Capitolo diciassettesimo

«MUSSOLINI HA SEMPRE RAGIONE»

 

L'ultimo camion della Flak era scomparso da un pezzo dietro il costone roccioso della prima curva della strada per Dongo. Anche le auto del seguito di Mussolini erano nel frattempo sparite: fuggiti o arrestati i loro occupanti, stavano ora sfrecciando e strombazzando lungo le strade del lago cariche di partigiani eccitati e trionfanti.

Leggermente inclinata sulla sinistra, quasi a sfiorare il fianco della montagna, dopo che l'autista era stato costretto a spingersi sulla cunetta per far passare i camion tedeschi, l'autoblinda di Pavolini si ergeva solitaria sullo sfondo grigio del lago.

Per i suoi diciotto occupanti, quegli ultimi minuti erano trascorsi assai lentamente. Pavolini si era ripreso dall'avvilimento seguito alla scena penosa della fuga del Duce. «Comunque sia» aveva commentato «ora è al sicuro.» Poi aveva azzardato qualche progetto con il suo improvvisato «stato maggiore»: Vito Casalinuovo, Idreno Utimpergher e il federale di Como, Paolo Porta. Francesco Barracu, chiuso in se stesso, sedeva in disparte.

Ma c'era poco da far progetti. La situazione era quella che era. «L'importante è toglierci da qui» aveva concluso Pavolini. «Torniamo indietro, poi si vedrà.» Aveva riacquistato il suo sangue freddo. Pareva non turbarlo neppure la consapevolezza di essere stato identificato dal comandante Pedro. La speranza, come si sa, è sempre l'ultima a morire. Alle 16.15 precise, Pavolini ordina all'autista Merano Chiavacci di avviare il motore. Il rombo improvviso ravviva l'attenzione dei partigiani appostati lì intorno. Tutti gli occhi sono ora puntati sul pesante veicolo che, sussultando, cerca di superare la cunetta. Gli indici sfiorano i grilletti: è uno di quei momenti in cui le armi possono mettersi a sparare da sole.

Finalmente, un violento colpo di acceleratore scaraventa l'autoblinda al centro della strada. E' questione di un attimo: la pronta frenata di Chiavacci non riesce a bloccare il pesante mezzo che, spinto dall'abbrivio, avanza minaccioso per un paio di metri in direzione dello sbarramento.

«I fascisti attaccano!» grida qualcuno. E parte subito la prima raffica. Segue un lancio di bombe a mano, mentre, dall'interno dell'autoblinda, convinti anch'essi di essere stati attaccati a tradimento, i fascisti rispondono al fuoco.

Quando, meno di un minuto dopo, la sparatoria si placa, il veicolo è messo di traverso sulla strada, con il fondo addossato al muretto del lungolago. La ruota anteriore destra, squarciata da una bomba, ha impedito all'autista di compiere la retromarcia. A bordo, mortalmente feriti, Taiti, il Nonno, e il brigadiere Gasperini, l'autista di Claretta, stanno agonizzando.

Intanto i partigiani hanno ripreso a sparare contro il grosso bersaglio ormai paralizzato. I proiettili si schiantano contro le pesanti lamiere con un suono sinistro. Attorno scoppiano altre bombe a mano.

«Ci fanno fare la morte del topo» borbottano alcuni militi. «Arrendiamoci» propone Barracu. «Non ci resta altro da fare.» Pavolini neppure l'ascolta. «Dobbiamo morire da fascisti, non da vigliacchi!» grida. «Usciamo!» Quindi, dopo avere inserito un nuovo caricatore nel suo piccolo mitra Balilla, apre il portellone e balza in mezzo alle rocce del lungolago sventagliando raffiche in direzione dei partigiani. Il primo a seguirlo è il suo attendente, Enzino De Benedictis, poi saltano Paolo Porta, Casalinuovo e alcuni militi. Gli altri si arrenderanno dopo aver sventolato un panno bianco attraverso una feritoia.

Balzando fra le rocce come animali braccati, i fuggiaschi si disperdono lungo la riva scoscesa, ma nel giro di pochi minuti vengono catturati a uno a uno. Tranne Pavolini. Benché imbarazzato dall'impermeabile che ancora indossa, il comandante delle Brigate nere non intende arrendersi. Continua a sparare contro gli inseguitori, poi si getta in acqua e raggiunge, tenendo l'arma levata in alto, un gruppo di scogli che affiora dal lago. Da quella specie di fortilizio, riprende a sparare, malgrado sia stato impallinato da un colpo di fucile da caccia. Perde sangue da una ferita alla palpebra destra...

«Passano i proiettili di fucile presso l'orecchio col suono del filo elettrico colpito da fionda» aveva scritto cinque anni prima in uno dei suoi racconti più belli: "Leopardo a Dil Dil". «Passano, "wup, wup", le pallottole vicino alla testa. Una cateratta calda, un bagliore rosso luminoso empie la vista di un occhio. Bisogna cambiare il caricatore...» Ora sta vivendo una scena quasi analoga, passata dalla finzione alla realtà. E bisogna riconoscere che l'affronta come pochi, con dignità e coraggio.

Per catturarlo, i partigiani devono attendere il calare della sera. Lo vanno a prendere con una barca e lo trovano, con l'acqua alla cintola, semiassiderato.

Trasportato a Dongo, sottratto a stento al linciaggio, Pavolini viene condotto nel municipio trasformato in prigione provvisoria e affidato alle cure del farmacista Franco Mancini. Le sue ferite sono superficiali, ma non si è ancora ripreso dalla lunga immersione nelle acque gelide. Per curarlo, lo riempiono di cognac. Poco dopo si addormenta, devotamente vegliato da Utimpergher, che continua a chiamarlo «eccellenza».

Distribuiti nelle stanze vicine e attentamente vegliati dai partigiani, ci sono gli altri prigionieri: Barracu, Bombacci, il capitano dell'aeronautica militare Pietro Calistri, che si era aggregato lungo la strada alla colonna, il giornalista Daquanno, Claretta Petacci e altri. Per alcune ore, Mussolini e Pavolini vengono a trovarsi in due stanze attigue, ma non si vedono e non si vedranno mai più. Il segretario del partito, d'altra parte, ignora ancora la cattura del Duce. Ne sarà informato più tardi, da Casalinuovo, al risveglio dal suo sonno profondo. Pare non abbia fatto commenti.

Durante la notte, Pavolini e gli altri sono svegliati di soprassalto. Caricati in macchina, vengono trasferiti per motivi di sicurezza nella caserma della guardia di finanza di Germasino. Qui trovano Paolo Porta e apprendono che in quella stessa stanza, poche ore prima, hanno brevemente sostato anche Mussolini e Claretta, terzultima tappa del loro viaggio estremo.

Pavolini si riaddormenta quasi subito. Effetti del molto cognac bevuto. Si risveglia quando il sole è già alto. E' tranquillo, quasi sereno.

Certo non ignora la sorte che l'aspetta, ma sembra essersi tolto di dosso un grosso peso. Verso mezzogiorno, il comandante Pedro torna a prenderlo per ricondurlo a Dongo. Lo fa salire su una Fiat 2800 insieme a Barracu, Porta e Casalinuovo. Gli altri prendono posto in diverse vetture.

Splende il sole. Scendendo verso Dongo, Pavolini, completamente rimesso dallo shock, è insolitamente espansivo. Ha persino voglia di fare dello spirito. Ammirando lo stupendo panorama, dice: «Ma guardate che bei posti. Che bellezza, il lago, visto da quassù. Peccato che la nostra situazione non ci consenta di godercelo».

A un certo punto, Casalinuovo e Utimpergher si mettono a recriminare: «Chissà perché siamo finiti qui» si chiede Casalinuovo. «Ma chi ha suggerito al Duce di fare questa strada?»

«Se si passava dall'altra parte del lago» ribatte Utimpergher «forse sarebbe andata meglio. Che errore...» Con tono scherzoso, Pavolini li interrompe: «Ma che errore ed errore! Avete forse dimenticato che Mussolini ha sempre ragione?».

A Dongo, i prigionieri vengono condotti al piano superiore del municipio e rinchiusi nella Sala d'oro. Sono quindici in tutto: Alessandro Pavolini, Vito Casalinuovo, Idreno Utimpergher, Ferdinando Mezzasoma, Paolo Zerbino, Augusto Liverani, Ruggero Romano, Ernesto Daquanno, Paolo Porta, il professor Goffredo Coppola, Francesco Barracu, Nicola Bombacci, Luigi Gatti, uno squadrista di cui non si sa nulla di nome Mario Nudi e l'ufficiale dell'aeronautica militare Pietro Calistri, che aveva avuto la malaugurata idea di chiedere un passaggio alla colonna in fuga.

Di costoro, soltanto Pavolini, Porta e Zerbino sono indicati come «traditori» - e quindi passibili di immediata fucilazione - secondo l'ordinanza del C.L.N. del 12 aprile 1945. Ma al momento opportuno, il colonnello Valerio e i suoi uomini non guarderanno tanto per il sottile...

Il pomeriggio trascorre tranquillo. I capi fascisti conversano fra di loro, analizzano le rispettive responsabilità, bevono e fumano molto.

Alle 17.20 c'è un improvviso movimento nell'atrio del municipio. Da un'auto è sceso il ragionier Walter Audisio, alias colonnello Valerio, reduce con gli altri dalla fucilazione di Benito Mussolini e Claretta Petacci a Giulino di Mezzegra.

«Giustizia è fatta» annuncia agitando il mitra servito alla trista bisogna. A titolo di curiosità, diremo che si tratta del MAS calibro 7.65 che i partigiani hanno tolto la sera prima a Idreno Utimpergher.

Pochi minuti dopo, Valerio entra nella Sala d'oro e legge rapidamente ai «fucilandi», come li chiama lui, la sentenza che li condanna a morte. I prigionieri l'ascoltano esterrefatti, ma reagiscono dignitosamente. E con dignità si comporteranno fino alla fine.

Uscito dalla stanza, Valerio stabilisce con precisione pignolesca le modalità dell'esecuzione e affida al partigiano Riccardo il comando del plotone, formato interamente da uomini che si è portato appresso da Milano.

Alle 17.30 i condannati, in fila indiana, escono dal municipio e si dirigono nel luogo fissato per l'esecuzione. In testa avanza Pavolini. Ha la barba lunga e nera. L'impermeabile abbottonato male gli forma una grossa piega sul petto. Cammina zoppicando.

Affiancati ciascuno da un partigiano, i morituri attraversano il paese e vengono fatti schierare davanti alla ringhiera del lungolago. La piazza è gremita di folla, altra gente osserva dalle finestre e dietro i vetri dei bar.

Quando compare Valerio per assistere alla consegna dei condannati al suo plotone d'esecuzione da parte dei partigiani di Pedro, il capitano Calistri si stacca dal gruppo e lo affronta.

«Dev'esserci un errore» dice. «Io sono un soldato. Con questa gente non c'entro.»

«Torna immediatamente al tuo posto» gli urla Valerio, che lo ha scambiato per il pilota personale del Duce. L'altro obbedisce: «Quand'è così, fate un po' come vi pare» brontola. E si accende una sigaretta. Morirà fumando.

Ancora non è finita. Accompagnato da alcuni partigiani, arriva Marcello Petacci, fratello di Claretta. Arrestato la sera prima, aveva tentato di spacciarsi per un diplomatico spagnolo. Smascherato da Valerio, che l'aveva interrogato in quella che avrebbe dovuto essere la sua lingua e che lui non conosceva, era stato scambiato per Vittorio Mussolini e condannato a morte. Appena si rende conto di cosa l'aspetta, il prigioniero scoppia in singhiozzi. Poi si rivolge supplicando ai condannati: «Vogliono uccidermi perché mi credono Vittorio Mussolini. Diteglielo voi chi sono». «Quello è il fratello della Petacci» si grida. «E' un traditore. Non lo vogliamo con noi.» Forse vogliono salvarlo, forse hanno motivi di risentimento verso questo personaggio che si è arricchito sfruttando la sua posizione di «cognato» del Duce. Valerio, comunque, taglia corto. «Finiamola» grida. «Mettetelo con gli altri.» Il colonnello deve avere molta fretta di rientrare a Milano: non fa che controllare l'orologio. Ma le proteste dei fascisti non si placano. Allora interviene Pedro, che dice a Valerio: «Questo, almeno, puoi concederlo. Fucilalo da un'altra parte. L'ultimo desiderio dei condannati si rispetta sempre».

Valerio si convince, e Marcello Petacci viene condotto via. Più tardi cercherà disperatamente di fuggire gettandosi nel lago e sarà crivellato di colpi sotto gli occhi della moglie, che assiste alla scena dalla finestra dell'albergo.

La fila dei condannati si ricompone. Gli uomini del plotone controllano le armi. Ma a questo punto sopraggiunge padre Accursio del vicino santuario della Madonna delle Lagrime. Il frate chiede a Valerio il permesso di confessare i morituri, mentre alcuni di questi già lo pregano di avvicinarsi. Valerio lo ferma. «Esigenze di carattere militare» gli dice «mi costringono a procedere in fretta. Vi concedo tre minuti.» Da oltre lo sbarramento Accursio impartisce allora un'assoluzione collettiva.

La lunga fila dei condannati è ora muta davanti al plotone d'esecuzione. Nessuno dà segni di debolezza. Pavolini, fra Zerbino e Casalinuovo, si «erge fiero e irrigidito», come racconta un testimone oculare. A un certo momento trova anche la forza per ordinare l'«attenti!» ai suoi compagni. La «bella morte» sta per arrivare.

Quando Valerio grida «dietro-front!», tutti obbediscono prontamente, ma Barracu subito ci ripensa e si volta. Battendosi un pugno sul petto e mostrando la propria decorazione, urla: «Sono una medaglia d'oro! E' qui che dovete spararmi. Ne ho il diritto». Lo fanno voltare con uno spintone.

Poi Valerio si ricorda che deve essere il capo del plotone a dare gli ordini, e allora, meticoloso com'è, costringe i condannati a voltarsi nuovamente verso le canne dei fucili. A questo punto, nell'immenso silenzio che è caduto sulla piazza, si ode la voce di Riccardo.

«Giustiziandi, attenti! Dietro-front!»

«Plotone di esecuzione, attenti!»

«Plotone di esecuzione, caricate!»

«Puntate!» Pavolini grida: «Viva l'Italia». Mezzasoma e altri ripetono il suo grido. Nicola Bombacci, invece, grida: «Viva il socialismo». Quasi contemporaneamente, la voce di Riccardo tuona: «Fuoco!». E finalmente i mitra cominciano a sgranare le loro raffiche mortali.

Racconta un testimone oculare: «I corpi s'abbattono come un sol uomo, poi, da quel groviglio di membra, si vede qualche capo che si erge, qualche braccio che annaspa, qualche petto che sussulta, qualche gamba che si stira...».

All'improvviso, accade un fatto terrificante: uno dei colpiti, avvolto in un impermeabile insanguinato (è Pavolini?), lentamente si rialza e volge in giro lo sguardo trasognato, protendendo in avanti il braccio destro, con un gesto che potrebbe essere un saluto romano o anche un atto d'accusa. Un'altra scarica di mitra lo abbatte. Pochi istanti dopo riecheggiano sinistri i quindici colpi di grazia.

Trasportato con gli altri cadaveri a Milano, anche quello di Alessandro Pavolini rimase esposto in piazzale Loreto: macabra conclusione di una sanguinosa guerra civile di cui era stato uno dei principali responsabili. Successivamente fu sepolto a Musocco, nel campo 10, dove sono tumulati i caduti della R.S.I. e dove la sua famiglia ha voluto che rimanesse. La sua tomba è situata accanto a quella di Osvaldo Valenti e di Luisa Ferida.

«Che cosa importa» aveva scritto Pavolini in "Scomparsa d'Angela" «se un filo di questa tragedia m'è passato per le mani un momento in forma d'un guinzaglio? A un tratto mi sento di nuovo estraneo, estraneo fino alla paura...»