano mi ha lasciato dentro una crosta di rabbia e amarezza, come gromma di tartaro sul fondo d’una botte. Una sporcizia che nessuna doccia potrà ripulire. Mi succede sempre così quando mi imbatto in un disperato che si spinge a commettere un’azione ignobile ? come servirsi di un minorenne per spacciare droga – e lo fa senza ripensamenti, confinato nell’angusto orizzonte della propria bassezza. Forse è questa la banalità del male, e certe situazioni non fanno che ricordarmelo. Ai guasti del mondo non c’è rimedio, e la degradazione di Jaime è tanto irreparabile quanto ripugnante è la sua condotta.
Tuttavia il nostro colloquio non è stato inutile. Resto convinto che sia stato lui a fornire la coca a Giovanni, magari aiutato da uno o più complici. Le fantomatiche «conoscenze» a cui ha accennato potrebbero essere quelle che gli procurano la cocaina. Le mie minacce devono aver sortito il loro effetto perché, quando ha promesso che non avrebbe più coinvolto il ragazzo, mi è sembrato sincero. Ma è stato soprattutto un dettaglio a colpirmi: a sentire il nome di Laganà non ha fatto una piega, come se lo conoscesse bene. Dunque Ramos potrebbe non fare il doppio gioco e lavorare al servizio della ’ndrangheta – che gli garantisce, fra le altre cose, la copertura di un lavoro fasullo – anche quando smercia cocaina di qualità superiore. Se le cose stanno così, la tranquillità che ha ostentato non è un bluff e davvero Giovanni non ha niente da temere.
«Forse suo figlio non ha niente da temere», dico al telefono a Giacomo Selman. «Ho parlato con il pusher.»
Sono riuscito a rispondere in tempo, prima che riattaccasse, seminando una scia d’acqua che dal bagno attraversa mezzo corridoio e arriva fino al soggiorno.
«Ha parlato con il pusher?» replica facendo risuonare la sua voce stridula. «E io che speravo l’avesse fatto arrestare.»
«Ho fatto la cosa che reputavo più utile, signor Selman.»
«Noi due dobbiamo parlare.» La sua non è una richiesta, e nemmeno un invito. È un ordine.
«Non vedo l’ora», rispondo. «Mi dica solo quando e dove.»
«Ha già pranzato?»
«No.»
Erano oltre vent’anni che non entravo da Mannori in via Galata. Un buco rinomato per la sua cucina toscana, nel cuore del quartiere di San Vincenzo noto per il passeggio, lo shopping e le piene alluvionali del Bisagno che, alle prime piogge autunnali, allagano strade e negozi trasformando la sua aria salottiera in un desolato paesaggio d’acqua putrida e fango.
L’ultima volta che ho cenato in quel posto ero con Mara e ci siamo divisi una gigantesca bistecca alla fiorentina. La dottoressa Sabelli è sempre stata una buona forchetta, al contrario di Giacomo Selman che invece è astemio e vegetariano e ordina tortino di porri e verdure crude in pinzimonio. Al telefono ha precisato che si trovava in zona e ha suggerito di andare da Mannori, ma rimane un mistero come a un vegetariano astemio possa saltare in mente di pranzare in una trattoria toscana le cui specialità sono il Chianti e i piatti di carne. Io scelgo tagliata di manzo e insalata mista e mi verso un bicchiere di rosso dal caratteristico fiasco impagliato.
L’ingegnere indossa un completo di cotone chiaro su una polo azzurra. Si è tolto la giacca e mi scruta con un misto di curiosità e diffidenza. Mi dico che la vocina stridula che gli esce quando si arrabbia fa torto al suo aspetto, che è quello di un uomo maturo non privo di fascino. Alto circa un metro e ottanta, magro e con due occhi color ghiaccio schermati da un paio di occhialini di metallo, sfoggia una fluente e soffice capigliatura che un tempo era bionda e ora è diventata candida come neve. La compunta consorte dalle fattezze mediterranee deve essersi innamorata del suo aspetto nordico prima ancora che del patrimonio e dell’azienda che le avrebbe permesso di estrinsecare il proprio talento professionale. Nella magrezza vegetariana e nell’algida distanza a cui Giacomo tiene il prossimo, Jacqueline ha forse scorto uno specchio dove incontrare la propria fragilità e le proprie paure senza doverle riconoscere. Mi domando se in gioventù, molti anni prima della scoperta degli spermatozoi pigri, delle impennate da checca isterica e dell’arrivo d’un giovane indio chiamato Bernardo, una qualche complicità non tenesse uniti questi due cultori dell’infelicità e della bellezza. Un legame che poteva apparire solido, un misto di incoscienza e azzardo che li ha portati a percorrere l’impervio cammino dell’adozione senza che nessuno, finché erano in tempo, si sbracciasse per fermarli.
«E così ha parlato con il pusher», mi dice con l’aria di volermi provocare.
«Sì», rispondo sbocconcellando una fetta di pane sciapo. «Proprio stamattina.»
«E cosa vi siete detti?»
«Gli ho estorto la promessa che non si servirà più di Giovanni.»
«Questa sì che è una notizia!»
«Vero?»
Tira un respiro profondo e mi punta addosso i suoi occhi glaciali. «Lei si fida della parola di uno spacciatore?»
«Di norma no, ma questa volta è diverso.»
«Perché sarebbe diverso?»
«Non so, ingegnere», rispondo. «Ma qualcosa mi dice che posso fidarmi.»
Ecco arrivare puntuale l’acuto che, come un campanello d’allarme, segnala che sta perdendo le staffe. «Si rende conto che sta scommettendo sulla pelle di mio figlio?»
«Sì, ma non vedo cos’altro potrei fare.»
«Ha parlato con la polizia?»
«Con la polizia e con il proprietario della discoteca dove Giovanni ha spacciato.»
«Cosa ha saputo su questo pusher?»
Bevo un sorso di vino e mi stringo nelle spalle. «Quasi tutto: nome, cognome, indirizzo e precedenti. È un piccolo spacciatore colombiano che cinque anni fa si è fatto alcuni mesi di galera.»
Le labbra si contorcono in una smorfia di disgusto. «Questa è l’Italia: il paese di Bengodi dove clandestini, delinquenti e spacciatori la fanno sempre franca.»
«Mi dispiace contraddirla, signor Selman, ma l’amico di suo figlio non è un clandestino. Ha un regolare permesso di soggiorno e lavora presso la ditta di un suo collega.»
«Un mio collega?»
«Fa il manovale in un’impresa di costruzioni.»
«Immagino, immagino», ripete con un sorriso sarcastico. «Conosce il nome di questa benemerita ditta?»
«No.»
«Perché non lo fa arrestare?»
«Perché se lo facessi mi brucerei la fiducia di suo figlio. Inoltre, finché il ragazzo resta legato a quell’uomo, siamo tutti più tranquilli.»
«Più tranquilli?» sbotta. «Sta scherzando, vero?»
«Nient’affatto.»
«Come posso stare tranquillo sapendo che mio figlio frequenta uno spacciatore legato alla ’ndrangheta?»
«Chi ha parlato di ’ndrangheta?»
«Lei, dottor Pagano. Ha idea di quante imprese edili sono in mano alla mafia?»
«E lei?»
«Purtroppo sì», risponde amareggiato. «Nel mio lavoro faccio i conti tutti i giorni con la loro concorrenza sleale e con i trucchi che li portano ad accaparrarsi gli appalti più redditizi.»
«Lo so che può suonare incredibile, ingegnere», dico cambiando registro e passando a un tono più caldo, meno distaccato, «ma in questa situazione la presenza di Jaime Ramos rappresenta una garanzia. Sarà anche una feccia d’uomo, ma non permetterà che Giovanni si cacci nei guai. A suo modo… gli è affezionato.»
Arrivano il suo tortino di porri e la mia tagliata al sangue con contorno di insalata mista. Giacomo non degna il piatto di uno sguardo ed esplode in una risata forzata, carica di rancore. «Quel bastardo manda un minorenne a spacciare cocaina e lei mi dice che gli è affezionato?»
«Anche gli spacciatori hanno un cuore», sospiro. E subito aggiungo: «Mi tolga una curiosità, signor Selman».
La risposta si raggruma tutta in uno sguardo così severo da farmi sentire un pagliaccio.
«Lei ha fatto il militare?»
«No, dottore», sussurra fra i denti, le narici espanse e le mascelle serrate allo spasimo. «Perché me lo chiede?»
Scuoto il capo e stringo le spalle. «Semplice curiosità.»
Mi sembra di percepire il gorgoglio della rabbia ribollirgli nella pancia come magma incandescente. Fa uno sforzo per non esplodere e, dopo un lungo respiro, attacca svogliatamente il tortino e beve un sorso d’acqua minerale. «Sa cosa fa la mia famiglia da due generazioni?» dice con un tono didascalico che soffoca a stento il desiderio di insultarmi. «Tira su case, scuole, ponti e viadotti. E sa perché, fino a oggi, nessuna di quelle costruzioni è mai crollata? Per due ragioni: perché siamo imprenditori onesti ? utilizziamo materiali di prima scelta e ci affidiamo a maestranze qualificate ? e perché lavoriamo con scrupolo: alla base di quei progetti ci sono calcoli complessi che controlliamo e ricontrolliamo fino allo sfinimento. Basta un errore piccolo così», solleva una mano, il pollice e l’indice uniti, «perché tutto rovini provocando una catastrofe.»
«Credo di capire dove vuole arrivare», dico posando forchetta e coltello e passando il tovagliolo sulle labbra. «Ma ogni mestiere ha le sue regole. Non voglio essere offensivo, ma provi a spiegarmi quali calcoli avete sbagliato con vostro figlio. Come mai un ragazzo sano e intelligente, al quale avete dato tutto, a un certo punto ha cominciato a prendervi a calci nei denti?»
«Ora è lei che deve dirmi dove intende arrivare.»
«I ponti e i figli possono entrambi crollare, signor Selman, ma non funzionano allo stesso modo. Sua moglie mi ha raccontato la storia di Bernardo, un bambino colombiano che è stato sorpreso a tre anni mentre frugava in una discarica in cerca di cibo e a cinque mentre consegnava un pacco di droga per conto della famiglia a cui era stato affidato.»
«E allora?»
«Mi ha anche spiegato la ragione per cui Bernardo è diventato Giovanni. Le confesso che da principio ho creduto si trattasse di una banale questione estetica, di gusto, e mi sono anche incazzato. Invece ho scoperto che dietro il cambio del nome covava una vicenda tragica che ha segnato la sua vita.»
Mi osserva con un’espressione diffidente e sofferta, pronto ad aggredirmi. «Queste chiacchiere non serviranno a proteggere mio figlio, né dallo spacciatore né dal rischio d’essere ammazzato dalla mafia.»
«Perché non ha mai voluto spiegare a suo figlio la ragione del cambio di nome?»
«Sta divagando», risponde duro. «Parliamo della sicurezza di Giovanni.»
«Le ho appena detto che, al momento, è al sicuro.»
«Al sicuro? È candidato a diventare un delinquente, questa è la realtà!»
«Qualunque bambino che a tre anni cerca cibo nella spazzatura lo sarebbe.»
Diventa paonazzo e abbandona la torta di porri al suo destino. «Vuole sapere la mia opinione su questa storia, dottor Pagano?» attacca facendo vibrare le corde vocali sui registri bassi ? una specie di sordo borborigmo ? e preparando un exploit che mi aspetto degno della Regina della notte del grande Volfango Amadeo.
«Credo di saperlo», rispondo con un sospiro. «Ora che Giovanni è tornato a casa, non vede l’ora che io mi tolga dai piedi.»
Rimane interdetto, ma si riprende subito. «Sì, non capisco perché quella sventata di mia moglie si sia incaponita a volerla assumere. Non vedo quali competenze lei possa mettere al nostro servizio nell’interesse di nostro figlio. Ha dimostrato d’essere un segugio di razza, trovandolo nel giro di quarantotto ore, ma ora Giovanni non ha più bisogno di lei. Quello che gli serve non è un cane da guardia, ma un educatore che lo guidi con mano ferma e uno psichiatra che lo curi.»
Devo rassegnarmi all’idea che ? sia pure di razza, da caccia o da guardia ? per lui resto sempre un cane. «Suo figlio mi ha definito con disprezzo angelo custode.»
«Appunto», conferma, rigettando indietro un sorriso compiaciuto. «Ma, se devo essere sincero, credo che questa manovra di Jacqueline nasconda un obiettivo più sottile, un perfido esercizio di crudeltà che rivela tutto il suo desiderio di umiliarmi: dopo avermi lasciato per anni a combattere da solo, ora vuole dimostrare – forse per alleggerirsi la coscienza – che se Giovanni ha deragliato dai binari la colpa è mia. L’ha sentita anche lei, non fa che ripetere che non ho le palle. Le sembra l’espressione più consona per rivolgersi a un uomo che non può procreare? Allora ha deciso di portare a casa l’omaccione, il ruvido ex poliziotto che mette in riga il ragazzo con le buone o con le cattive.»
«Io non sono un ex poliziotto», lo interrompo. «Se mai un ex carcerato.»
«Poliziotto, carcerato… che differenza fa? Quello che a mia moglie interessa è vendicarsi e mettermi in ridicolo, facendomi passare per un uomo di pezza!»
Mentre lo ascolto ho ripreso a darmi da fare con la tagliata. Squisita. Giacomo Selman ha buttato sul tavolo tutte le sue carte, e mi chiedo quale gioco risulti più utile in questa sgangherata partita senza vincitori. Inghiottito l’ultimo boccone, sparo la prima idea che mi passa per la testa. «Certo siete una strana coppia», comincio. «Entrambi vi rinfacciate di non tenere a vostro figlio, quando si vede benissimo che non è vero. Ma nessuno dei due fa il primo passo per smentire l’altro e chiedergli di riconoscere la verità.»
«Quale verità?»
«Che amate Giovanni sopra ogni altra cosa.»
«Ah sì?» contesta con una risatina sottile. «In questi ultimi anni Jacqueline non c’è mai stata. Era sempre al lavoro.»
«Ma non le ha spiegato perché.»
«Mi sembra così chiaro…»
«Non le ha detto che ha paura di Giovanni, delle sue avance sessuali, e che la sola intimità che può concedersi è quella “sorvegliata” dell’ufficio o del ristorante.»
Mi sguarda stranito, come se parlassi arabo. Solo dopo qualche tempo accenna a un debole diniego con la testa. «Vuol dire che Giovanni… ci ha provato con sua madre?»
«Nella sua vita precedente nessuno gli ha insegnato a distinguere affetto e sessualità.»
«E perché starsene lontana da casa? Non poteva chiedere il mio aiuto?»
«Forse si vergognava per lui e temeva che lei finisse per rifiutarlo.»
Cala le palpebre come se non volesse vedere. Poi si scuote e ringhia: «Eh, già: qualcuno doveva continuare a esserci…».
«Ora veniamo a lei», proseguo. «Cosa l’ha spinta a far credere a Jacqueline che la sua prima preoccupazione fosse salvare il buon nome dei Selman?»
«Non le ho fatto credere un bel niente!» protesta.
«Oh, sì invece. Lo ha fatto anche con me: quando le ho chiesto perché non avesse chiamato la polizia, ha tirato subito in ballo la reputazione della sua famiglia.»
«E se anche fosse, cosa ci sarebbe di male?»
«Semplicemente che è una menzogna. La sua prima preoccupazione non sono né il nome dei Selman, né il lavoro. È Giovanni. Tant’è vero che non ha cessato di combattere ed è rimasto da solo a casa a occuparsi di lui. Ma di fronte a sua moglie non riesce ad ammetterlo. Perché?»
«Jacqueline non mi stima, non se ne è accorto?»
«Se si convincesse che lei vuole bene a suo figlio, la stimerebbe di meno?»
«Non so…» farfuglia. «Credo che non cambierebbe niente.»
«Sembra che entrambi abbiate fatto il possibile per nascondere all’altro i sentimenti che nutrite per il ragazzo, neanche fossero motivo di vergogna. Avete preferito accusarvi l’un l’altro di non volergli bene.»
«Ma che sta dicendo? Io ho dimostrato coi fatti quanto gli voglio bene…»
«Sua moglie ripete che lei ha sempre cercato di conquistare la sua benevolenza con costosi regali, che lui puntualmente faceva sparire.»
«Purtroppo ha ragione.»
«Perché non ha mai fatto niente per smentirla?»
«Come potevo smentirla se aveva ragione?»
«Quei regali erano soltanto tributi per tenere buono un figlio ribelle? Non saranno stati anche un espediente, l’unico modo in cui riusciva a esprimergli il suo affetto?»
«Sì», ammette con un certo sforzo. «Qualche volta è stato così.»
«Ha mai provato a spiegarlo a Jacqueline?»
Articola un’espressione goffa, con le labbra contorte e il naso arricciato, gli occhi perduti a inseguire un ricordo introvabile. «No», sussurra.
«Poco fa», proseguo, «quando ho ipotizzato che sua moglie non le abbia parlato delle pulsioni disordinate di Giovanni per paura che lei lo rifiutasse, ha commentato: “Qualcuno doveva continuare a esserci”.»
«Certo», conferma, «l’idiota di famiglia.»
«Io non la vedo così.»
«Ah no? E come la vede?»
«Rinunciare all’intimità con il figlio per Jacqueline è stato doloroso.»
«Può darsi.»
«Non poteva contare su nessun altro, all’infuori di lei: qualcuno doveva continuare a esserci.»
«Per poi massacrarmi, accusarmi di sbagliare tutto e farmi passare per un coglione?»
«Si rende conto che avete fatto, ognuno a suo modo, esattamente la stessa cosa?»
«E sarebbe?»
«Avete disconosciuto, anche agli occhi di vostro figlio, i sentimenti che provate per lui.»
Rimane a guardare il vuoto, il tortino appena sbocconcellato nel piatto e la bottiglia d’acqua ancora piena. Un quadretto desolante. Arriva il cameriere e domanda se qualcosa non va.
«Tutto a posto», risponde sollevando una mano. «È che oggi non ho appetito.»
«Le porto il pinzimonio?»
«No, grazie.»
L’uomo chiede se vogliamo il caffè e Giacomo ordina due caffè e il conto. Dopo un lungo silenzio, in cui ciascuno di noi ? lui tormentando il tovagliolo e io caricando la pipa ? resta immerso nei suoi pensieri, solleva lo sguardo e con voce neutra domanda: «Crede davvero che un bambino che a tre anni rovista nella spazzatura sia candidato a diventare un delinquente?».
«Non so», rispondo, «non sono un criminologo.»
«Però è quello che ha detto.»
Mi stringo nelle spalle e provo a spiegare: «Una cosa è certa: quel bambino non se ne andrà più. Giovanni se lo porterà dentro per sempre, con la sua solitudine, il suo terrore e la sua rabbia».
«Dunque conferma: diventerà un delinquente, nonostante tutto quello che abbiamo fatto per dargli una vita diversa.»
«Non so», ripeto. «Ne ho già parlato con sua moglie. Voi avete fatto il possibile e l’impossibile...»
Lascio la frase in sospeso. Sto pensando che non vorrei mai passare su un ponte progettato da un ingegnere meno scrupoloso di lui.
«Ma?» incalza.
Ficco lo sguardo nei suoi occhi azzurri, chiarissimi, occhi che portano tutta la severità e il rigore di lontani antenati venuti dal Nord. «Ma cosa?»
«Finisca la frase.» Nuovamente il tono, più che un invito, suona come un ordine.
«Quale frase?»
«Noi abbiamo fatto il possibile e l’impossibile, ma…»
Mi stringo ancora nelle spalle. «L’avete fatto per Giovanni.»
«Certo che l’abbiamo fatto per lui. E allora?»
«Il bambino di tre anni – quello che frugava nella discarica in cerca di cibo – si chiamava Bernardo.»