Capitolo quarto
NASCITA DI UN'AMICIZIA
Se Orio Vergani, inviato principe del «Corriere della Sera» e fedele amico di Galeazzo Ciano, non avesse avuto una «paura fottuta» dell'aereo, la vita di Alessandro Pavolini avrebbe avuto uno sbocco diverso. Probabilmente meno tragico.
Ma Vergani aveva paura di volare, e Ciano, che intendeva portarselo appresso, in Abissinia, come cantore delle sue gesta aviatorie, dovette cercarsi un altro giornalista personale. Scelse Pavolini che, oltre a essere in quel momento una delle penne più brillanti del «Corriere», era anche in possesso del brevetto di pilota. E fu una scelta che influì in modo decisivo e drammatico nella vita di entrambi.
La fortuna politica di Pavolini coincise infatti con il nascere della sua amicizia con Galeazzo Ciano. Prima di allora era considerato un buon quadro intermedio, ma senza grinta e attitudine al comando. Lui stesso, d'altronde, non aveva ancora deciso del suo futuro. Indubbiamente, era molto ambizioso, ma anche timido, svagato e incerto sulla sua scelta di vita. La «poesia e l'azione», come lui diceva - ossia la letteratura e la politica - restavano le sue principali aspirazioni, ma ancora propendeva più in direzione di quella che di questa. Ciano deciderà per lui. Se lo coverà con affetto e se lo «costruirà» su misura convinto di averne fatto un uomo totalmente «suo» («Buzzino mi deve molto. Senza di me sarebbe rimasto un giornalista. Certo mi aiuterà» confiderà ai suoi carcerieri alla vigilia della condanna a morte).
Tutta colpa di Orio Vergani, dunque? Naturalmente sappiamo tutti che «con i se e con i ma la storia non si fa». Resta tuttavia da chiedersi se non esista una regola che decide del destino degli uomini.
Su questa «regola» arcana si interrogò sovente lo stesso Pavolini. Ecco, per esempio, cosa scriveva in quei giorni recensendo, fra i primi in Italia, il noto libro di Thornton Wilder "Il ponte di San Luis Rey":
"E' la storia di un ponte in una vallata del Messico. Un giorno esso crolla sotto gli occhi di un frate. Muoiono alcuni viandanti: alcuni, sulle centinaia di migliaia che transitarono sul ponte. Perché quelli e non altri? C'è una regola? Il frate la cerca, informandosi sulla vita degli scomparsi, ricostruendone i casi. E sì, vita per vita si direbbe che una regola c'è..."
Qualche tempo dopo, Pavolini conobbe Wilder a Parigi: «C'è dunque una regola?» gli chiese con quel suo sorriso sottile. Wilder fu inafferrabile, come il suo libro. «C'è dunque una regola?» potrebbe essersi ancora chiesto Pavolini scrutando i volti tesi dei suoi diciassette compagni asserragliati con lui dentro l'autoblinda ferma sulla strada per Dongo in quel tardo aprile del '45. Chissà, forse, frugando esistenza per esistenza...
Ma torniamo al corso della nostra storia, che non può fare concessioni alla fantasia. Sul finire del 1934, Alessandro Pavolini è stato eletto deputato alla Camera dei Fasci e delle Corporazioni. Trasferitosi a Roma con la moglie e i figli (Ferruccio, nato nel 1930, e Maria Vittoria, venuta alla luce l'anno dopo: il terzo figlio, Vanni, nascerà nel 1938), l'ex federale fiorentino, preceduto dalla fama di raffinato intellettuale, di giovane «bene» e di fascista moderato, entra di diritto nel mondo dorato della capitale. I primi salotti frequentati dai Pavolini sono infatti quello della principessa Marinetta Ruffo e quello del principe Marcantonio Colonna, la cui moglie, Isabella, è molto amica di Galeazzo Ciano.
Frattanto, il neodeputato ha ottenuto un contratto da inviato speciale del «Corriere della Sera», il cui direttore, Aldo Borelli, lo stima moltissimo. Anche la scelta di questo giornale prestigioso è importante per capire il personaggio. Pavolini snobba apertamente certi giornali troppo appiattiti sulla linea del partito. Lascia «Il Popolo d'Italia» ai mestieranti del regime e ai carrieristi più sfacciati. Lui vuole sfondare nella palestra più ambita, dove scrivono i migliori giornalisti del momento. E', la sua, una continua ricerca del meglio.
Come inviato del «Corriere», compie un lungo viaggio nei paesi scandinavi, da dove manda al giornale notevoli corrispondenze che poi raccoglierà nel volume "Nuovo Baltico", pubblicato da Vallecchi. Nei suoi scritti, considerato lo stile del tempo, non si avvertono eccessive piaggerie politiche. Racconta quello che vede e la sua narrazione è sorretta da una vivace curiosità per i costumi di quei paesi allora assai poco noti. Un giorno, per esempio, il giornalista italiano visita una colonia di nudisti sulla spiaggia estone di Tallin: «Essi» racconta «non facevano del nudismo, semplicemente stavano nudi». E riferisce di alcune
"vecchie signore molto rigide, vestite di scuro, con una tazzina di tè fra i polpastrelli, che scuotevano la testa e brontolavano al passaggio di certe fanciulle dal costume succinto e americano. Certo, pensavo, dicono che ai loro tempi il bagno si faceva con le calze, o qualcosa di simile. Ma un mio amico mi spiegò che dicevano: «Queste civette! Ai nostri tempi si stava nude»".
In Finlandia, Alessandro Pavolini trova accoglienze molto amichevoli. Un diplomatico italiano, desideroso di accattivarsene la simpatia, gli spiega: «Voi siete molto conosciuto qui per via della vostra magnifica tesi di laurea sull'indipendenza finnica». Ma Pavolini si schermisce: «Non credo proprio. Il fatto è che mi scambiano per mio padre, che ha tradotto in italiano il loro poema nazionale, "Kalevala"».
Nel frattempo, l'astro di Galeazzo Ciano era salito rapidamente nel firmamento politico italiano, ma non si era mai incontrato con quello appena emergente del suo corregionale coetaneo Alessandro Pavolini. I due, comunque, si seguivano a distanza con reciproca simpatia. Già nel 1927, quando Pavolini era stato nominato vicefederale di Firenze, Ciano, allora console generale d'Italia in Cina, gli aveva telegrafato da Shangai: «Bravo. La Toscana è fiera per l'Italia».
In seguito, come è noto, la carriera del giovane Galeazzo si rivelò fulminea. Suo padre, l'ammiraglio Costanzo Ciano, conte di Cortellazzo, eroe della prima guerra mondiale e protagonista della famosa «beffa di Buccari», era amico intimo di Benito Mussolini (dopo l'attentato di Bologna del '26, il Duce lo aveva addirittura indicato come suo successore in caso di morte). Di conseguenza, quando Mussolini si era accorto dell'idillio sorto fra sua figlia Edda e il giovane figlio dell'eroe, subito ne aveva favorito il matrimonio. Dopo le nozze, celebrate nell'aprile 1930, il ventisettenne Galeazzo era stato «lanciato» dal suocero nel mondo politico italiano, prima come sottosegretario e poi come ministro per la Stampa e la Propaganda.
Naturalmente, la posizione di «genero del Duce» non era stata sufficiente a renderlo popolare, procurandogli piuttosto, insieme agli evidenti vantaggi, invidie e inimicizie. Ma Ciano, oltre l'illimitata ambizione, era anche dotato di notevole intelligenza. Per giunta era già esperto di mass media e consapevole del ruolo che possono svolgere gli organi di informazione per manipolare l'opinione pubblica. Inutile quindi dire che, grazie alla sua posizione di controllore della stampa italiana, non aveva faticato molto a crearsi un entourage di giornalisti famosi che bramavano la sua protezione, pronti a ricambiarla con articoli elogiativi e campagne di stampa personali. In questo entourage, definito ironicamente «il circolo Ciano», non tarderà a fare il suo ingresso Alessandro Pavolini.
Dell'amicizia fra Ciano, livornese, e Pavolini, fiorentino, fu promotore il gerarca toscano Zenone Benini, un tipo gioviale e brillante che più tardi diventerà ministro. Questa amicizia fu preparata, per così dire, a tavolino: per motivi campanilistici.
Il fascismo fiorentino, infatti, proprio per la litigiosità dei suoi componenti, non era riuscito a dar vita alla figura di un leader locale prestigioso e capace di difendere a Roma gli interessi della città. Firenze, insomma, non aveva il suo ras, a differenza delle altre città italiane. Fu proprio per colmare questa lacuna e assegnare anche a Firenze il suo «santo protettore» che i fascisti pensarono di «catturare» l'emergente uomo politico livornese. La scelta di Pavolini come «galeotto» di questa operazione fu dettata dalla consapevolezza che il giovane intellettuale fiorentino aveva tutte le carte in regola per conquistare per sé e per la sua città l'ambita protezione di Ciano. Ma bisogna subito aggiungere che le qualità umane e politiche di Pavolini non sarebbero state sufficienti a catturare la benevolenza del genero del Duce, se non si fosse ricorsi anche a un trucco abbastanza meschino.
Da qualche tempo il segretario del partito, Achille Starace, inesauribile inventore di uniformi e di pennacchi, aveva stabilito che gli squadristi, e soltanto gli squadristi, dovessero essere insigniti di un distintivo speciale, consistente in due cordelline rosse da cucire ai polsi delle divise. Oggi potrà anche far sorridere, ma allora quelle cordelline erano ambitissime. Inutile dire che anche Ciano avrebbe desiderato fregiarsene, ma non ne aveva diritto. Infatti, a parte la giovane età che lo avrebbe ampiamente giustificato, Ciano non era stato squadrista, perché a quell'epoca le sue idee non erano affatto in linea con il nascente movimento fascista. Era, per la verità, vagamente nittiano, e lavorava come praticante giornalista per «Il Mondo» di Giovanni Amendola. Tuttavia, ora voleva anche lui le cordelline da appuntare alle maniche della giacca, anche se ottenerle non era facile. Venivano infatti assegnate dopo una rigorosa inchiesta o, quantomeno, a seguito di testimonianze giurate di squadristi notissimi. Ma per il genero del Duce si poteva anche giurare il falso: e infatti Galeazzo Ciano ottenne queste indispensabili false testimonianze dai fascisti fiorentini. E precisamente da Alessandro Pavolini, Zenone Benini e Guido Baroni, i quali dichiararono che l'interessato aveva fatto parte della Disperata, una delle squadre più violente di picchiatori toscani. Più tardi, auspice Pavolini, il neosquadrista accetterà molto seriamente anche la cittadinanza onoraria di Firenze come «alfiere dello squadrismo fiorentino».
A parte la faccenda delle cordelline, che ebbe comunque la sua importanza, Ciano e Pavolini scoprirono ben presto di avere in comune opinioni e interessi, oltre l'origine toscana e l'anno di nascita (1903). Entrambi si consideravano aristocratici e amavano frequentare i salotti più «in» della capitale. Entrambi amavano la letteratura ed erano appassionati di teatro. Di Pavolini già sappiamo, ma anche Ciano aveva scritto alcuni racconti non brutti e un paio di commedie: una, "La felicità di Amleto", era crollata sotto i fischi al teatro romano dell'Argentina, ma l'altra, "Er forino d'oro", trascritta in romanesco e interpretata da Petrolini, aveva invece ottenuto un buon successo.
Ciano e Pavolini erano anche sostenitori del cosiddetto «teatro di massa», che cercava effetti di coralità e piaceva molto a Mussolini. Entrambi sostenevano la necessità di un rinnovamento radicale della scenografia e l'importanza di dare vita a un autentico teatro fascista. Ma a unirli era soprattutto una sorta di solidarietà di classe, la consapevolezza di far parte della «gente bene», l'orgoglio per le origini familiari e per l'educazione ricevuta. Galeazzo, insomma, si sentiva «conte di Cortellazzo» e figlio dell'«eroe del mare». Sandro portava con fierezza un nome reso famoso da un filologo illustre diventato nel frattempo accademico d'Italia.
Inutile dire che il loro comportamento elitario consentì agli avversari di accusarli di snobismo. I primi a lanciare questa accusa, piuttosto pericolosa durante il regime, furono gli «staraciani». Ma Pavolini e Ciano quasi se ne rallegrarono: distinguersi dai rozzi e incolti seguaci del segretario del P.N.F. era da essi considerato un onore. D'altra parte, neppure nascondevano la loro profonda e ironica disistima per Achille Starace, che all'epoca imperversava con direttive piuttosto comiche. Su questo argomento spesso scherzavano fra loro anche in pubblico. Galeazzo diceva a Sandro: «Bada che se sgarri dirò a Starace di farti saltare nel cerchio di fuoco». Alludeva alle buffe prove sportive che il segretario del partito aveva reso obbligatorie per tutti i gerarchi.
Un giorno, Pavolini riferì a Ciano un episodio tipico. Starace lo aveva mandato a chiamare per commentare un suo articolo di critica al costume italiano del tempo pubblicato sul «Corriere». L'articolo era intitolato: "Il più da fare".
«Che significa questa frase?» gli aveva chiesto burberamente Starace. «E' forse toscano?» Stupefatto, Pavolini si era reso conto che il segretario non aveva capito il significato letterale di quel titolo che il verbo sottinteso rendeva più efficace. Dovette spiegargli, con paziente compunzione, che intendeva dire «Il più che resta da fare».
In pubblico, tuttavia, i rapporti fra Ciano e Pavolini si formalizzavano. Si davano del tu, ma Pavolini si faceva umile, stava attento a non urtare la suscettibilità del potente amico, usava un linguaggio deferente e faceva sempre in modo che fosse Ciano a emergere nelle conversazioni. Da parte sua, Ciano manifestava per l'amico un'aperta solidarietà protettiva, ammirava sinceramente le sue qualità di raffinato scrittore e lo considerava un gregario sincero e fedele. Parlando di lui, lo definiva scherzosamente «Buzzino», o «il letterato», o «il signorino».
L'amicizia fra i due uomini non si estenderà mai alle rispettive consorti. Edda e Teresa non si frequenteranno mai in privato. Si incontreranno poche volte e soltanto in occasione di ricevimenti ufficiali.
Al pari dei più famosi giornalisti del tempo, Alessandro Pavolini fa dunque tutto il possibile per rendersi simpatico all'illustre amico: gli manda in lettura i suoi articoli e gli dedica affettuosamente i propri libri. Tanto che Curzio Malaparte, il quale peraltro non è da meno, commenterà malignamente: «Pavolini si vale della sua carriera politica per pubblicare i libri. Poi dedica i libri a Ciano per fare carriera politica».
La carriera di Pavolini procede infatti a vele spiegate. Pochi mesi dopo la sua nomina a deputato, Galeazzo Ciano lo ha scelto come nuovo presidente della Confederazione fascista Professionisti e Artisti. E' un incarico di grande prestigio: praticamente il giovane gerarca diventa il costruttore della nuova cultura italiana, ma anche il controllore della stessa. Va comunque detto che il futuro comandante delle Brigate nere si rivela anche in questo incarico molto «liberale» e ben disposto perfino con gli intellettuali più allergici alla camicia nera.
In quegli anni, Alessandro Pavolini entra anche a far parte dei CAUR, i Comitati d'azione per l'universalità di Roma, fondati da Eugenio Coselschi e incoraggiati dallo stesso Mussolini. Finiti i tempi in cui si dichiarava che «il fascismo non è merce d'esportazione», da qualche anno al vertice del regime si favoleggia di «fascismo universale» e si progetta la costituzione di una Internazionale fascista da contrapporre al Comintern comunista e all'Internazionale socialista. E non si tratta di semplici fantasie: i nazisti hanno conquistato il potere in Germania, mentre altri movimenti che prendono a modello il fascismo stanno sorgendo in Spagna e in altri paesi europei. Nulla di strano quindi che, all'insegna del motto contraddittorio: «Nazionalisti di tutto il mondo unitevi», a Roma si operi per dare vita a una singolare Internazionale dei nazionalismi.
Ma è soprattutto quanto sta accadendo in Germania che interessa i fascisti italiani. Il trionfo di Hitler ha infatti sollevato un vespaio: chi ha salutato con esultanza l'affermazione di un movimento fascista in un grande paese europeo e chi ha espresso diffidenza verso quel nuovo arrivato che, pur manifestando ammirazione per Mussolini, non nasconde di seguire modelli propri. I dirigenti dei CAUR, e in particolare Ciano, che nel frattempo è diventato il nume tutelare dell'organizzazione, sono apertamente ostili al nazismo e lo attaccano duramente, sia a proposito della sua politica religiosa e razziale, sia per le pretese di superiorità germanica nettamente in contrasto con l'«universalità» di Roma.
Ai primi di luglio del 1934, pochi giorni dopo la «notte dei lunghi coltelli» conclusasi con il massacro del colonnello Röhm e dell'intera frazione antihitleriana del nazismo, i CAUR decidono di studiare più da vicino gli avvenimenti tedeschi. Tale compito, probabilmente su suggerimento di Ciano, è affidato ad Alessandro Pavolini. La scelta non è avventata: Pavolini è un buon conoscitore del mondo nordeuropeo, ha buon fiuto politico e, per giunta, può mimetizzare l'ufficialità della sua missione dietro lo schermo della sua professione di giornalista.
La relazione redatta da Pavolini in duplice copia (una, ufficiale, per i CAUR, l'altra, personale, per Galeazzo Ciano) è un documento impressionante per le premonizioni in esso contenute, soprattutto se si tiene conto della data in cui è stato scritto: 10 luglio 1934, pochi giorni dopo il massacro.
Mostrando sdegno, Pavolini stigmatizza l'orrenda carneficina delle S.A. compiuto dalle S.S. Condanna la repressione sanguinosa in cui trovò la morte, per ordine di Hitler, anche il più intimo collaboratore del Führer, ossia Ernst Röhm. Giudica negativamente non tanto l'opportunità, quanto la rozzezza di certi metodi repressivi, e indica con sorprendente chiarezza i possibili futuri scenari. Ecco qualche brano della relazione che Galeazzo Ciano ha sottolineato con la matita rossa:
"Il caso von Röhm è stato determinato dai seguenti fattori: rivalità S.A.-Reichswehr; napoleonismo di Röhm (sapientemente stimolato dai francesi); persuasione sincera che Hitler fosse in mano a forze reazionarie e che nella faccenda austriaca ascoltasse troppo l'Italia; infiltrazione incontrollata nel Fronte del Lavoro di elementi ex comunisti e filobolscevichi; estetismo e degenerazione di von Röhm e conseguente «tavola rotonda» di gerarchi squilibrati e legati a filo doppio.
Il 30 giugno [quando ebbe luogo la «notte dei lunghi coltelli»] è opera di Göring. Mentre Hitler, da lui informato delle «recentissime» sul complotto di Röhm, opera a Monaco, egli ha mano libera a Berlino.
Situazione dopo la repressione:
1) Il caso von Röhm non esiste più. Con esso è «sbaraccato» gran parte del terrorismo austriaco ed è messo un fermo all'infiltrazione filobolscevica negli S.A.
2) Lotta fra sinistri e destri. Cogliendo il pretesto della repressione di Monaco, Göring ha colpito nel mucchio alcuni rappresentanti dell'estremismo di sinistra (corre voce che lo stesso Goebbels dovesse essere ucciso: si sarebbe salvato non abbandonando Hitler un solo momento).
Il 30 giugno sembra quindi avere segnato una vittoria dei destri. Ma, in realtà, chiunque abbia vinto o vinca, chi perde è la rivoluzione nazi. Col 30 giugno, Hitler ha stabilito uno stacco più netto fra sé e gli altri... Ma è anche vero che quel tanto di potere che non ha Hitler si è concentrato nelle mani di un solo collaboratore (Göring). Il che non si sa se migliori o peggiori la situazione... Il più funesto errore della repressione è stato il «suicidio» del capo dell'azione cattolica e l'uccisione di von Schleicher, esponente del vecchio regime...
Dopo la repressione lo scontento è molto aumentato. Si nota una specie di silenzioso accasciamento. I principali timori sono: primo, che la cosa non finisca qui e che si scenda a uno stato di terrorismo; secondo, che l'indignazione all'estero aggravi le condizioni nazionali... Altri auspicano una dittatura militare. Non credono che Göring abbia in mano la Reichswehr; stimano anche lui uno squilibrato (è voce diffusa che usi stupefacenti)... Noto fra parentesi che qui si è diffusa la vociferazione relativa al fatto che Mussolini avrebbe dato a Hitler l'ordine della repressione!... Tuttavia l'impressione negativa causata dalla repressione, all'interno, sarebbe soltanto conseguenza della preoccupazione estera: i tedeschi come tali sono prontissimi a dare domani un'interpretazione mistica, eroica e «sovrumana» a quella che può apparire oggi semplicemente una «inumana» azione di Hitler nei riguardi dei suoi camerati di ieri...
Per concludere. La possibilità per la Francia di dar consiglio e di soffiare nel fuoco, c'è stata. Si è potuto fare altrettanto, localmente, da parte nostra in senso contrario? E una simile azione sarebbe valsa a scongiurare il gravissimo episodio, o almeno a consigliarne una limitazione, o sia pure una diversa, meno bestiale, più giuridica «presentazione»?"
Dieci anni dopo, quando si tratterà di mandare a morte Galeazzo Ciano e gli altri «traditori» del 25 luglio, Alessandro Pavolini si preoccuperà molto per dare alla sanguinosa vicenda una «giuridica presentazione».