FRAGILE VERITÀ
Caronte. Così hanno chiamato l’anticiclone tropicale che dai primi di luglio ha trasformato il Bel Paese in una propaggine d’Africa, vomitando sulle città il caldo più torrido degli ultimi centocinquant’anni. Altro che emergenza profughi, raccontata dai media come se l’emergenza fosse la nostra e non la loro. Questa è la vera calamità che attraversa il Sahara, scivola sulle acque del Mediterraneo e sbava trentacinque gradi umidi sull’asfalto e sui muri arroventati delle case.
Palazzo Tursi, sede del municipio, mi riceve con un cipiglio aggrottato, quasi ce l’avesse con me. Anche il vigile urbano che staziona sul portone mi accoglie accigliato. Eppure non è mia la colpa se il sole lo strina e il sudore stropiccia la camicia azzurra della sua elegante divisa. Salgo le scale e attraverso il cortile assolato, finché mi imbatto nello sguardo severo della statua di Giuseppe Mazzini. Anche il padre della patria sembra scrutarmi con l’intento di farmi sentire in colpa. Proprio lui che, al sicuro in Svizzera e in Inghilterra, non si è fatto scrupolo di mandare schiere di giovani a morire in nome d’una causa persa.
Imbocco la scalinata sulla destra e dal piano nobile mi arriva un mormorio sommesso, che esala profumo di contegno e contrizione. Mi avvio verso la sala di rappresentanza, quella dove si celebrano i matrimoni senza il prete. Oggi non si terranno matrimoni. La sala è occupata da un funerale. Qui il sindaco, che era suo amico, ha voluto allestire la camera ardente.
Di fronte all’ingresso trovo una fila di gente che aspetta il proprio turno per entrare. Altri sono sparsi lungo il loggiato e parlottano a bassa voce. Potrei dire di conoscerli tutti, uno per uno. L’intellighenzia che da quasi trent’anni governa la città, con la sua economia agonizzante, le sue istituzioni asmatiche e il morale a terra. Il serraglio del potere. Alcuni di loro sono persone perbene, altri hanno il pelo sullo stomaco, altri ancora non si vendono solo perché nessuno è disposto a comprarli. Sono venuti a salutarlo, forse a spendere qualche lacrima dopo avere speso qualche soldo per la corona e il necrologio. Qualcuno indossa il completo scuro d’ordinanza, giacca e cravatta, e la mia camicia di garza appiccicata sulla pelle mi suggerisce che, con questa temperatura, quello dev’essere una specie di supplizio, forse il tributo da pagare per rinculare il fantasma della morte.
Un capannello staziona sulla porta di uscita. Riconosco la moglie che stringe le mani e ricambia gli abbracci e le lacrime con l’impassibilità attonita di un automa, lo sguardo lontano che attraversa gli abiti e i corpi come fossero ectoplasmi evanescenti, soffusa da un sentimento che più che il dolore ricorda la futilità dell’universo. Sembra invecchiata di dieci anni, altri dieci anni scolpiti su quel volto già crepato da una ragnatela di rughe bruciate dal sole.
Il piccoletto in fondo alla fila mi vede e mi riconosce, solleva il sopracciglio e accenna un mezzo sorriso smorzato dalle convenienze. Così facendo mi ricorda che, in fondo, sono anch’io un esemplare di questa fauna, anche se ho sempre vantato come un blasone la mia estraneità al potere. Non basta declinare l’invito a una cena o rifiutare un incarico non troppo limpido per chiamarsi fuori dal branco.
Un nodo continua a chiudermi lo stomaco. È dolore, ma purtroppo è anche altro. L’esistenza fa strani scherzi quando decide di smettere di giocare. Con lui è successo così, anche se non avrei mai immaginato che finisse in questo modo. Speravo in qualcosa di meno definitivo, uno scioglimento che lasciasse aperta qualche porta. Ma quando c’è di mezzo la morte le vie del Signore non sono infinite, e quelle che restano praticabili ci portano altrove, lontano da dove avremmo voluto andare. Avevamo la stessa età e gli ho sempre augurato quello che speravo per me: un onesto patto con la vecchiaia – restare lucido e autosufficiente e in cambio vivere con discrezione, senza procurare fastidio a nessuno – e un compromesso accettabile con la previdenza sociale, scantonando una longevità eccessiva e senza scopo.
«Era un grand’uomo» è la prima frase che mi arriva all’orecchio. La seconda: «Se continua questo caldo mollo tutto e scappo a Sassello». E la terza, a chiudere il cerchio: «Entro questa sera dovranno portarlo via o comincerà a puzzare».
Incalzato dal tempo anche da morto, lui che ha sempre vissuto di corsa, braccato dalla furia dei suoi demoni. La calura ha fissato i termini della camera ardente nelle dodici ore, dopodiché la salma verrà cremata e i resti sparsi in mare, come ha sempre desiderato, al largo di punta Chiappa.
Il piccoletto si è avvicinato e stringendomi il braccio mi sussurra parole affettuose: «Sono contento di vederti, davvero», e il tono e gli occhi con cui guarda la mia perplessità dicono che è sincero. Ci conosciamo da molti anni, da quando insieme giocavamo alla rivoluzione e pensavamo alla vita come a una cambiale in bianco.
«Anch’io», replico porgendogli la mano sudata. «Tutti bene a casa?»
«I ragazzi vivono per conto proprio: il piccolo si è sposato l’anno scorso e il grande lavora in giro per il mondo. Siamo rimasti soli, io e mia moglie, e il silenzio della casa qualche volta ci lascia sgomenti. Che vuoi che ti dica? Si invecchia cercando di conservare un po’ di dignità. Ma poi succede che il tuo amico – il migliore di tutti, quello a cui guardavi come a un monumento di onestà e coraggio ? se ne va in questo modo assurdo… Oh, Cristo!»
La voce s’incrina e gli occhi si riempiono di lacrime. Il groppo torna a mordermi lo stomaco e a rimordermi la coscienza. Mi domando perché devo sentirmi responsabile. Cosa c’entro io con quanto è accaduto?
«La storia sgretola anche i monumenti», ribatto, cercando di alleggerire il discorso.
«Non dobbiamo permetterlo. Senza memoria non siamo più niente.»
«Anche l’oblio presenta i suoi vantaggi.»
Scrolla la testa, quasi indignato. «Spero che almeno gli dedicheranno una strada.»
«Forse avrebbe preferito un carruggio.»
Davanti a noi c’è Lucia Cavagnaro, fasciata in un abito scuro che odora di naftalina. È stata assessore alla cultura in qualche giunta comunale ormai dimenticata, in tempi in cui dagli incarichi politici si usciva con la testa alta e senza le ossa rotte. «Qualche mese fa l’ho sentito al telefono», bisbiglia. «Era stanco, sconfortato. Mi ha detto che non ne poteva più.»
Non lo dice chiaro, ma sicuramente lo pensa. E sono in tanti, tra coloro che sono venuti qui in questa torrida mattina di luglio, a pensarlo senza trovare il coraggio di dirlo. Lui voleva morire. Ha cercato la morte come una liberazione, l’ultima via di scampo da un’esistenza a cui era stato largito tutto fuorché la serenità e la speranza.
«Non guardava in faccia nessuno», obietta stizzito il piccoletto, «e tirava dritto per la sua strada. Lui non era il tipo da arrendersi così.»
«Infatti non si è arreso», interviene deciso un tipo anziano con la barba bianca, magro come un chiodo, che fregandosene dei cerimoniali è venuto a salutarlo in canottiera, calzoncini e scarpette da ciclista, e ora non è disposto ad accettare l’idea d’essersi sbagliato prestando fede a un uomo che ha gettato la spugna. «Il fatto è che quando si mette di mezzo il destino…»
«Il destino un cazzo!» sbotta sottovoce Lucia, rabbiosa. «Lo hanno usato come una foglia di fico, si sono serviti delle sue virtù per mascherare i loro vizi e i loro sporchi affari.»
Mi dico che ha ragione, ma forse le sfugge qualcosa. La memoria corre a una luminosa mattina di giugno dell’anno scorso. Una villetta liberty infrattata nel verde delle alture che sembrava la casa dei sette nani, e la penombra ovattata d’un salotto dove non era chiaro se si consumasse il naufragio d’un matrimonio o il riscatto d’un presunto omicida. Probabilmente entrambe le cose. E io ero là, testimone e attore d’una pantomima che dipanava insieme i fili del disvelamento e dell’ambiguità, scagionando un innocente dall’accusa d’essere il mandante di un omicidio lontano nel tempo – trent’anni prima una giovane di nome Adele Semeria era stata uccisa a colpi di pietra sulla strada di San Rocco di Camogli ? e titubante inquisitore d’altre colpe non dichiarate, impalpabili e sfuggenti come una sostanza liquida o gassosa. E tuttavia, dopo che quei sospetti sono diventati materia d’un romanzo distribuito nelle librerie, la loro natura eterea non mi ha impedito, in tutti questi mesi, di sentirne il peso sulla coscienza. Mi chiedo se non avessi ragione, dal momento che oggi mi trovo qui.
Ma davvero quanto è accaduto ha un nesso con il presente e con la sua morte?
«Il libro è andato a ruba», mi dice compiaciuto il piccoletto, neanche mi avesse letto nel pensiero.
«Meglio sarebbe stato non scriverlo, o pubblicarlo tra vent’anni.»
«E perché mai? È stato un successo, ed è anche ben scritto…»
Scrollo le spalle, a significare che per me il discorso è chiuso. Parlarne ora, sulla soglia della sua camera ardente, mi fa troppo male. Per Lucia Cavagnaro è arrivato il momento di entrare. Il mio amico la accompagna e mi fa cenno di seguirlo. Scuoto la testa e li lascio andare, invitando il ciclista a passare al mio posto. Lui non capisce e storce la bocca, forse lo offende l’idea d’essere trattato come un vecchio decrepito da un tizio poco più giovane di lui, e allora spiego: «Vada pure, vorrei restare un minuto da solo con lui».
Le mie parole lo rinfrancano, mi rivolge un sorriso pieno di comprensione e passa.
Finalmente arriva il mio turno e mi lasciano entrare. Un usciere chiude la porta alle mie spalle e mi ritrovo nella penombra davanti al cadavere del mio amico. I climatizzatori sparano a bomba aria fresca e la temperatura è quasi gradevole. Il corpo è disteso nella bara con le dita incrociate sul petto, vestito d’un gessato scuro, camicia bianca e cravatta regimental. Il caldo, il freddo, la fatica di vivere non sono più affar suo. Gli occhi sono stati chiusi e il volto è quello inespressivo dei morti, nel quale i vivi riescono a leggere i sentimenti e le intenzioni più inverosimili, quando invece questa è la fine di tutto, la condizione che ci consegna all’oblio di noi stessi e, con il tempo, dell’intero genere umano. Cessare di vivere significa estinguerci, non esserci più. Sopravvivere nel ricordo degli altri è qualcosa che riguarda loro e non noi. Anche quando la memoria distilla infelicità e colpa. Ora il groppo è diventato una fitta lancinante in mezzo al petto.
Ma chi potrà mai dire che cosa è accaduto davvero?
Osservo il volto con attenzione alla ricerca dei segni dell’incidente. Sarà la semioscurità o il fatto che i becchini hanno fatto un buon lavoro, ma non trovo traccia del colpo che lo ha ucciso. Era partito da Roma verso mezzanotte e intorno alle tre del mattino, sulla Firenze-Lucca poco prima di Massarosa, l’auto è filata diritta, si è schiantata contro il guardrail, è rimbalzata all’indietro e si è capottata più volte prima di fermare la sua corsa nel mezzo della carreggiata. Doveva andare forte come un pazzo perché, quando è arrivata la stradale, la bmw era ridotta a un groviglio di lamiere accartocciate. Secondo il medico legale è morto sul colpo. L’autopsia ha rilevato che non aveva alcol né sostanze psicotrope nel sangue. Il fatto che non ci fossero segni di frenata sull’asfalto ha indotto a pensare a un colpo di sonno. L’autostrada era deserta e nessun altro è rimasto coinvolto. Lui era fatto così, non riusciva a non preoccuparsi per gli altri, anche quando si addormentava senza accorgersene.
Mi domando se ho qualcosa da dirti per giustificare il fatto d’essere qui. Il nostro tempo, quello delle certezze granitiche e delle asserzioni definitive, è passato per sempre. Invecchiando abbiamo capito che la verità è un’essenza fragile, da maneggiare con cura. Per la sua natura così aleatoria e perché può diventare pericolosa per coloro che vi sono implicati. Io sono stato tra quelli, e per poco non ci ho lasciato la pelle. Tu invece non ce l’hai fatta, e ora sei lì, lungo disteso in una bara sontuosa e inutile come il completo firmato che riveste il tuo cadavere. Tra qualche istante uscirò da quella porta e abbraccerò Katia, la ragazza che mi hai soffiato quando era la più bella del liceo. Quella che poi è diventata tua moglie, una moglie così sconsolata quando eri in vita da non poter neppure vestire, ora che non ci sei più, i panni della vedova inconsolabile. E forse, se mai avrà trovato il coraggio e la forza di venire, mi imbatterò anche nella bionda Lou, la tua amante di sempre, la donna che mi sono illuso di soffiarti, sottovalutando il tuo carisma o, peggio, sopravvalutando il mio. E mi domando se troverò le parole giuste per dire all’una e all’altra che sono innocente e non porto alcuna responsabilità per quanto è successo. Se davvero il senatore Cesare Almansi ha scelto di farla finita, schiantandosi con la sua auto di lusso, è stato perché questo mondo non sa cosa farsene degli ideali delle anime belle e la sua battaglia ecologista era perduta in partenza. E perché, guardandosi allo specchio, ha visto l’infelicità che aveva seminato intorno a sé ? le continue fughe di Katia nei luoghi più impervi della terra e Lou costretta per tutta la vita a portarsi a letto amanti occasionali per mitigare il dolore di non essere l’unica. È stato perché il suo amico Gianni Coiro era un assassino e lui non aveva mai voluto ammetterlo, forse per risparmiarsi l’orrore di riconoscere che l’omicidio di Adele Semeria era nato da un tragico fraintendimento. Coiro era un servo pieno di invidia e livore e, una volta intuito che per Cesare la relazione con la ragazza era diventata asfissiante, l’aveva uccisa nella folle presunzione di liberarlo da lei e al tempo stesso vincolarlo a un legame di complicità con la propria abiezione. E il mio compagno di liceo era un uomo troppo onesto per sopportare tutto questo.
Mi accorgo che una lacrima sta scendendo lenta lungo lo zigomo, verso il mento rasato di fresco. Quanto basta per convincermi che è tempo di andare via. Addio, amico mio. Se è stato il libro di Gian Claudio Vasco lo specchio in cui hai riconosciuto il tuo destino ? il romanzo che racconta la mia ultima indagine, prima che un neurochirurgo cinese immigrato negli Stati Uniti mi strappasse alle grinfie della morte ? ti chiedo perdono. Non volevo, né potevo prevedere, che finisse così.
Ma la verità è così fragile, e chi può escludere che sia stato un colpo di sonno?