Capitolo quattordicesimo

CORPO A CORPO CON I RIBELLI

 

Racconta il colonnello Eugen Dollmann, addetto al comando del maresciallo Kesselring:

"A Pavolini l'effetto cinematografico era garantito ogni qualvolta la sua macchina scoperta, da corsa, percorreva velocissima le strade del Garda: a destra e a sinistra si tenevano in piedi sui montatoi due giovanotti delle Brigate nere, sguardo torvo, chiome al vento e pistola alla cintura, mentre sul sedile posteriore spiccavano figuri, quasi adolescenti, anch'essi più che armati. Bisogna pur riconoscere che l'autore di delicate novelle e poesie toscane, il quale un tempo riceveva al ministero con gentilezza estrema, aveva subito una paurosa trasformazione. L'innocuo protetto di Ciano era diventato un duro partigiano, un guerriero che si sbarbava raramente e che nella lotta fratricida aveva introdotto metodi per cui a un interrogatorio nelle camere d'inquisizione dei suoi reparti i partigiani preferivano la morte immediata".

 

Il profilo del neocomandante delle Brigate nere che disegna Dollmann è abbastanza esatto. Forse risulta un po' troppo affollata la decappottabile Alfa Romeo che Pavolini usa per i suoi spostamenti quasi quotidiani. Abitualmente, infatti, viaggia con la sola compagnia della sua guardia del corpo, Enzino De Benedictis, che non lo abbandona un istante e lo precede persino nelle stanze d'albergo per rovesciare materassi e frugare negli armadi alla ricerca di probabili ordigni esplosivi, per poi accomodarsi dentro un sacco a pelo a ridosso della porta.

A proposito dell'abitudine di Pavolini di viaggiare nella macchina scoperta sia d'estate sia d'inverno, è stato detto che fosse una forma di intrepido esibizionismo, una sfida romantica lanciata alla morte. Nulla di tutto questo. «Era il modo più pratico, in quei tempi» racconta il fedele Enzino «per proteggersi le spalle: con una macchina chiusa sarebbe stato più facile cadere in un'imboscata o essere sorpresi da un mitragliamento aereo.» Con quella sua macchina veloce, che sovente guida lui stesso, Pavolini è sempre in giro per ispezionare le sue brigate. A Maderno, nella villa The Colony di Toscolano, dove ha sede la sua residenza e la direzione del partito, lo vedono molto di rado. Barba malrasata, sguardo severo, indossa l'uniforme del semplice brigatista: berretto nero da sciatore, corpetto e pantaloni pure neri, stivali o scarponi chiodati. Quando fa freddo, usa un giaccone da aviatore con il bavero di pelliccia. L'unica nota di colore sul lugubre abbigliamento è rappresentata dall'aquila dorata, da pilota, e dai nastrini delle campagne e delle due medaglie d'argento. Sempre imbronciato e scontroso, ha praticamente interrotto ogni rapporto sociale. Non si concede vacanze, non scrive più, se non aridi rapporti e minacciose ordinanze. Alla poesia ha definitivamente rinunciato. «Ora» confida alla moglie «non mi resta che l'azione.» Benché legatissimo alla famiglia, va a visitarla di rado, ora a Cortina, ora a Laveno, ora a Como, dove essa è sballottata per ragioni di sicurezza. Anche Doris Duranti, che dopo un difficile soggiorno veneziano si è trasferita in una villetta presso Como, a pochi chilometri dal confine svizzero, lo vede di rado. I loro incontri sono rapidi e nervosi. Quanto basta.

Il 12 agosto 1944, mentre è in corso in Piemonte la cosiddetta «marcia contro la Vandea», che secondo gli ordini di Mussolini «dovrebbe irradiarsi a mano a mano in tutte le province e ripulirle radicalmente dal ribellismo», Pavolini si reca nelle Alpi piemontesi, dove sono in corso le operazioni. Dopo una sosta a Savigliano, raggiunge la zona di Cuorgnè per ispezionare i reparti di Brigate nere che insieme agli uomini della Decima MAS e a contingenti tedeschi sono impegnati nei rastrellamenti. Nel pomeriggio, mentre sta pranzando con Valerio Borghese, il federale Melega, il vicefederale Tealdy e altri capi fascisti locali, qualcuno avverte i commensali che nelle vicinanze, presso Ceresole Reale, sono stati segnalati numerosi partigiani. Appena informato, Pavolini si alza e dice: «Dobbiamo andare anche noi». Poi esce con il mitra in pugno accompagnato dal suo attendente. Gli altri, forse di malavoglia, sono costretti a seguirlo.

Il gruppo di fascisti risale l'Orco incautamente. Ignorano che i partigiani (sono gli uomini della 77esima Garibaldi), gente decisa e bene armata, li attendono al varco. A un tratto, infatti, un improvviso franare di sassi blocca il cammino della colonna, mentre i partigiani appostati sulle alture aprono il fuoco. E' un momento di grande confusione. I fascisti rispondono al fuoco, qualcuno fugge, qualcun altro è colpito. Il primo a essere ferito è Valerio Borghese, poi è la volta di Tealdy, di Melega e del colonnello Quagliata. Pavolini, che si è spinto avanti sempre seguito dall'attendente, si ritrova a un tratto allo scoperto sotto il tiro incrociato degli avversari. Racconta Enzo De Benedictis:

"Per alcuni minuti rispondemmo al fuoco riparandoci alla meglio. Poi un proiettile mi colpì la spalla e subito dopo una bomba a mano esplose alle spalle di Pavolini ferendolo seriamente al fondo della schiena. Quasi contemporaneamente io mi ero buttato su di lui per fargli da scudo, così cademmo a terra insieme, io di traverso sopra di lui. Intanto la sparatoria continuava e non vedevo via d'uscita. Qualcosa di simile mi era capitato, qualche tempo prima, a Bir el Gobi: mi ero salvato fingendomi morto. Decisi di fare altrettanto. «Eccellenza, per carità, non rimovetevi» mormorai. «Devono crederci morti.» E restammo immobili per tre o quattro ore, perdendo sangue, finché non vennero a salvarci".

 

Mai come quella volta, i partigiani hanno avuto un'occasione così favorevole di catturare il segretario del P.F.R.. Un colpo simile avrebbe sicuramente avuto un grosso effetto psicologico e propagandistico. Ma i partigiani, e in particolare Gino Seren Rosso, di Cuorgnè, il lanciatore della bomba, non hanno modo di valutare l'importanza della preda: sono ingannati dall'uniforme senza gradi, da semplice brigatista, indossata da Pavolini. Per questo abbandonano i due caduti al loro destino per accorrere nella vallata dove i loro compagni stanno ancora combattendo.

Pavolini è tratto in salvo a notte fonda da una pattuglia mista di fascisti e tedeschi inviata in suo soccorso. Lui è inzuppato di sangue, ma non ha perduto i sensi. I soccorritori lo adagiano su una coperta da campo e poi, usando questa come barella, lo portano nelle retrovie da dove, con un'autoambulanza, è trasferito all'ospedale di Cuorgnè e affidato alle cure del professor Maggi. Le ferite non sono gravi: le schegge della bomba gli hanno crivellato i glutei e le cosce. Resterà leggermente zoppo. Ma la notizia che subito si propaga è un'altra: Pavolini, si afferma, è stato ferito agli organi genitali. Forse l'inesattezza è stata messa in giro per ridicolizzare la sua impresa, ma è anche favorita dal comunicato ufficiale che non precisa, per ovvi motivi, in quale imbarazzante parte del corpo egli è stato colpito. Gino Seren Rosso, che è morto pochi anni fa, potrà quindi vantarsi di essere il partigiano «che ha castrato il comandante delle Brigate nere».

Appena in ospedale, Pavolini si preoccupa di informare subito la moglie affinché la notizia che sarà trasmessa il giorno dopo dalla radio non la spaventi troppo. Le manda un messaggio scritto in fretta su un foglio di quaderno con una matita rossa: «Sto benissimo, ma un po' ferito e questo mi darà modo di avere una tua graditissima visita al più presto. Stavo venendo da te a Laveno, ma mi sono fermato per strada e così abbiamo dato e ricevuto botte». Nel biglietto scritto in fretta, c'è anche un post scriptum: «Non è vero che mi sto allontanando da te. Ti amo come sempre. Il tuo BU».

Un mese dopo è di nuovo in piedi a Maderno. Cammina con il bastone. Sul petto, in basso a sinistra, sfoggia un altro distintivo: quello di ferito di guerra tedesco, una placchetta metallica con elmo, spade e fronde di quercia. Più tardi, il generale Wolff, su disposizione di Hitler, lo decorerà con la croce di ferro «per meriti nella guerra antiribellistica».

Non ancora completamente ristabilito, nell'ottobre partecipa in Valdossola alle operazioni combinate fra Brigate nere, Decima MAS, S.S. italiane e reparti tedeschi per smantellare la piccola «repubblica» che i partigiani vi avevano costituito nell'estate. Poi riprende a girare con la sua macchina scoperta e l'immancabile Enzino. Sfugge a diversi attentati proprio grazie a questa sua eccezionale mobilità. Visita tutte le federazioni dell'Emilia e si spinge fino alle ultime propaggini della linea Gotica, in Garfagnana, dove sono giunti i primi reparti delle divisioni Monterosa e San Marco provenienti dalla Germania.

Il 28 ottobre 1944 Pavolini vuole celebrare l'anniversario della marcia su Roma in piazza San Sepolcro, a Milano, dove il fascismo è nato. Il suo prestigio, dopo l'organizzazione del cecchinaggio a Firenze e le ferite riportate combattendo corpo a corpo contro i partigiani, è notevolmente aumentato. I duri del fascismo ormai riconoscono in lui il loro unico capo. Il discorso pronunciato da Pavolini ai fascisti che gremiscono la piazza è violento e minaccioso. Ormai è votato alla lotta all'ultimo sangue: accada quel che accada. Dice le cose che quei disperati in camicia nera che l'ascoltano vogliono sentire. Chiede insistentemente sangue: «Alla violenza dei nostri avversari noi abbiamo risposto e risponderemo con violenza moltiplicata». Critica apertamente la decisione del governo di concedere un'amnistia in occasione della ricorrenza: «Per l'accozzaglia immonda dei banditi non è possibile altra misura che non sia il fuoco dei mitra». Nega che il fascismo abbia commesso errori: «Quei pochi che ci sono stati non siamo stati indulgenti nel giudicarli». Ammette anche la possibilità di un'ora X, ma reclama dai suoi una «disperata certezza» di vittoria nell'attesa illusoria dell'impiego di nuove armi da parte dei tedeschi.

Frattanto, con l'ingresso delle Brigate nere nella guerra partigiana, la lotta si è ulteriormente incrudelita. E' la logica inarrestabile della guerra civile. Ora i fascisti superano anche le S.S. quanto a ferocia e crudeltà. La tortura, nei covi delle Brigate nere, diventa abituale, così come le rappresaglie sanguinose, le distruzioni e i saccheggi. Gli stessi prefetti repubblicani sono spesso costretti a denunciare questi eccessi. Anche i tedeschi se ne lamentano. Scrive Möllhausen: «Nelle regioni dove operavano le Brigate nere, il numero dei partigiani era in costante aumento e cresceva l'ostilità di tutta la popolazione contro i fascisti e i tedeschi». Ma quello che più preoccupa i tedeschi non è tanto la crudeltà quanto l'indisciplina delle formazioni nere. Non è mai possibile contare sul loro intervento nelle ore e nei giorni stabiliti.

Alcune fucilazioni di brigatisti rei di crimini comuni, ordinate da Pavolini, non ottengono alcun risultato. Quelle formazioni sono ormai bande indisciplinate e incontrollabili, composte in maggioranza da avventurieri e delinquenti. Pavolini, comunque, difende il suo piccolo esercito personale. Convocato dall'ambasciatore Rahn, il capo effettivo della R.S.I., e messo di fronte a un dossier colmo di denunce, lui nega tutto. Le Brigate nere, afferma, non hanno commesso eccessi e misfatti, se non per rispondere alle provocazioni. Poi richiama l'ambasciatore a un principio che gli stessi tedeschi gli hanno suggerito: al terrore bisogna rispondere con un terrore moltiplicato. «Quindi» conclude Pavolini «se non ci sono nuove ragioni, voi non potete abbandonare una tesi alla quale avete aderito.» Le Brigate nere possono continuare.

A metà dicembre, Mussolini torna a Milano. Le speranze fasciste si riaccendono. I bollettini di guerra informano che l'esercito tedesco ha sferrato una violenta offensiva nelle Ardenne. Gli alleati sono in ritirata. Si tratta dell'ultimo vano colpo di coda di Hitler, ma per quei fascisti disperati la notizia è esaltante. Pochi giorni dopo qualcosa si muove anche sulla linea Gotica: reparti tedeschi e contingenti italiani della Monterosa e della San Marco travolgono in Garfagnana i soldati di colore della divisione americana Buffalo. Conquistano pochi chilometri di terreno montagnoso in direzione di Lucca, ma ciò che conta è la notizia che dopo anni di continue ritirate si riprende ad avanzare. Se poi a tutto questo si aggiunge l'affievolirsi dell'attività partigiana a seguito dei grandi rastrellamenti di novembre-dicembre, e la non mai sopita speranza circa un prossimo impiego di nuove «armi segrete» che dovrebbero superare per potenza distruttiva le V1 e le V2, è facile immaginare quale mutamento si registri in quei giorni nell'animo di quei disperati sempre pronti ad aggrapparsi a qualsiasi appiglio pur di alimentare la loro illusione.

Mussolini approfitta proprio di questa improvvisa schiarita sul cielo perennemente cupo della sua repubblica per tornare a Milano per la prima volta dopo il 25 luglio. E' accolto da una folla incredibilmente numerosa (forse sono 50000, forse più) che lo applaude e lo acclama festante e commossa. E' un fenomeno collettivo, ancora oggi del tutto inspiegabile, che sorprende soprattutto i fascisti abituati ormai da tempo a celebrare da soli i loro lugubri riti.

Mussolini si immerge felice in questo salutare bagno di folla che gli ricorda i tempi lontani del suo fulgore. E Pavolini, sempre al suo fianco, estasiato e commosso, si gode la felicità dell'uomo cui ha dedicato la propria esistenza.

I due uomini «più odiati d'Italia» percorrono in macchina scoperta le strade affollate e plaudenti. Non si registra un solo incidente: l'organizzazione gappista che opera da mesi a Milano non dà segni di vita. I giorni 16, 17 e 18 dicembre sono per i fascisti una gran boccata d'ossigeno. Mussolini parla al Lirico, parla ancora in piazza San Sepolcro e davanti al castello Sforzesco. Pronuncia discorsi veementi e drammatici, patetici e grintosi. Pavolini, eccitatissimo, non lo molla un istante. Pronto e scattante, gli apre il varco tra la folla e lo protegge dagli ammiratori più esagitati che cercano di vederlo più da vicino e di toccarlo.

Più tardi scriverà alla moglie:

"Io sono felice dopo queste giornate di Milano. Il Duce era contento per la prima volta dopo anni. E l'entusiasmo enorme di "tutti" deve averlo ripagato di tante immense amarezze, tristezze, ingiustizie. Vorrei raccontarti mille episodi, tutti commoventi, ma lo farò quando ci vedremo".

 

Rientrato Mussolini a Gargnano, Alessandro Pavolini riprende la sua frenetica attività. Torna sulla linea Gotica e si spinge in Garfagnana, dove gli alpini della Monterosa e i marò della San Marco lo divertono raccontandogli gli scherzi che spesso giocano agli ingenui neri della Buffalo, ai danni dei quali fanno razzie di sigarette americane e di scatolette. Sono anche riusciti ad allacciare Massa e Carrara alla centrale elettrica di Pisa, occupata dagli Alleati, senza che questi se ne siano accorti.

A fine dicembre Pavolini torna in Piemonte e si spinge in Val d'Aosta per riferire a Mussolini circa l'entità dei movimenti annessionisti filofrancesi che operano nella valle. Resta nella zona anche per le festività natalizie. Scrive infatti alla moglie: «Ho trascorso un bellissimo Natale ad Aosta, Cogne e Gran San Bernardo fra squadristi sciatori, alpini e minatori. La notte di Natale sono salito in teleferica alla miniera di Colonne». La lettera termina con questa frase: «Tanti auguri all'Italia e alla nostra famiglia».

Appena rientrato a Maderno, eccolo di nuovo in viaggio con la sua macchina scoperta verso la sponda opposta della repubblica: la Venezia Giulia, una spina nel fianco per Mussolini e i governanti di Salò.

Questa regione, come è noto, era stata annessa con un colpo di mano al Terzo Reich subito dopo l'8 settembre e prima della costituzione della repubblica sociale. Ribattezzata Adriatisches Küstenland (Litorale Adriatico), era stata incorporata nella Carinzia e affidata al governo del Gauleiter Friedrich Rainer. La stessa sorte era toccata alla Venezia Tridentina, diventata Voralpenland e affidata al Gauleiter del Tirolo Franz Hofer.

Da allora Mussolini si era inutilmente battuto per ottenere la restituzione di quelle province italiane. Era infatti troppo umiliante, per il governo di Salò, vedersi portar via dall'alleato i territori che l'Italia si era conquistata con una sanguinosissima guerra. Ma ogni sforzo si era rivelato inutile, e i tedeschi avevano continuato indisturbati il processo di snazionalizzazione di quelle terre. Parte della Dalmazia era stata donata alla Croazia di Ante Pavelich ed erano stati allontanati da Fiume i reparti della Decima MAS che presidiavano il litorale. Altre zone erano state addirittura interdette agli italiani, mentre in Carnia erano stati fatti affluire circa tremila cosacchi, con mogli e figli e con il loro atamano Krasnov (l'autore del famoso libro "Dall'Aquila Imperiale alla Bandiera Rossa"), affinché vi si stabilissero definitivamente. Nelle cartine germaniche, la Carnia già figurava sotto il nome di Kosakenland.

Mussolini, che vuole inviare un messaggio di solidarietà agli italiani delle terre annesse, fra i quali ci sono ancora molti fascisti, affida la missione a Pavolini. Sarà un viaggio pieno di rabbia e di umiliazioni.

Nella seconda metà di gennaio del 1945, Pavolini visita Udine, le valli del Natisone e dell'Isonzo, Tolmino e Santa Lucia, poi passa da Gorizia a Fiume e quindi a Trieste. Dovunque incontra difficoltà e sospetti. Le autorità germaniche gli fanno chiaramente capire che non gradiscono la sua visita. A Pola gli impediscono addirittura di entrare in città con pretesti di sicurezza militare. A Fiume per poco i fascisti che lo scortano non aprono il fuoco contro i tedeschi. Reso omaggio ai caduti per la causa fiumana, al tempio votivo di Cossala, Pavolini può tuttavia tenere rapporto ai federali della Venezia Giulia. Il risultato è un lamento generale contro le angherie dei tedeschi, alleati dei croati contro gli italiani. La situazione peggiora quando giunge a Trieste. Il Gauleiter Rainer non vuole riceverlo nella sua veste di ministro del governo italiano, ma come semplice segretario del partito, così l'incontro va a monte. Più tardi, Pavolini è invitato a un pranzo in suo onore offerto da Rogalscki, rappresentante del Supremo commissariato. Quando vi giunge, scopre di essere il solo italiano presente e, per giunta, apprende che si tratta di un pranzo offerto dal «capo nazista» Rogalscki al «capo fascista» Pavolini. Nulla di ufficiale, insomma. Lui abbandona la sala protestando, mentre quelli che restano si rallegrano per averlo trattato non «come un ministro d'Italia, ma come ultimo ministro d'Albania».

Si sfoga più tardi parlando al teatro Verdi, affollatissimo di italiani e di spie. Urla:

"Talvolta, in questa vostra trincea avanzata che è Trieste, all'estremo di lunghe strade isolate dal bombardamento nemico, per le comunicazioni scarse e per altri motivi che conoscete, vi è accaduto di sentirvi lontani. Ebbene, io posso dirvi una cosa sola: nessuno più di voi triestini e gente della Venezia Giulia è vicino ogni ora al cuore di Mussolini".

 

Alte grida inneggianti all'italianità di Trieste accolgono le sue parole. Dal loggione urlano ripetutamente «Abbasso il Litorale Adriatico, viva l'Italia». I tedeschi si indignano. In segno di protesta cancellano tutti gli altri incontri fissati da Pavolini. Al quale non resta altro da fare che tornarsene, infuriato e deluso, a riferire a Mussolini di quanto ha visto e sentito.

Le sue umiliazioni non sono ancora finite. Ritornato a Maderno, Pavolini è convocato d'urgenza al comando delle S.S. Lo accoglie il generale Wolff, insolitamente freddo e ostile. Così non può andare avanti, gli dice pressappoco l'erculeo generale nazista. Le Brigate nere stanno esagerando. Commettono eccessi inauditi. Si comportano come criminali. Non intendiamo più aiutarvi. Ne va di mezzo l'onore dell'esercito germanico.

Pavolini lo ascolta esterrefatto. Non capisce assolutamente cosa stia accadendo. «Non ci comportiamo diversamente dalle vostre S.S.» ribatte, ma poi deve rassegnarsi. Wolff è chiaramente intenzionato a chiudere i rubinetti. Dai tedeschi, conclude, le Brigate nere non avranno più né armi né benzina.

Pavolini torna a Maderno avvilito e confuso. E' consapevole che senza l'aiuto dei tedeschi, soprattutto per quanto riguarda la benzina, che solo essi possono fornire, per le sue Brigate nere sarà la fine. Nei giorni che seguono si perde a indagare circa i motivi dell'improvviso voltafaccia germanico. Immagina di essere vittima di uno dei tanti intrighi che avvelenano la vita di Salò. Si fa ancora più chiuso e sospettoso e si sente circondato da nemici.

Ignora, l'ingenuo fanatico, che Wolff ha da qualche giorno iniziato in Svizzera trattative segrete con gli Alleati per preparare la resa delle truppe tedesche in Italia. Ignora che il comandante supremo delle S.S. in Italia, il principale responsabile delle stragi delle Fosse Ardeatine, di Boves, di Vinca, di Marzabotto, di Sant'Anna, della Benedicta, di Villamarzana e di Meina, è stato improvvisamente folgorato da una crisi di coscienza. Ora si accinge a cambiare campo, abbandonando i fascisti al loro destino.