Capitolo undicesimo
«SIAMO QUELLI CHE VENTUN ANNI FA MARCIAVANO SU ROMA: SIAMO QUELLI STESSI...»
Il 17 settembre 1943, racconta Paolo Monelli, comparve al balcone di palazzo Wedekind, in piazza Colonna, a Roma, un gagliardetto che rimase lì tutta la mattina a saggiare il vento. Poi al pomeriggio fu messo fuori un ritratto in oleografia di Mussolini, poi ancora una o due bandiere nazionali (con un buco al centro della parte bianca dove stava lo stemma sabaudo).
Qualche milite, racconta ancora Monelli, stava sul portone, pronto a tirarsi indietro al primo pernacchio; qualcun altro si affacciava al balcone e poi si chinava dalla ringhiera come mettesse fuori la testa dalla trincea. In seguito arrivarono due piccoli carri armati, che si misero di qua e di là davanti al portico. Venne giù per il Tritone, traversò piazza Colonna e si fermò davanti al palazzo un autocarro carico di camicie nere, la maggior parte ragazzetti impuberi (erano i corrigendi del correzionale di Porta Portese che il neofascismo aveva subito arruolato). Cantavano: «Duce, Duce, chi non saprà morir?».
Finalmente, al crepuscolo, in un'automobile chiusa con la targa delle S.S., in borghese, la barba di due giorni, arrivò Pavolini. La macchina attraversò rapidamente la piazza e si arrestò con stridore di freni davanti al portone del palazzo. Il neosegretario provvisorio del P.F.R. scese, salutò romanamente le guardie e si infilò velocemente all'interno.
E' così che comincia l'avventura del fascismo repubblicano. Pavolini, spinto da furente energia, si mette subito al lavoro. Per prima cosa fa piazzare alcune mitragliatrici sul tetto del palazzo e affida il servizio di vigilanza a un gruppo di «ragazzi di Bir el-Gobi», i giovanissimi volontari che avevano scritto una delle poche pagine di gloria della campagna in Africa settentrionale. E' fra costoro che sceglie anche la sua guardia del corpo: Vincenzo De Benedictis, vent'anni, che da quel momento lo seguirà come un'ombra giorno e notte, dormendo davanti alla porta della sua camera. Più tardi Pavolini vuol conoscere, per congratularsi, l'oscuro fascista che per primo ha preso l'iniziativa di riaprire la sede del partito. L'uomo ha un nome stregato, che riapparirà alla fine dell'avventura: Dongo.
Preso com'è da un febbrile attivismo, anche i suoi affetti personali sono passati in secondo piano. Con la famiglia ha un incontro rapido. Alla moglie Teresa, che è angosciata, ma anche rassegnata perché conosce il suo uomo e capisce che ormai è impossibile fermarlo, lui dice con franchezza: «Per un po' dovrai ancora badare da sola ai ragazzi. Fatti forza. Il momento è difficile e io sono chiamato a fare cose più importanti».
In seguito i familiari di Pavolini, insieme a quelli di Ricci, Biggini, Mezzasoma, Zerbino e altri gerarchi, saranno trasferiti dai tedeschi (che li considerano ostaggi sia pure di riguardo) nelle alpi Bavaresi, a Zürs, una stazione invernale sequestrata dalla marina germanica che vi manda a rifornirsi di ossigeno i sommergibilisti di Dönitz. Per gli «ospiti» italiani sarà una lunga, dorata prigionia.
Con Doris Duranti la musica non cambia. La passione politica ha sopraffatto anche quella dei sensi. Probabilmente Pavolini vorrebbe liberarsene. Quando lei lo cerca e lo invita a un convegno in casa di un'amica compiacente, le fa infatti un discorso molto chiaro: «Noi andremo al Nord molto presto. Ma tu devi restare qui. Tu sei un'attrice famosa, sei molto giovane, hai un futuro splendido. Resta a Roma. Con noi avrai soltanto tanti guai. Credimi, non ne vale la pena». L'attrice sembra convinta, ma in seguito cambierà idea e gli creerà molti problemi.
Chiuso dentro palazzo Wedekind, che ha l'aspetto di un «fortilizio nemico assediato», il neosegretario, con l'aiuto di Ferdinando Mezzasoma (un fascista preparato e intelligente) e Francesco Barracu (un decorato di gran cuore orbo da un occhio), e d'intesa con l'ambasciata di Germania, ha intanto avviato le operazioni per dare vita al nuovo governo. Le trattative per il reclutamento dei ministri vanno stentatamente avanti per una settimana. Gli sforzi, le lusinghe e le minacce di Pavolini urtano contro l'indifferenza, la codardia, gli intrighi, le gelosie e le ripicche dei prescelti. Spesso devono intervenire le S.S. per condurre a palazzo Wedekind i gerarchi più riluttanti.
La lista dei ministri è finalmente pronta il 23 settembre. Ne fanno parte personaggi di secondo piano. L'unico nome importante è quello del maresciallo Rodolfo Graziani, che Pavolini, dopo un burrascoso colloquio, ha convinto ad accettare il comando supremo delle forze armate e il ministero della Guerra. Graziani non è fascista, anzi ha dei motivi di rancore verso Mussolini, il quale, dopo avergli tolto il comando in Libia, pensava addirittura di farlo fucilare per la sua condotta niente affatto eroica, ma odia Badoglio... Entrano nel governo, fra gli altri, Buffarini Guidi (Interni), Mezzasoma (Cultura popolare), Biggini (Educazione nazionale), Tringali Casanova, ex presidente del Tribunale speciale, che assume il dicastero della Giustizia, mentre quello degli Esteri, in mancanza di candidati di rilievo, è affidato allo stesso capo del governo, Mussolini. Pavolini aggiunge alla sua carica di segretario del partito il «rango di ministro», con la prerogativa che i decreti governativi prima di essere applicati dovranno ottenere la sua approvazione. Praticamente, tutti i poteri della neorepubblica sono ora nelle sue mani.
Quella sera, infatti, dopo avere riunito gli ufficiali del presidio, annuncia: «Oggi, 23 settembre 1943, XXI [ventunesimo] dell'Era Fascista, il Duce ha costituito il nuovo governo assumendone la presidenza e delegandomene la funzione». Poi arringa gli ascoltatori e li ammonisce che «il partito che io guido sarà un partito totalitario...».
La precisazione è per Pavolini necessaria, in quanto negli ambienti fascisti del paese si sta da qualche giorno registrando la crescita di un movimento di pacificazione, ironicamente definito dell'«abbraccio universale», che è tacitamente sostenuto dallo stesso Mussolini.
Fascisti troppo ingenui o troppo furbi vanno infatti predicando qua e là per il Norditalia la necessità «di una assoluta fratellanza fra gli italiani, senza distinzione di partito». Qualcuno si illude, insomma, di mettere una pietra sopra il passato all'insegna del vogliamoci bene, siamo tutti italiani. Si registrano anche taluni episodi significativi. A Pisa, per esempio, il federale fascista impedisce la fucilazione di alcuni giovani ribelli da parte dei tedeschi. A Venezia, il federale Eugenio Montesi, dopo avere liberato dalle carceri gli ebrei e gli antifascisti, ha convocato un'adunanza popolare nella quale è stata concessa la parola a uomini di ogni partito, compreso il comunista Giaquinto. Altrove si parla addirittura di libere elezioni e della formazione di un Fronte unico nazionale, nel quale tutti gli italiani si dovrebbero ritrovare per poi ricostruire la patria. A Milano il cieco di guerra e medaglia d'oro Carlo Borsani propone persino l'abolizione dell'aggettivo «fascista».
A parte ogni considerazione sulla reazione tedesca nel caso questo movimento prendesse piede, Pavolini non esita a condannarlo subito senza appello. Irride con sarcasmo le manifestazioni «pietistiche e pusillanimi» e definisce illusorio ogni tentativo di gettare un ponte fra fascismo e antifascismo. «Ormai i ponti alle nostre spalle sono bruciati» afferma. A ben vedere, questo fiorentino fazioso, ma intelligente, è il più realista della compagnia.
Consapevole dell'isolamento in cui il fascismo è venuto a trovarsi, quest'uomo, che i suoi stessi camerati definiranno il «Saint-Just di Salò» per la sua assoluta intransigenza, respinge sdegnoso inutili e umilianti patteggiamenti. Propugna invece un ritorno puro e semplice al vecchio sistema totalitario. Anzi lo vuole più combattivo, più ferrigno, più rivoluzionario e più spietato.
Pochi giorni dopo, insorgendo contro i pacificatori, stabilisce: «In materia di politica interna e di rapporti con gli avversari ed ex avversari, è per lo meno inutile ricorrere ai troppo generici appelli all'abbraccio universale». Annunciando poi la costituzione di tribunali speciali, precisa che a questi sarebbe stato affidato il compito «di colpire inesorabilmente i traditori del fascismo e chi ha fatto violenza ai fascisti durante il periodo badogliano».
Inutile dire che la presa di posizione di Pavolini ottiene la totale approvazione dei duri del fascismo, che sono la maggioranza del partito. Farinacci, Ricci, Mezzasoma lo applaudono, mentre molte federazioni, soprattutto quelle toscane, ma anche quelle di Milano, Pavia e Torino, prendono subito posizione contro ogni forma di pacificazione. «Al muro! Al muro!» gridano per le strade i fascisti, reclamando giustizia sommaria per i traditori del 25 luglio. «Al muro! Al muro!» riecheggia l'ex prete Giovanni Preziosi da radio Monaco, auspicando un bagno di sangue ancora più vasto.
Intanto a Verona, una città che per la sua posizione geografica sulla strada del Brennero diventerà la «capitale morale» della R.S.I., un fanatico fascista, invalido di guerra e tubercolotico, Piero Cosmin, autonominatosi prefetto della provincia, ha già allestito diciannove celle destinate a ospitare i diciannove gerarchi che hanno votato contro Mussolini la notte del Gran Consiglio. Riuscirà a utilizzarne soltanto sei.
Il 27 settembre 1943, quarantesimo compleanno di Alessandro Pavolini, ha luogo la prima riunione del nuovo governo fascista repubblicano. Il Consiglio dei ministri si svolge alla Rocca delle Caminate, dove Mussolini - che non intende più mettere piede a Roma - si è ritirato con la famiglia e la sua scorta personale, costituita da una formazione di S.S. offertagli da Hitler. La riunione non registra fatti importanti, salvo l'atmosfera emotiva creata dalla taciturna presenza del Duce, che molti rivedono per la prima volta. Ad aumentare la tensione ha contribuito, poco prima, la comparsa nell'anticamera di Edda, la moglie del «traditore di famiglia», come già viene definito Galeazzo Ciano. La sua inquieta presenza ha infatti sollevato molto imbarazzo, soprattutto in Pavolini, che è stato suo amico. Racconta Giorgio Pini, uno dei più intimi collaboratori del Duce:
"Infine, come una folata di vento, entrò Edda e riempì la sala della sua agitazione nervosa, parlando continuamente quasi volesse superare un certo imbarazzo diffuso fra gli astanti. Molto dimagrita, gli occhi tondi e vivaci che ricordano quelli del padre, voce e modi quasi maschili, fumava e si muoveva di scatto. C'era in lei come il lucido presentimento di una grande tragedia che avrebbe voluto prevenire. Ripeteva che bisognava attendersi il peggio e di tanto in tanto, scrutando gli interlocutori, accennava a suo marito. Sembrava voler costringere ciascuno a pronunciarsi intorno al caso di Galeazzo, ma tutti eludevano la questione. Allora continuava a raccontare animatamente le sue avventurose vicende delle ultime settimane... Esauriti gli argomenti, chiese ancora a Pavolini in modo più esplicito quale sarebbe stata la sorte di coloro che avevano votato l'ordine del giorno in Gran Consiglio. Alla nuova risposta evasiva lasciò la sala".
Tornato a Roma, Pavolini può dedicarsi interamente all'organizzazione politica della neorepubblica. Lo aiutano alcuni uomini che condividono le sue convinzioni: Ricci, Tamburini, Buffarini Guidi. Questo gruppo di potere, per via della comune origine regionale dei componenti, sarà soprannominato «Granducato di Toscana». Fin dalle prime battute il neosegretario punta alla formazione di un partito formato da «una minoranza intransigente, combattiva ed esclusivista». Proibisce l'uso del termine «gerarca», bandisce i fronzoli e i pennacchi che un tempo i fascisti usavano per abbellire le loro uniformi. Vorrebbe anche abolire i gradi e la chiamata obbligatoria alle armi, ma si scontra con l'opposizione di Graziani, che progetta la formazione di un esercito «apolitico». «Con i tempi che corrono» ribatte Pavolini «è quanto meno ingenuo pretendere l'apoliticità delle forze armate.» Lui auspica la costituzione di un unico organismo militare, fortemente politicizzato, che sia «orgoglio e prestigio del partito». Raggiungerà il suo scopo soltanto in parte, e più tardi. Per ora la spunta Graziani che ottiene il suo esercito senza fasci sulle mostrine (ma dovrà rinunciare anche alle stellette sabaude e adottare l'emblema del gladio con fronde d'alloro).
Alla fine di ottobre la campagna di reclutamento per la costituzione del partito ha già dato buoni frutti. Gli iscritti risultano essere 250 mila. Pochi se si pensa al passato, molti se si considerano le conseguenze immediate e future che quella tessera comporta. Numerose richieste di iscrizione vengono inoltre respinte a seguito di precise disposizioni della segreteria. Si rifiutano badogliani resipiscenti e si respingono i fascisti che, dopo avere abiurato durante i «quarantacinque giorni», vorrebbero rientrare nei ranghi. Pavolini ha anche stabilito che sia negata la tessera «ai plutocrati, ai ricchi e agli arricchiti». Ormai l'ex intellettuale aristocratico tende al plebeo.
Il 28 ottobre, commemorando la marcia su Roma, Alessandro Pavolini parla per la prima volta in pubblico nella sua veste di massimo esponente del nuovo esecutivo. E subito affronta il tema che più gli sta a cuore, affermando con sprezzante franchezza:
"Da quando abbiamo iniziato questa nostra riscossa, non sono certo mancate le anime buone a suggerirci: per carità, cercate di far dimenticare che siete fascisti. Fatevelo perdonare. Usate il meno possibile l'aggettivo «fascista». Ma noialtri, evidentemente pazzi e sconsigliati, fascisti ci siamo proclamati, fascisti ci proclamiamo. Sissignori. Siamo quelli che ventun anni fa marciavano su Roma: siamo quelli stessi..."
Poi, dopo un penoso tentativo di esaltazione delle grandi opere realizzate dal fascismo e un attacco violento a «quell'intrigo di collari dell'Annunziata e di nuovi duchi, conti, baroni e marchesi» che hanno tradito, Pavolini annuncia la prossima convocazione di un'assemblea Costituente che darà le leggi basiche alla nuova repubblica. Conclude infine con uno svolazzo letterario e felice:
"E' l'antico tricolore che in una lontana primavera nacque senza stemmi sulla sua parte bianca, là dove noi idealmente iscriviamo, come su una pagina tornata vergine, una sola parola: Onore".
Frattanto il nuovo governo, come i tedeschi avevano stabilito, si è trasferito al Nord con il suo seguito di burocrati romani recalcitranti ma ben decisi a non mollare la loro scrivania e il loro stipendio, cui è stata aggiunta una speciale indennità di «trasferta in residenza disagiata». Lungo le strade del Garda, intasate dai convogli carichi di masserizie e di scartoffie, è tutto un viavai concitato di uniformi fantasiose: baschi, giacche a vento, caschi coloniali, stivaloni, pugnali, aquile, teschi e distintivi di ogni tipo. Gli squadristi più violenti, che lo stesso regime aveva messo al bando, tornano alla luce con rinnovata baldanza. Mescolati ai volontari, agli avventurieri, ai Votati alla morte, ai reduci dei battaglioni M, riaprono le caserme, organizzano comandi, distribuiscono gradi e stipendi.
In questo marasma nasce quella che sarà impropriamente chiamata la Repubblica di Salò. A Salò, infatti, vengono sistemati soltanto l'inutile ministero degli Esteri e quello della Cultura popolare. Ma poiché vi ha sede anche l'agenzia di stampa ufficiale Stefani, che provvede a datare «Salò» tutti i dispacci che dirama ai giornali, gli italiani si convincono che la piccola città lacustre sia la nuova capitale della repubblica. In effetti gli organi principali dell'effimero stato fascista sono sparsi un po' dovunque: la segreteria del partito e il ministero degli Interni a Maderno, la presidenza del Consiglio a Bogliaco, il quartier generale del Duce a Gargnano, altri a Venezia, Brescia, Verona, Padova, Cremona e Milano.
Il movimento di resistenza sta intanto muovendo i suoi primi passi. Ma i tedeschi reagiscono con spietate rappresaglie. Già il 19 settembre hanno incendiato Boves, in provincia di Cuneo, uccidendo ventitré persone e ferendone centinaia. Sono poi seguiti i massacri di ebrei a Stresa, Arona e Meina. Anche la neorepubblica applica appena possibile i sistemi tedeschi. Il 5 novembre, infatti, Pavolini emana la seguente ordinanza:
"Di fronte al ripetersi di atti proditori nei riguardi dei fascisti repubblicani per parte di elementi antinazionali al soldo del nemico, il segretario del P.F.R. ordina alle squadre del partito di procedere all'immediato arresto degli esecutori materiali o dei mandanti morali degli assassinii. Previo giudizio dei tribunali speciali, detti esecutori o mandanti siano passati per le armi. Per mandanti morali intendo i nemici dell'Italia e del fascismo, responsabili dell'avvelenamento delle anime".
Praticamente, le squadre hanno carta bianca di arrestare chi meglio credono. E' l'inizio di una spirale di violenza che insanguinerà il paese e della quale Pavolini sarà il principale responsabile.
Curiosamente, mentre il neosegretario si affanna per affermarsi come il nuovo capo del fascismo repubblicano, negli ambienti di Salò già maturano i primi intrighi fra i gerarchi che intendono scalzarlo. Ma più sorprendente è la diffidenza che i tedeschi continuano a nutrire nei confronti di questo sconcertante personaggio. Fin dalla sua nomina alla segreteria, infatti, la Gestapo ha ordinato al suo rappresentante romano, Herbert Kappler, un minuzioso rapporto sul conto di Pavolini. Tale rapporto, ritrovato in Germania negli archivi della polizia nazista, porta la data del 15 novembre 1943, e dice:
"Da qualche tempo le accuse contro Pavolini si stanno talmente moltiplicando e accumulando, che si ritiene opportuno procedere a un controllo il più possibile esatto. Soprattutto prima del 25 luglio e benché rivestisse la carica di ministro della Cultura popolare, il Pavolini avrebbe dato aiuto ai noti antifascisti e a elementi antitedeschi. Particolarmente sospette appaiono le sue relazioni con la famiglia Uzielli-Philipson, ebrea; intime al punto che, durante le sue visite a Firenze, il Pavolini è stato ospite fisso di tale famiglia, e ciò finché il problema degli ebrei non si è posto in modo deciso. Se ne può dedurre che, proprio come riflesso di questa relazione, egli ha portato nella campagna antiebraica uno spirito straordinariamente mite, accomodante e conciliativo. D'altra parte le persone che Pavolini ha protetto durante il suo periodo ministeriale non possono essere giudicate altrimenti che come antitedesche, e gli amici fiorentini appartengono tutti al cosiddetto «circolo Ciano»".
Il rapporto specifica scrupolosamente anche i nomi degli informatori: Cucco, Uffreduzzi, il barone Evola e gli altri amici personali del segretario. Uffreduzzi sembra essere stato il più loquace. Egli segnala a Kappler che le relazioni con gli Uzielli risalgono al tempo in cui i due ragazzi Pavolini, Alessandro e Corrado, si erano trovati praticamente orfani, «vivendo il loro padre nelle reti di una signora finlandese». Uzielli fece loro da padre e da guida. Più tardi, riferisce ancora il delatore, Corrado sposava un'«ebrea integrale», Marcella Hanau, mentre Alessandro aveva allacciato una relazione con «un'attrice ebrea», Doris Duranti. Questo spiegava a Kappler il loro atteggiamento antirazzista. Il rapporto così continua:
"Secondo una testimonianza del giornalista del «Messaggero», Raffaele Guzman, Pavolini, appresa la notizia del 25 luglio, fuggì dal giornale dopo avere fissato con lui un appuntamento per strada. Qui gli diede due scritti: uno era la richiesta di liquidazione ai fratelli Perrone, proprietari del «Messaggero»; l'altro era un telegramma di adesione al governo Badoglio. Guzman afferma di avere inoltrato il primo, ma non il secondo: l'adesione gli parve un gesto affrettato e intempestivo. Fu per questo mancato incontro che Pavolini poté diventare segretario del Partito fascista repubblicano. Per un giudizio esatto sulla psicologia di Pavolini, occorre tenere conto della sua appartenenza a quel tipo che in Italia si definisce «cordiale». Egli agisce di solito per pura cortesia, e gli capita di essere sospinto in situazioni che non desidera. Anche negli ambienti romani Pavolini ha sempre goduto la fama di bravo ragazzo".
Nel lungo rapporto - che porta la firma di Kappler, ma pare sia stato redatto da un giornalista tedesco di nome Mayer, che lavorava per la Gestapo - vengono passati in rassegna anche gli amici più intimi di Pavolini. Sono fascisti o antifascisti? Pierfilippo Gomez, detto Piffi, consigliere nazionale, è giudicato «bravo soldato, fedele gregario, ma sua moglie è inglese e svolge propaganda antinazista». Dello scrittore Bino Sanminiatelli si afferma: «Tutti sanno che ama gli ebrei quanto odia i tedeschi. Però è esponente di una corrente avanzata di fascismo, mentre sua moglie, contessa Castelbarco, non vede che per gli alleati». Poi si parla di un altro amico di Pavolini: Alessandro Contini Bonacossi, di cui Kappler si è fatto dare i dati dal distretto militare di Ancona. Risulta che è alto un metro e sessanta, ma Kappler che lo ha visto, ha notato che supera il metro e novanta: si è abbassato di trenta centimetri per non fare il servizio militare. In compenso sembra un fascista autentico e un insaziabile mangiaebrei. Ma poi Kappler ha scoperto che suo padre si chiama Mosè...
Queste sono le ragioni per cui i tedeschi sono portati a diffidare del neosegretario del Partito fascista repubblicano. Pavolini, come vedremo, li costringerà a ricredersi.