Capitolo 3

 

UN NEGRONI CON PERTUSIELLO

 

 La carnagione di Giovanni è scura e i capelli disegnano sulla sua testa una calotta corvina che riflette i bagliori del sole. Anche gli occhi sono scuri, leggermente a mandorla, e mi scrutano con un’aria torva, carica di diffidenza. Saranno le sopracciglia appena aggrottate, o la piega delle labbra che suggerisce un risentimento verso il destino, ma mi ritrovo a pensare che un giovane guerriero indio deve essere fatto così, bello e incazzato. La natura è stata generosa con lui ? come con la sua terra ? e gli ha regalato un fisico atletico, forte, e l’acerbo splendore che emana dagli spiriti adolescenti, dove la curiosità sconfina nell’incoscienza e l’incoscienza nella superbia. Ma la storia, beffarda e invidiosa, si è vendicata e gli ha strappato via tutto. La madre, il padre, la lingua e perfino il nome. Lo ha sradicato dalle sue origini per catapultarlo in una lussuosa villa di Albaro dove ogni oggetto, parola e odore racconta storie lontane anni luce da quelle che lui ha respirato quando era ancora sé stesso e si chiamava Bernardo Sánchez García.

 Sono quasi le otto della sera e con Pertusiello siamo seduti sulla veranda dei bagni Catainin, a Sturla, entrambi strinati nelle nostre camicie leggere fradicie di sudore, davanti a un Negroni ghiacciato che ha lo stesso colore della luce del crepuscolo. La spiaggia è ancora invasa dai bagnanti alla ricerca di un po’ di refrigerio, a mollo nelle acque verdognole d’un mare immobile come un lago. Portiamo entrambi gli occhiali scuri, per proteggerci dal sole che sta tramontando lasciando l’aria satura di calore. Il mio amico pensionato, di carnagione olivastra di suo, esibisce una pelle color cioccolato che suggerisce un’assidua frequentazione di qualche spiaggia rivierasca. Il tempo libero non gli manca e, in questi giorni infuocati, il mare rappresenta l’unica via di scampo dei genovesi in libera uscita. Mi osserva incuriosito mentre rigiro tra le mani la fotografia a colori che i coniugi Selman mi hanno fornito, dopo la firma del contratto che mi impegna a ritrovare il ragazzo scomparso.

 «Non t’aspetterai che si metta parlare e ti dica dove s’è cacciato», borbotta Totò, sorseggiando il suo Negroni.

 «Sarebbe troppo facile», rispondo. «Mi sto solo domandando quale sia il senso di tutto questo.»

 «Certe volte non ti capisco, guaglio’. Questo pischello viene da un paese dove la vita umana vale meno di niente. L’esercito regolare, le bande paramilitari e le milizie dei narcos non si distinguono nemmeno per la divisa, sono armati fino ai denti e hanno il vizio di premere il grilletto prima di chiedere i documenti. Questo è l’unico senso che riesco a vedere. L’hanno portato qui, dove, se non sarà troppo sfortunato, godrà del comfort garantito da una famiglia straricca, oppure si ammazzerà da solo, con la droga o ficcandosi nei guai, ma almeno potrà dire di avere scelto la sua strada.»

 «Tu credi che sia così semplice?»

 «Amico mio», sospira, «nella vita non c’è niente di semplice. Lo devo spiegare proprio a te, che sei vivo per grazia ricevuta? Abbiamo lavorato insieme per oltre vent’anni, ci siamo scervellati per scoprire le ragioni più astruse che portavano uomini qualunque a diventar criminali, e prova a citarmi un solo caso in cui le cose fossero semplici.»

 Forse mi sta rimproverando, ma avverto nelle sue parole una nota malinconica, il sapore amaro della nostalgia. La pensione non gli ha fatto bene, al mio amico commissario, e per non darlo a vedere si attacca a quanto di più vitale gli è rimasto: la vena polemica e un robusto senso pratico.

 Assaporo un sorso del mio cocktail e lo sento scendere, forte e ghiacciato, in gola e nello stomaco. Ci sono tanti modi per ritrovare sé stessi ma, dopo una giornata torrida come questa, un Negroni preparato a regola d’arte e servito in un gotto appannato dal gelo funziona meglio di qualsiasi altro, specialmente se lo gusti in compagnia d’un bestione che sprizza gioia dagli occhi nel vederti vivo e in buona salute.

 «Provo a spiegarmi», attacco. «Sto cercando di immaginare cosa ci sia in comune tra il figlio di un narcotrafficante, cresciuto in una città della selva colombiana, e una coppia genovese, ricca e così mal assortita. Lui è ingegnere e viene da una famiglia di costruttori che negli anni del boom edilizio hanno riversato sulla città un fiume di cemento. Lei una bella donna che sembra fare l’architetto per hobby. Ha voluto adottare un bambino per poi rifilarlo a un marito isterico che, con una vocina sottile e rancorosa, le rimprovera di lavorare anche la domenica pur di non stare con suo figlio.»

 «Forse intende punirlo.»

 «Chi?»

 «Il marito», risponde sfilandosi gli occhiali.

 «E perché dovrebbe punirlo?» insisto, facendo altrettanto.

 «Avrà le sue buone ragioni.»

 «Sembra che, dei due, quello sterile sia lui.»

 «Vedi che a volte ci azzecco?»

 «Ma è mai possibile che nessuno li abbia messi in guardia su quello cui andavano incontro?»

 Scuote la testa e svuota il bicchiere, socchiudendo gli occhi e facendo schioccare la lingua. «Caro Bacci, sai come funzionano certe cose. La gente dipinge il futuro con i colori del desiderio. Lo facciamo tutti, ogni volta che ci accingiamo a fare qualcosa di nuovo. Non è stato così per le tue storie d’amore? Ciascuna sembrava essere quella giusta, e invece…»

 «Cazzo, adottare un ragazzino di otto anni non è una passeggiata. Questa coppia avrà parlato con uno stuolo di esperti.»

 «Sei stato fidanzato con la dottoressa Sabelli: non ti ha spiegato che la psicologia non è una scienza esatta?»

 Torno a guardare la fotografia e provo a immaginare come doveva essere Giovanni quando si chiamava Bernardo. Gracile e affamato, non sorrideva mai. Assomigliava forse a un cucciolo sperso e impaurito? I cuccioli spersi e impauriti reclamano tenerezza e implorano di essere salvati e accuditi. Questa foto invece risale a un mese fa, l’ha scattata la madre sulla barca a vela di famiglia. Il ragazzo indossa una maglietta bianca e i calzoni corti; non sembra entusiasta di essere lì e neppure di farsi fotografare, ma sotto il grugno corrucciato traspaiono una volontà di sfida e, forse, il compiacimento di esibire il proprio corpo inondato dal sole. I giovani semidei non conoscono la vergogna e ostentano con naturalezza la loro orgogliosa potenza, suscitando un misto di rabbia, ammirazione e invidia. Dunque Pertusiello ha ragione, questi otto anni non sono trascorsi invano e i coniugi Selman, con le loro acrimoniose stravaganze, in fin dei conti hanno fatto un buon lavoro.

 «Alle orecchie della borghesia albarina il nome Bernardo non suona bene», protesto. «Vuoi mettere quanto più figo è Giovanni?»

 Ha capito al volo ma non risponde e assume un’espressione assorta, distante. Vorrei proseguire e spiegargli che il primo errore è stato strappare il ragazzo alle sue radici quando era ormai troppo tardi, chiedendogli di diventare altro da quello che era, ma qualcosa mi frena. Un gabbiano si è posato sulla balaustra a pochi metri da noi e lancia un grido che suona accorato come il lamento di un neonato. In lontananza, oltre il castello di Boccadasse, la lingua di capo Mele svanisce come un miraggio nella foschia estiva. Anche lui, il mio amico commissario, deve sentirsi sradicato ora che non può più andare ogni mattina nel fumoso ufficio della questura, dove i suoi ispettori – Cecchi, Levrero, Fois e la bella Esposito – fingendo di sopportarlo stravedevano per lui, neanche fossero i figli che non ha mai avuto.

 «Vedo che non hai ancora acceso la tua Gauloise. Hai smesso di fumare?»

 «Smesso no, ma devo aspettare.»

 «Aspettare cosa?»

 «Il maledetto cicalino», risponde estraendo di tasca un portasigarette d’argento e posandolo sul tavolo. «Me l’ha regalato Agnese. È programmato a tempo e si apre ogni tre ore e mezza, come una fottuta cassaforte.»

 Scoppio a ridere. «Dopo un Negroni così buono, ti ci vorrebbe uno scassinatore coi fiocchi, tipo De Niro in The Score!»

 «Te l’ha mai detto nessuno, Bacci, che si’ proprio ’nu strunz’?» replica scuotendo il capoccione. «Lo scorso autunno, due giorni prima che quel mago cinese, vicino a New York, ti ricostruisse le vertebre cervicali, il mio cuore ha cominciato a battere per i cazzi suoi e sono finito anch’io in ospedale. Il cardiologo del Galliera l’ha messa giù dura: “Questo è il primo avviso”, mi ha detto cupo e impettito come un corvo, “se lei non smette di fumare e non perde almeno trenta chili, la prossima crisi sarà un bell’infarto che la manderà all’altro mondo”.»

 «Non ne sapevo niente. Perché me lo dici solo ora?»

 «Mia moglie ne ha parlato con Aglaja e insieme a tua figlia abbiamo deciso di non farti preoccupare, almeno finché non ti fossi completamente ripreso.»

 «Infatti ti vedo un po’ sciupato.»

 «Ventidue chili ho perso, mannaggia a loro! E navigo dentro i vestiti consumato come un cero in chiesa. Siccome di smettere del tutto non se ne parla proprio, Agnese s’è inventata di regalarmi questo infernale marchingegno…»

 In quel momento la scatola magica emette un suono secco, tic, simile a quello del mulinello di una canna da pesca quando il pesce abbocca. Sul suo faccione olivastro si spalanca un sorriso esaltato. «Hai sentito anche tu?» sbotta trionfante. «Ci siamo!» Apre il portasigarette, estrae due Gauloises e le posa sul tavolo. «Qualche volta baro con me stesso e mi concedo uno strappo», sogghigna. «E ’sto Negroni e una serata con il mio amico resuscitato lo meritano tutto.»

 Quindi cava fuori il suo Zippo e accende la prima sigaretta, tirando una lunga boccata con gli occhi chiusi. Lo imito ed estraggo anch’io la pipa, sbriciolo lentamente il Dunhill nel fornello, schiacciandolo per bene col nettapipe, lo incendio con un fiammifero svedese e comincio a fumare.

 Mi dico che non sono riserbo e tatto che si aspetta da me. Anche se poi mi darà dello stronzo la franchezza, anche ruvida, per lui è un toccasana, la conferma che le cose non sono troppo cambiate. Così mi decido a domandargli chi abbia preso il suo posto alla squadra omicidi.

 «Dopo il pensionamento di Levrero», bofonchia con un velo di amarezza nella voce, «speravo nominassero Fois o la Esposito. Sono tutt’e due in gamba, hanno esperienza e sanno vedere lontano. Ne ho parlato con il questore, ma quello ha fatto il pesce in barile, accampando la scusa che certe decisioni si prendono a Roma. In parte è vero, ma gli ho fatto notare che la sua parola doveva pur valere qualcosa. Il fatto è che la nostra sezione è sempre stata scomoda e i miei uomini, specialmente dopo i casini del G8, in questura riscuotevano più soggezione che amore. Ai piani alti è rimasto vivo il ricordo di quella rissa nei cessi della questura, quando ho preso per il collo un collega dal manganello facile in vena di fare il cowboy. E così hanno fatto arrivare da Isernia un quarantenne azzimato che si dà un sacco di arie ed è fissato con le procedure. La scena del crimine è la sua ossessione: la vorrebbe sterile come un reparto grandi ustionati e, fosse per lui, sparerebbe ai piccioni in volo perché non ci cachino sopra.»

 «Avrà visto troppi telefilm americani.»

 «Non fa che affidarsi alla tecnologia. Con lui non si parla d’altro che di luminol e dna.»

 «I tempi cambiano, amico mio», lo interrompo con un sospiro. «Sai come ho trascorso i mesi della mia convalescenza? Ho imparato a smanettare sul computer.»

 «Per carità», continua, «lo so che il mondo corre troppo veloce per noi e non nego che la Scientifica possa dare una grossa mano. Ma quello non ha la minima idea di quanto si possa ricavare da un buon interrogatorio. Ed è un peccato, perché il fiuto non gli mancherebbe. Si chiama Ragonese, ci ho parlato qualche volta ed è stato pure gentile. Ma sai che intendo? Quella gentilezza fredda, formale che, mentre osanna la tua lunga carriera di capo della squadra, fra le righe ti manda a dire che ora chi comanda è lui e ti invita a startene alla larga.»

 «E tu?»

 «Io cosa?»

 «Te ne stai alla larga?»

 Non risponde subito e, mentre aspira una profonda boccata, il pensiero corre lontano e lo sguardo s’incupisce. «Io sto in pensione, guaglio’, e non pretendo di insegnare nulla a nessuno. Non c’è niente di peggio che voler restare attaccato a una scrivania e a una poltrona quando ormai sei fuori dai giochi. Si corre il rischio di diventare patetici. Hai sempre l’impressione che gli altri ti stiano ad ascoltare per benevolenza, ma dietro la benevolenza cova la condiscendenza, e ti assicuro che è un cocktail amaro da mandare giù. I galloni sono come le medaglie: valgono qualcosa finché li porti addosso. Appesi al muro danno lustro ma non servono a un cazzo.»

 Sulla mia faccia deve essersi dipinta un’espressione scettica, perché il mio amico mi scruta socchiudendo le palpebre e aggiunge: «Be’? Non hai niente da dire?».

 «Totò, non è che invecchiando stai diventando filosofo?»

 «Filosofo io?» sbotta. «Ma vattinne! Piuttosto, invece che dire strunzate, perché non ordini un altro Negroni?»

 «Obbedisco, commissario», confermo drizzando la schiena. «Però lascia che ti domandi una cosa: come mai non ti indigni più?»

 Sto per alzarmi in piedi, ma lui si fa serio e mi blocca con un gesto della mano. «L’indignazione dei vecchi è sempre sospetta», sentenzia. «E sai perché?»

 «Sono vecchio anch’io, ma dimmelo lo stesso.»

 «Perché puzza di rancido, come la mozzarella andata a male. Quando un vecchio s’indigna non si sa mai se lo fa perché il presente fa schifo, o perché vorrebbe portare indietro le lancette dell’orologio.» Trae un profondo respiro e conclude: «La vecchiaia è una gran brutta bestia. È naturale che la realtà non ci piaccia. Ma, in fin dei conti, è l’età in cui si tirano le somme dell’intera esistenza».

 «Non dirmi che questo mondo ti sta bene così com’è.»

 «Certo che no, Bacci. Ma è quello che abbiamo costruito noi. I soli che hanno il diritto di indignarsi sono i giovani. Peccato che non lo facciano abbastanza.»

 Passa la ragazza, una biondina con i capelli corti e un vistoso tatuaggio floreale sulla spalla nuda, e attiro la sua attenzione sollevando il braccio.

 «È possibile avere un secondo Negroni? Per due.»

 «Mi dispiace, signore», risponde stirando le magnifiche labbra nature, «ma dobbiamo apparecchiare per il ristorante.»

 «Va ’bbuono, signori’», interviene Pertusiello. «Se ceniamo qui, ce li porta altri due aperitivi?»

 La giovane esita un attimo. «Mi assicuro che il tavolo non sia prenotato.»

 Il commissario mi lancia un’occhiata interrogativa, come a dire: hai impegni, stasera? Lo rincuoro scuotendo la testa e aggiungo: «Aglaja è in vacanza con il fidanzato e io sono un uomo libero. Tu, piuttosto…».

 «Mo’ avviso l’Agnese che ceno fuori con Lazzaro risorto.»

 Guardo l’orologio. «Ma sono le otto e mezza, non sarà contenta…»

 «Oh, ci puoi giurare che è contenta! Quando ci sei di mezzo tu… E poi, ci ha fatto il callo. Non è sempre stato così, in questi quarant’anni?»

 Annuisco con benevolenza, ma senza condiscendenza, e lascio che la cameriera ci serva due gotti gelati e ci rassicuri sul fatto che il tavolo è libero e potremo cenare guardando il mare. Pertusiello le riserva un sorriso colmo di gratitudine ed estrae il cellulare per chiamare la moglie. Quando termina la conversazione, sospira e tracanna una robusta sorsata.

 «L’Agnese ti manda un bacio», ammicca soddisfatto. «Si raccomanda di avvisarti che una di queste sere ti aspetta a cena: vuole festeggiare il tuo ritorno in questa valle di lacrime.»

 «Quando volete», replico. «Te l’ho detto che sono un uomo libero…»

 Schiaccia il mozzicone nel posacenere e si umetta le labbra, lasciando vagare lo sguardo negli interstizi della sera. «Libero… o solo?»

 «“Libertà” è un eccellente eufemismo per definire la solitudine.»

 «Ora sei tu che fai il filosofo», ribatte lasciandosi andare a una sonora risata. «È tutta la sera che mi fai parlare della mia vita. Vorrai almeno dirmi come ci si sente dopo avere guardato in faccia la morte?»

 Scrollo le spalle e, senza pensare, sparo la risposta più stupida – e forse più vera – che mi viene in mente: «Vivi».

 Il crepuscolo va stendendo sulla superficie dell’acqua una tinta color basalto. Fra poco l’imbrunire svuoterà la spiaggia, lasciando le pietre grigie in attesa della notte, quando il respiro del mare le avvolgerà in un velo di umidità.

 Mentre la giovane biondina apparecchia la tavola, prendo a sorseggiare il mio cocktail. Pertusiello non molla l’osso e aspetta in silenzio. Com’era da prevedere, la mia risposta non lo ha soddisfatto.

 «Che vuoi che ti dica, Totò?» sbotto con il tono di chi vuole scrollarsi di dosso un pensiero fastidioso. «Se affermassi che tutto è come prima, mentirei a me stesso. Non è la prima volta che rischio la pelle, ma non mi era mai successo di restare sei mesi imbragato in una gabbia ortopedica a giocare a scacchi con la morte.»

 «Già», commenta laconico.

 «Solo che…»

 «Solo che?»

 Rimane concentrato come un cane da punta, e mi costringe a restare lì, a friggere sull’argomento.

 «Se vuoi la verità, questa volta non credevo che ce l’avrei fatta. Quello che posso dirti – anche se suonerà banale – è che averla sfangata mi ha reso ancora più attaccato alla vita. Mi sembra di averne sciupata tanta e vorrei… rifarmi.»

 «Non ci vedo niente di banale.»

 «Ma per riuscirci devo trovare il modo di fermarmi, di riappropriarmi della mia esistenza. Fin qui ho sempre vissuto nel presente, ma solo perché ero in balia di un senso di precarietà che mi impediva di guardare oltre. Ero prigioniero della rabbia del passato e non riuscivo a immaginare alcun futuro. Ogni giorno poteva essere l’ultimo. E allora scattava l’avidità: l’idea che mi mancasse il tempo, che le donne non bastassero mai, che una vita sola non fosse sufficiente a restituirmi quello che avevo perduto.»

 «Gli anni bruciati in galera?»

 «Quelli, ma anche tanto altro.»

 «E adesso, invece?»

 «Adesso ho capito che questa è la sola vita che ho. E che merita d’essere centellinata – come questo Negroni ? prendendo quello che di buono arriva senza smaniare, senza l’assillo di inseguire il fantasma della felicità.»

 Il mio amico mi guarda con un’espressione che rasenta la commozione, e questo non deve piacergli, perché si affretta a commentare: «Non sarai diventato saggio?».

 «Può darsi.»

 «Speriamo di no», ribatte. «Perché d’un amico saggio non saprei che farmene.»

 «Perché, tu non sei forse saggio?»

 «Io?» sbotta con una risata eccessiva, dove si avvertono i primi effetti dell’alcol. «Se lo fossi non peserei centodieci chili e non mi farei due Negroni in una sera. Senza contare la bottiglia di bianco fresco che sto per ordinare.»

 «La saggezza non significa esser morigerati, né salutisti.»

 «Ah no? E allora che significa?»

 «È un modo di guardare alla vita e alle cose.»

 «E io come guardo alla vita e alle cose?»

 «Tu hai sempre tenuto i piedi ben saldi per terra. Perciò i tuoi ispettori pendevano dalle tue labbra.»

 «Non sono più i miei ispettori», grugnisce.

 «Non mi dire che non vengono a chiederti consiglio…»

 «Vengono a trovarmi e qualche volta ci incontriamo in trattoria. Ma lo fanno perché siamo invecchiati insieme e mi vogliono bene.»

 «E non parlate mai di lavoro?»

 «Gliel’ho vietato ca-te-gorica-mente», scandisce drizzando l’indice nell’aria. «Ma per te, stavolta, farò un’eccezione.»

 «Per me?»

 «Sì», risponde alzando la voce. E, indicando la fotografia che ho infilato nel taschino della camicia, aggiunge: «Lo vuoi trovare o no ’sto pischello?».

 Sto per obiettare che il mio invito di stasera era senza secondi fini, che l’ho chiamato perché avevo voglia di rivederlo, ma mi blocco in tempo. Ripenso a tutte le volte in cui ho cercato il suo aiuto quando era a capo della Omicidi e mi dico che, se gli confessassi che ora non mi aspetto niente da lui, finirei per comportarmi come il dottor Ragonese. Allora chiedo: «Davvero hai voglia di darmi una mano?».

 «Non so se ho voglia, ma lo faccio lo stesso.»

 «Ma se ti mette in imbarazzo…»

 «Con i miei uomini non conosco imbarazzi», insiste, contraddicendosi platealmente. «E se quel ragazzino è finito in qualche brutto giro di droga, per loro sarà uno scherzo parlare con la Narcotici e metterti sulle sue tracce.»

 «Faresti questo per me?»

 «Non per te, dottor Pagano. Lo faccio per me. Per te, quando eri sotto i ferri, mi son già fatto venire la tachicardia. Telefonavo una volta alla tua ex moglie, un’altra all’avvocato Aliprandi e, per non disturbare tua figlia, ho finito per chiamare anche il tuo nuovo amico, quello scrittore che ci ha fatto diventare due star…»

 «Gian Claudio Vasco.»

 «Ecco, proprio lui», conclude. Poi si gratta la pelata abbronzata e aggiunge: «A proposito. Ho comperato il libro e l’ho letto d’un fiato. Non è niente male».

 «Anche a me è piaciuto.»

 «E ha fatto pure un chiasso infernale…»

 «A cosa ti riferisci?»

 «Che mi dici dell’incidente in cui è morto il tuo amico Almansi?»

 «Che devo dire?» mi schermisco.

 Pertusiello ? da quel volpone che è ? se ne accorge subito. «Ho letto i giornali. Non c’erano segni di frenata sull’asfalto.»

 «Hanno pensato a un colpo di sonno.»

 «Questo lo so», risponde. «Ma tu, che lo conoscevi bene, cosa pensi?»