Capitolo 11

 

JACQUELINE

 

 La grande villa sorge dopo una curva, sopra il bivio per via Trento, dove la strada procede in salita e bus e automobili devono dare gas facendo rombare forte il motore. Ma nell’appartamento il silenzio è assoluto. Uno di quei silenzi claustrali, appena incrinato dal sottile ronzio dell’aria condizionata. Mi dico che il mondo, quello vero, è rumoroso e caotico come l’arena dell’Enterprise, le vie di Kobane assordate dal crepitare dei Kalašnikov, i quartieri di Gaza e i villaggi subsahariani devastati dal fuoco dei cannoni. O come le strade polverose di Cali.

 Alle undici del mattino Jacqueline Selman mi ha accolto con la trepidazione che si riserva a un salvatore di anime. Forse si illude che riuscirò nell’impresa impossibile di neutralizzare la rabbia di suo figlio, estirpando chirurgicamente il ricordo e le cicatrici di quel rumore che a lei appare presagio di catastrofe e sventura, mentre ai miei occhi è solo strenua lotta per non soccombere, il tenace e irriducibile legame degli esseri umani alla vita. Non riuscirò mai a convincerla che nel resto del mondo, al di là di queste finestre ermeticamente chiuse, sopravvivere significa coesistere con la miseria e con la morte.

 Si è truccata leggera e veste come una sedicenne ? polo Fred Perry, jeans e ballerine nere ? e occhieggia intimidita aspettando che le porti le ultime novità. Mi ha fatto accomodare nel salotto, che mi è diventato familiare come una seconda casa, e ha servito il caffè.

 «Dov’è Giovanni?» domando.

 «Sta dormendo», risponde a bassa voce, neanche fossimo in un bilocale dalle pareti in cartongesso, «in questi giorni deve avere riposato pochissimo.»

 «Anche a Cali», mi scappa detto.

 «Che cosa?»

 «Le baracche hanno il tetto di lamiera e alle prime ore del mattino il calore diventa insopportabile.»

 Ripiega il capo di lato e replica con un tono in cui sento più rassegnazione che rabbia: «Anche lei sta diventando insopportabile».

 «Perché le ricordo che Giovanni si chiamava Bernardo?»

 «Perché non fa che rimproverarci di averlo salvato da un destino orribile.»

 «Il destino marchia le nostre vite prima ancora che veniamo al mondo, architetto.»

 «Questa frase per me non significa nulla. Faccia uno sforzo e parli terra terra.»

 «Quello che siamo è frutto non solo delle nostre esperienze, ma anche di quelle delle generazioni che ci hanno preceduto.»

 «Questo significa che non abbiamo scampo?»

 «Diciamo che rompere la catena è difficile.»

 «Perciò Giovanni – o Bernardo, se preferisce – spaccerebbe coca? Per ripercorrere le orme dei suoi genitori?»

 «Non so se i suoi spacciavano cocaina, ma ho toccato con mano la sua preoccupazione per un individuo ripugnante come il pusher colombiano. Vorrà pur dire qualcosa, no?»

 «Penso che questa volta si sbagli, dottor Pagano. Giovanni non aveva nessuna buona ragione per rimpiangere i suoi genitori. La madre è morta quando aveva tre mesi e il padre non è certo stato quello che si definisce un buon genitore.»

 «Come fa a dirlo?»

 «Se vuole saperlo, abbiamo seguito il suo consiglio e ci siamo rivolti alla nostra amica che lavora nell’associazione che ci ha assistiti nell’adozione. Si tratta di una funzionaria che si reca spesso in Colombia. Ha contattato personalmente la direttrice dell’istituto di Cali, che conosce da vent’anni e con la quale è in stretta confidenza.» Socchiude gli occhi, fino a farne due sottili fessure da cui scocca uno sguardo malizioso, provocatorio. «Ma prima vorrei che rispondesse sinceramente a una domanda.»

 «Mi corre l’obbligo professionale di farlo», replico con il candore di un’educanda.

 «Ho l’impressione che lei interpreti quest’obbligo in un modo alquanto… soggettivo, dottor Pagano.»

 «Si spieghi.»

 «Qualche giorno fa mi ha telefonato chiedendomi se Giovanni avesse mai menzionato le FARC.»

 «E lei ha risposto d’essere sicura che non sappia nemmeno cosa siano.»

 «Era quello che pensavo. Ma non è questo il punto: quando le ho chiesto perché mi rivolgeva quella domanda, lei è stato evasivo e ha detto che si trattava solo di un’idea bizzarra che le era passata per la testa.»

 «È così.»

 «Non le credo. Io penso invece che stesse seguendo una pista precisa e che abbia deciso di non parlarne con noi.»

 «Un semplice sospetto», ribatto. «Niente di concreto.»

 «Se è così, la fama che circonda il suo fiuto è ben meritata.» Fa una pausa e assume un tono secco, quasi perentorio. «Le informazioni che sto per fornirle sono assolutamente riservate. La mia amica mi ha fatto giurare che non le avrei rivelate a nessuno. Qualora le autorità colombiane venissero a conoscenza che sono trapelate ne farebbero le spese la direttrice e la stessa associazione.»

 «Come le ho detto, sono vincolato al segreto professionale.»

 «Mi auguro che questo vincolo per lei valga davvero qualcosa. Il padre di Giovanni si chiamava José Sánchez Mau­rillo e, insieme alla moglie, era al servizio del cartello di Cali, la più potente organizzazione del narcotraffico colombiano degli anni Novanta. Dopo la nascita del figlio deve avere commesso uno sgarro, o forse ha deciso di uscire dal giro e rifarsi una vita. Il fatto è che i narcos ne sono venuti a conoscenza. Come può immaginare, quegli animali non perdonano e gliel’hanno fatta pagare. Makayla – così si chiamava sua moglie – è stata sequestrata, violentata e uccisa e il suo cadavere ritrovato in una discarica alla periferia di Cali. José è fuggito di notte con il figlio e si è rifugiato a Suárez, una città a sud di Cali, dove vivevano le sue sorelle. Una di queste ha tenuto il bambino, mentre l’uomo si è rifugiato nella selva, nel territorio controllato dalla guerriglia.»

 «Dunque è diventato un guerrigliero.»

 «Già», conferma con un sorriso sarcastico. «Scommetto che lei non ne sapeva niente.»

 «Se vuole, posso giurarglielo.»

 «Sembra anche», prosegue con noncuranza, «che sulla sua testa pesasse una taglia piuttosto cospicua. A quanto afferma la mia amica, dopo un periodo di calma, in cui governo e terroristi avevano aperto un tavolo di trattative, in quegli anni era ripresa una guerra su larga scala. Su di lui si raccontano storie che hanno dell’inverosimile e sembrano piuttosto leggende confezionate ad arte per nobilitarne la figura dopo la morte.»

 «Per esempio?»

 «La sorella, quella presso cui ha abbandonato Giovanni, avrebbe riferito alla direttrice dell’istituto che, prima di fuggire da Cali, José Sánchez aveva ucciso due uomini sospettati d’essere gli stupratori che avevano assassinato sua moglie.»

 «Perché nobilitarne la figura dopo la morte?»

 «Si vocifera di lui come di un eroe rivoluzionario. La verità è che ha mollato il figlio a una famiglia che aveva già sei bambini da sfamare e da allora non si è più preoccupato di lui. Il piccolo Bernardo è stato sorpreso dalla polizia mentre rovistava alla ricerca di cibo in una discarica alla periferia di Suárez. Aveva tre anni, capisce? Lo hanno affidato a una famiglia che lo ha tenuto per circa un anno. In Colombia funziona così, il governo paga chi si candida per tenere i bambini abbandonati e quelli che si offrono spesso lo fanno per soldi, non certo per amore. Durante un controllo, gli assistenti sociali si sono accorti che il bambino – che allora aveva quasi cinque anni ? portava pacchi sospetti in un locale a due isolati da casa. Hanno avvertito la polizia e hanno scoperto che si trattava di droga. La coppia affidataria è stata arrestata e il piccolo inserito in un’altra famiglia, dalla quale è scappato dopo qualche mese, ritornando dai parenti del padre. Questi non potevano tenerlo con sé e lo hanno riconsegnato alle autorità. In pochi anni ha cambiato diverse famiglie, da cui scappava sempre alla ricerca di suo padre. Una volta lo hanno trovato sulle rive del Cauca, mezzo morto di fame e di freddo. Finalmente, quando aveva sette anni, è stato inserito nell’istituto dove lo abbiamo conosciuto.»

 Mi lancia un’occhiata che trasuda indignazione, quindi articola una smorfia di disgusto e conclude: «Questa è la storia di Bernardo, dottor Pagano. E questo sarebbe stato il suo destino».

 «Che ne è stato del padre?»

 «È morto alla fine del 2011 nella città di Suárez, dopo essere stato catturato dall’esercito. Lo hanno giustiziato insieme ad altri terroristi delle FARC. Ha fatto la fine che meritava, non crede?»

 «Non saprei», rispondo. «Ma le consiglio di non pronunciare sentenze come questa davanti a suo figlio.»

 «Mi ha preso per una stupida? Prima di diventare genitori adottivi», spiega con un certo sussiego, «abbiamo frequentato un gruppo dove gli psicologi ci hanno ripetuto mille volte che i genitori naturali, per quanto sciagurati, non vanno mai denigrati davanti ai figli.»

 «La preferisco quando racconta delle vicissitudini del piccolo Bernardo.»

 «Prego?»

 Si è bloccata di colpo, come se i suoi ingranaggi mentali si fossero inceppati. Seduta sulla solita poltrona – dev’essere la sua preferita – la vedo allacciare le dita e stringerle nervosamente, i gomiti appoggiati sulle gambe, mentre lo sguardo comincia a vagare per ogni angolo della stanza.

 «Sì, Jacqueline: è più vera», insisto. «Quando spalanca le finestre e lascia che la calura polverosa di Cali entri qui dentro, riesce a incontrare il dolore di suo figlio.»

 «Non capisco…»

 «Non ce la farete mai», dico in uno slancio che mi spinge ad afferrarle le mani e cercare i suoi occhi come se volessi forzare uno scrigno piombato. «Non ne verrete mai a capo se non lascerete che Bernardo circoli libero in questa casa. Per Giovanni è come un fratello rinnegato che ora si vendica di tutti i privilegi che gli avete negato. Quel bambino che rovistava nella spazzatura non sarà mai cancellato dal cuore di vostro figlio!»

 «Ma noi non abbiamo fatto nulla per cancellarlo…»

 «Tanto per cominciare gli avete cambiato il nome.»

 «Non potevamo lasciargli quel nome!» replica, alzando la voce e staccandosi bruscamente dalla mia stretta.

 «E perché? L’ha portato per otto anni. Era il suo nome, quello in cui riconosceva sé stesso…»

 «Era lo stesso nome del fratello di mio marito.»

 «E allora?»

 Prima di rispondere trae un profondo respiro. Poi vedo il suo petto implodere come se si fosse improvvisamente svuotato. «A ventun anni», comincia parlando a fatica, «durante un’escursione sul Cervino, si è lanciato nel vuoto. Soffriva di gravi crisi depressive. La famiglia coprì la cosa facendola passare per un incidente, ma fu un suicidio. Allora Giacomo aveva undici anni e frequentava la prima media. Lui e suo fratello erano molto legati. Bernardo era un ragazzo chiuso, non aveva amici e, appena stava meglio, dedicava molto tempo a suo fratello. I genitori erano totalmente presi dal lavoro e lui se lo portava con sé: al mare, in montagna, una volta sono andati insieme, da soli, in crociera con la barca a vela spingendosi fino a Malta e Cipro. È stato lui a insegnargli a nuotare, sciare e pilotare la barca.»

 «Mi dispiace, davvero», farfuglio. «Non avrei mai immaginato…»

 Una storia agghiacciante, che mi porta a pensare quanto il destino sia sadico quando decide di giocare con le nostre esistenze. Cazzo, di tanti bambini adottabili, con infiniti nomi possibili, a questa coppia già di suo così ferita e scombinata proprio un Bernardo doveva capitare! Vorrei domandargli perché non hanno rifiutato, perché da subito non hanno raccontato questa storia tremenda, ma mi trattengo. Sarebbe come spargere sale su una ferita che non deve essersi mai chiusa.

 «Giovanni lo sa?» domando.

 «No, Giacomo non se l’è mai sentita di raccontargli la verità. Gli ha detto che c’è stato uno zio che si chiamava Bernardo, morto in un incidente in montagna, ma non ha mai parlato del suicidio. Aveva paura di fornire al bambino un modello negativo…»

 «Invece sono convinto che parlarne farebbe bene a tutti e due.»

 Segue un breve silenzio, in cui sembra soffermarsi a riflettere sulle mie parole. Quindi, tornando su ciò che le sta più a cuore, riprende: «Mi creda, dottor Pagano, noi non abbiamo fatto nulla per cancellare le origini di nostro figlio. Se mai è stato lui che ha voluto dimenticare. Dopo due mesi ha smesso di parlare spagnolo: si esprimeva perfettamente in italiano e sembrava avere scordato la sua lingua madre. Quando alle medie gli abbiamo proposto di sceglierla come lingua straniera, si è rifiutato e ha scelto l’inglese».

 «Credo sia un fenomeno tipico di tutte le adozioni, ma si è chiesta cosa significhi?»

 «Che altro, se non che voleva lasciarsi tutto alle spalle?»

 «Certo», concordo, «il sogno di un’esistenza nuova, il desiderio di archiviare per sempre la vita precedente. Ma forse c’era dell’altro.»

 «Cioè?»

 «Ora che l’ho conosciuto, so quanto Giovanni sia intelligente e capace di cogliere quello che gli altri si aspettano da lui.»

 «Vuol dire che noi lo volevamo diverso?» domanda mordendosi il labbro inferiore.

 «Le sembra una colpa?»

 Torna a intrecciare le dita e stringe così forte che le nocche diventano bianche. «Appena arrivato in Italia, mangiava usando le mani…»

 «Immagino come possa essere un bambino che a tre anni rovista in una discarica e a cinque porta pacchi di cocaina in giro per la città.»

 «Non conosceva freni inibitori», aggiunge seguendo il filo dei suoi pensieri. Le guance sono diventate di porpora e distoglie lo sguardo. «Fino ai tredici anni sono riuscita a contenerlo, ma dopo…»

 «Si riferisce agli impulsi sessuali?»

 «È accaduto all’improvviso», dice portando la mano alla bocca. «O forse sono stata io ad accorgermi di colpo che era diventato un uomo. Quando l’abbiamo conosciuto era malnutrito e le ossa ne avevano sofferto. I medici ci hanno consigliato di fargli praticare molto sport, specialmente nuoto, e lui ne era entusiasta. La scuola non gli è mai piaciuta, ma la piscina era la sua passione. Nuoto e pallanuoto: due, tre ore in vasca ogni giorno per quasi sei anni. Ha visto il suo fisico?»

 «L’ho visto.»

 «Non lo trova… perfetto?»

 «Invidiabile.»

 «Ricorda la statua d’un atleta greco…»

 O d’una divinità india, penso, ma non lo dico. Torno invece sulle sue angosce. «Da un certo punto in poi è diventato… conturbante?»

 «Una domenica mattina – eravamo soli a casa, non c’era nemmeno la domestica ? ha spalancato la porta della mia camera senza bussare. Mi stavo vestendo. Mi ha guardato con due occhi… Ho avuto paura, dottor Pagano.»

 «Tuttavia con lei è sempre stato affettuoso e gentile.»

 «Sì, ma ho dovuto allontanarmi da lui. Non mi ha permesso di continuare a fargli da madre. E mio marito non ha mai voluto capire…»

 «Per questo ha cominciato a trascorrere le sue giornate al lavoro?»

 «Ma no, che c’entra?» ribatte piccata. «Giacomo non lo ammetterà mai, ma senza le ristrutturazioni d’interni la Selman & Figlio a quest’ora sarebbe in bancarotta. E provi a indovinare chi si occupa di questo settore.»

 «Che significa allora “non fargli più da madre”?»

 «Nessuna intimità, nessuno slancio spontaneo. Abbracci formali e una prudente distanza, da entrambe le parti.»

 «Dunque, quando l’ha sorpresa in camera, si è spaventato anche lui.»

 Risponde con un tono piatto, quasi l’emozione si fosse rattrappita e avvertisse l’urgenza di proteggersi. «Si è chiuso in bagno e c’è stato mezz’ora. Non mi chieda altro, la prego.»

 «Però mi ha detto che viene a trovarla in ufficio, uscite a pranzo insieme.»

 «E allora?»

 «Non lo fa per i soldi, non le ha mai chiesto niente.»

 «È vero, quando viene è contento di vedermi. E non le dico quanto lo sono anch’io… Quando ci incontriamo fuori diventa un’altra persona. Forse perché in mezzo agli altri ci sentiamo al sicuro.»

 Fuori diventa un’altra persona. La salvezza è là, Jacqueline, nel mondo là fuori!

 Una domanda mi pende dalla lingua e decido di lasciarla uscire: «Ne ha parlato con suo marito?».

 Risponde secca, senza esitare. «No.»

 «Perché?»

 «E me lo domanda?» scatta con un gesto di stizza, la mano che fende l’aria. «Eppure l’ha conosciuto, avrà capito com’è fatto. Gli manca la spina dorsale. Si immagina come avrebbe reagito se gli avessi confessato che nostro figlio si eccita guardandomi nuda?»

 «Me lo dica lei.»

 «Avrebbe alimentato la sua idea che Giovanni è matto, e questo lo avrebbe convinto a chiuderlo in una clinica per malattie mentali, o in una comunità psichiatrica.»

 «Giacomo preferisce un figlio matto a un delinquente?»

 «Al contrario. Dopo la tragedia di suo fratello, è terrorizzato da quello che non capisce. E la follia è difficile da capire. Con i delinquenti invece la trafila è lineare: denuncia, processo, carcere.»

 «Se lo dice lei…» borbotto.

 «Per favore», sbuffa spazientita, «mi risparmi le sue concioni filosofiche!»

 «Quando ha saputo che Giovanni spaccia, Giacomo non mi è sembrato affatto sollevato.»

 «Il buon nome dei Selman…»

 Questa volta sono io a tirare un bel respiro prima di cominciare a parlare. «Posso dirle cosa penso, Jacqueline?»

 «Lo farà comunque», replica scuotendo le spalle.

 «In questa vicenda lei sta sbagliando tutto.»

 Aggrotta le sopracciglia e le labbra s’increspano in un sorriso di sfida. «La ascolto: mi illumini.»

 «È vero, con Giovanni suo marito si comporta come se fosse affetto da una specie di strabismo: lo tratta come un criminale o uno psicotico, facendogli pesare il fatto di averlo deluso e facendolo sentire un verme, e poi gliele dà tutte vinte. Ma di una cosa sono assolutamente certo: gli vuole molto bene e soffre come un cane per il fatto di non sentirsi ricambiato.»

 «Che può farsene Giovanni d’un padre che esprime l’amore in questo modo?»

 «Non lo so, ma vorrei capire perché lei si ostina a non riconoscerlo.»

 «Che cosa?» chiede alzando appena la voce. «Cosa dovrei riconoscere?»

 «Quanto Giacomo ama suo figlio, e quanto il fatto di non riuscire a esprimergli questo sentimento lo renda disperato e impotente.»

 «Se è per questo, non è l’unico…»

 «Vero, ma con una differenza: non so perché ma, diversamente da suo marito, lei presume di farcela da sola.»

 Il sorriso è evaporato e ora mi guarda con l’aria stralunata. «Da sola?» ripete.

 «Sì, Jacqueline: è inutile che si affanni a consultare esperti e assumere cani da guardia. Ci sono compiti che non possiamo delegare a nessuno, e lei e Giacomo siete la sua famiglia.»

 «E allora?» ribatte facendosi rossa in volto e stringendo i pugni. «Cosa intende dire?»

 «Senza suo marito non riuscirà mai ad aiutare Giovanni.»