Capitolo sedicesimo

«PRECAMPO A COMO»

 

«Precampo a Como! Precampo a Como!» borbotta Mussolini rientrando in prefettura dopo il deludente incontro all'arcivescovado con i rappresentanti del C.L.N. Sono circa le 19 del 25 aprile 1945. Mussolini non ha trovato alcun accordo con i capi della Resistenza che hanno accettato di incontrarsi con lui su invito del cardinale Schuster, ma si è soprattutto indignato quando ha appreso di essere stato abbandonato anche dai tedeschi, i quali hanno iniziato le trattative per proprio conto. «Questo è l'ultimo tradimento» ha commentato con amarezza.

Ma che significa «precampo a Como»? E' la prova che Mussolini, vistosi privare di ogni altra via d'uscita, ha definitivamente accolto il progetto di Pavolini. L'«ultimo campo» sarà la Valtellina.

Per tutto il giorno, nei corridoi affollati della prefettura milanese di corso Monforte e dell'adiacente sede del partito di via Mozart, a essa direttamente collegata, non si era parlato d'altro. Generali e ministri, militi e borghesi, in un confuso frenetico agitarsi, si erano perduti, nell'attesa delle decisioni del Duce, nei più assurdi progetti e nelle più improbabili soluzioni. La confusione era enorme. Curiosamente si notavano pochissime uniformi e molti «doppiopetto». Finalmente, la grisaglia aveva la meglio sull'orbace. Grosso modo, i fascisti si erano divisi in due gruppi. I pavidi e i moderati, come il cieco di guerra Carlo Borsani, epigono dell'«abbraccio fraterno», propendevano per il «passaggio indolore», ossia la resa agli alleati e ai partigiani; i duri, come Vincenzo Costa, capo delle Brigate nere milanesi, il capo di Stato maggiore di Pavolini, generale Eduardo Facduelle, il comandante della Muti, Francesco Colombo, Vito Casalinuovo e altri insistevano per l'immediata partenza per la Valtellina. «Ma che passaggio indolore d'Egitto!» gridavano questi esagitati. «Lo volete capire che ci faranno a pezzi?» Forse erano i più realisti.

Pavolini, più eccitato che mai, aveva comunque continuato a lavorare al suo progetto. In seguito, il comandante delle Brigate nere sarà schernito anche dai suoi per questa sua idea fissa della ridotta. Una ridotta che esisteva soltanto nella sua fantasia di romantico incurabile, perché nella realtà quasi nulla era stato preparato in Valtellina in vista di una estrema difesa. Ma di questo, per la verità, lui stesso era consapevole. Appena la sera prima, infatti, il generale Onori lo aveva personalmente informato della situazione. Fino a quel momento si erano concentrati nella zona - dove esisteva un solo campo trincerato - circa quattromila uomini, comprendenti elementi delle Brigate nere di Pistoia e di Firenze, della Guardia del Duce, delle S.S. italiane, della Guardia nazionale repubblicana, oltre tre battaglioni della Milice française di Darnand, le Brigate nere francesi, affluiti nella valle attraverso la Germania.

Troppo pochi per organizzare una resistenza disperata? Certamente sì, anche se a questi uomini si fossero aggiunti gli altri cui Pavolini aveva ordinato di concentrarsi nella ridotta. Ma vale la pena di chiedersi quale sarebbe stato il comportamento degli Alleati e dei partigiani di fronte a questo pur sempre forte contingente di forze. Lo avrebbero attaccato, rischiando la perdita di molte vite umane, proprio ora che la guerra stava per finire? Probabilmente sarebbero scesi a patti; come peraltro accadde in Alto Adige, dove si concentrarono tutte le forze tedesche.

Naturalmente si tratta di ipotesi, non sappiamo neppure se Pavolini abbia meditato su tutto questo. E' certo tuttavia che se i fascisti fossero rimasti uniti, invece di disperdersi come un formicaio impazzito, molti di loro avrebbero, se non altro, evitato di essere sommariamente giustiziati.

Ma il fatto è che quel 25 aprile i capi fascisti che si agitano nella prefettura di corso Monforte sono spaventati, confusi e divisi. Molti hanno già preparato i bagagli per squagliarsi al momento opportuno, altri, ingenui, sono convinti di non essere singolarmente responsabili dei crimini compiuti dalla R.S.I. Perché dunque seguire quella banda di disperati?

Uno di questi è Graziani. Avendo sempre proclamato l'apoliticità del proprio esercito, ora spera di poter separare la propria sorte dagli altri, arrendendosi agli Alleati. «Fra militari ci si intende sempre» è la battuta che ripete in quei giorni.

Proprio con Graziani, Pavolini ha avuto un duro scontro. Il primo della giornata. Il diverbio scoppia nella stanza di Mussolini. Mentre questi si sta consultando con il maresciallo e il generale Renzo Montagna, Pavolini, a un certo punto, entra e dice: «Duce, ho dato ordine a tutte le Brigate nere della Liguria e del Piemonte di ripiegare su Como. Prevedo in giornata l'arrivo di venti-venticinquemila uomini. Tutti insieme proseguiremo per la Valtellina».

Infuriato, Graziani interviene. «Il vostro progetto è illusorio e ineseguibile» urla. «Trovo ignobile continuare a mentire fino all'ultimo momento. E' stolto e puerile continuare a illudere il Duce.» Pavolini reagisce con fredda rabbia: «Maresciallo, il rispetto alla vostra persona e alla vostra età è una cosa, subire un insulto è un'altra».

«Ma lo volete capire che tutto va in rovina?» ribatte Graziani.

«Siamo dunque a un nuovo 8 settembre?» interviene Mussolini.

«Assai peggio» risponde il maresciallo.

Pavolini, livido di rabbia, interrompe la conversazione: «Duce, non avendo altro motivo per intrattenermi con il signor maresciallo, vi chiedo il permesso di uscire». E se ne va battendo i tacchi.

Più tardi incontra il comandante della Decima MAS. Junio Valerio Borghese è l'unico a essere stato messo a conoscenza da Wolff che i tedeschi stanno trattando. Di conseguenza, il principe romano ha già preso le sue decisioni. Così, quando Pavolini gli chiede se intende raggiungere con i suoi uomini la Valtellina, lui risponde con un secco diniego. «Che farete, allora?» domanda furibondo Pavolini. «Ci arrenderemo» risponde l'altro senza scomporsi «ma a modo nostro.» Per poco non vengono alle mani.

Nella serata del 25, dopo l'ordine di Mussolini di raggiungere il precampo, Pavolini si fa più disteso. Frettolosamente, convoca nell'ufficio di Luigi Gatti, segretario privato del Duce, una riunione per organizzare la partenza. Ci sono Zerbino, Mezzasoma, Barracu, Costa, Colombo e altri. «Il Duce ha deciso» annuncia trionfante Pavolini. «Si va.» Poco dopo entra nella stanza Filippo Diamanti, un generale dell'esercito che ha assunto da poco il comando della regione. «Ho preso accordi con i partigiani» riferisce soddisfatto. «Manterremo insieme l'ordine nella città costituendo pattuglie miste.» A questo punto, Pavolini nota qualcosa di insolito sulle mostrine dell'ufficiale: al posto dei gladi con fronde d'alloro, simboli dell'esercito repubblicano, sono tornate a brillare le stellette sabaude.

«Che significa questa mascherata?» chiede ringhioso. Diamanti sorride e alza le spalle: «Caro Pavolini, se volete salvare anche le vostre Brigate nere fareste bene a fargli cambiare la camicia».

Per Pavolini è troppo. Preso da un attacco isterico, si scaglia contro il generale con rabbia. «Gli ordini li deve dare soltanto il Duce» urla. «Solo lui. Lo avete dimenticato? Sì, lo avete dimenticato.» Poi aggiunge con disprezzo: «Che schifo!». E se ne va sbattendo la porta.

Pochi minuti dopo scende nel cortile della prefettura a salutare i partenti per il precampo. Lui ha deciso di rimanere a Milano fino all'ultimo per organizzare il concentramento dei fascisti a Como.

La malinconica scena della partenza di Mussolini è stata più volte descritta. Mussolini, serio in volto, prende posto sulla sua macchina in sosta nel cortile della prefettura e poi chiama a sedergli accanto Nicola Bombacci. Curioso il destino di questo comunista che fu amico di Lenin e che partecipò alla rivoluzione bolscevica. In quel momento, mentre in giacca blu e pantaloni a righe prende posto accanto al Duce, sta diventando protagonista di un altro episodio storico. Poco prima, accingendosi a seguire Mussolini, ha detto: «Dove va lui, vado io». E, a chi gli dice che la valigetta che si porta appresso è un po' piccola per un viaggio come quello, risponde che è troppo esperto di fughe per portarsi appresso bagagli più ingombranti. Poi ricorda di quando, accanto a Lenin, osservava il progredire delle truppe di Judenich su San Pietroburgo: «Anche allora le cannonate facevano tremare i vetri e la situazione era quasi uguale a questa. Ma ora è peggio».

Con Mussolini partono, fra gli altri, Mezzasoma, Zerbino, Romano, Liverani, Tarchi, Barracu, Casalinuovo, Gatti, suo figlio Vittorio, suo nipote Vito, figlio di Arnaldo, l'altro nipote Vanni Teodorani e il giornalista Ernesto Daquanno, direttore della Stefani.

Non è una partenza tranquilla. Di quelli che restano, molti piangono, altri gridano: «Duce, non andare... Non lasciarci soli». Il più agitato è il cieco Borsani che, muovendosi a tentoni attorno alla macchina, supplica il Duce di rimanere, di attendere a Milano l'arrivo degli Alleati, di trattare con i partigiani «che sempre italiani sono...».

La scena è straziante. Pavolini, che avverte nelle invocazioni del mutilato un'implicita offesa a Mussolini, interviene per interromperla. «Non si tratta con i rinnegati» grida. Poi, visto che Borsani non intende smetterla, gli urla in faccia: «Il Duce non si arrende», e gli appioppa una sberla.

Carlo Borsani sarà fucilato dai partigiani due giorni dopo.

Finalmente la colonna si muove nella tiepida serata primaverile.

La città è calma. I teatri sono ancora aperti. All'Odeon si dà l'ultima replica di "Christian", con Renzo Ricci, Eva Magni e Vittorio Gassman. All'Ars c'è la compagnia Dapporto - De Rege che presenta la rivista "Bo-bi-bo". Con un certo ritardo vengono annunciati i numeri estratti dall'unica ruota del lotto ancora in funzione, quella di Torino: 40 20 66 31 62. I giornali riportano, nell'edizione della sera, il testo dell'ultimo telegramma che Hitler ha inviato a Mussolini:

"La lotta per l'essere o il non essere ha raggiunto il punto culminante. Impiegando grandi masse e materiali il bolscevismo e il giudaismo si sono impegnati a fondo per riunire sul territorio tedesco le loro forze distruttive al fine di precipitare nel caos il nostro continente. Tuttavia, nel suo spirito di tenace sprezzo della morte, il popolo tedesco e quanti altri sono animati dai medesimi sentimenti si scaglieranno alla riscossa, per quanto dura sia la lotta, e con il loro impareggiabile eroismo faranno mutare il corso della guerra in questo storico momento in cui si decidono le sorti dell'Europa per i secoli a venire".

 

Frattanto, a seguito delle disposizioni emanate da Pavolini, da ogni parte del Norditalia raggruppamenti di fascisti sono in marcia verso Como. Molti si portano dietro la moglie e i figli. Pare incredibile, ma Mussolini, nel cui nome Pavolini ha lanciato l'appello, esercita ancora un forte fascino.

Avvertite dal tam tam della fatiscente repubblica, raggiungono Como, per l'ultimo saluto, le famiglie dei capi, alloggiate qua e là nella zona dei laghi. Anche la signora Teresa Parisi, alias Pavolini, vi giunge con i suoi tre figli. Saranno sistemati alla meglio in prefettura.

Dora Pratesi, alias Doris Duranti, è invece già al sicuro in Svizzera. Il 24 sera ha lasciato villa Sucottina, fra Moltrasio e Cernobbio, a pochi chilometri dal confine, dove ha abitato in quegli ultimi mesi in compagnia del suo cugino-protettore Fontana.

Ma lasciamo a lei la parola, secondo quanto raccontò al giornalista Enzo Magri:

"Un giorno presi contatto con un uomo di cinema svizzero che per diecimila franchi mi promise la fuga in Svizzera e il ricovero in una clinica. Passammo il confine con dei risaioli. Diciotto ore di marcia. Tutto organizzato. Erano già passati altri. Su un ponte troviamo una vecchia con un fiore bianco. Era il segnale... Passiamo il ponte in mezzo ai risaioli. Sui fianchi guardie italiane, svizzere, tedeschi e partigiani. Mio cugino ha un attacco di cuore. Un dramma da non dirsi. Alle tre del mattino arriviamo a Lugano. Caffè a casa del signor Mazzocchi e poi il ricovero. E arriviamo alla clinica Moncucco: altri cinquemila franchi. Me lo ricorderò sempre. L'indomani in Italia si scatena l'inferno. La radio dice che hanno ammazzato questo, hanno ammazzato quest'altro. In quel momento arriva un cretino di infermiere che mi guarda e fa: «Ma questa è la Doris Duranti!». Allora, io e mio cugino veniamo presi dalla polizia svizzera. Per fortuna il loro capitano, Luciano Pagani, si innamora di me. E insieme, per salvarci, organizziamo un'altra messinscena. Ho dovuto persino sposarlo!"

Di questo marito di comodo, l'attrice livornese si libererà in Brasile (dove lui ha voluto seguirla) facendogli questo franco discorso: «Senti, caro. Io voglio essere sincera con te: è vero che tu mi hai salvato la testa. Però devi ammettere che tu mai nella tua vita avresti potuto, non dico sperare, ma neppure sognare di portarti a letto la Doris Duranti. Così ho pagato la mia testa con un'altra cosa. Chiaro? Perciò, ora io me ne vado per i fatti miei e tu te ne torni in Svizzera, ok?».

Secondo un'altra versione, meno scanzonata e più romantica, l'attrice non aveva nessuna intenzione di fuggire in Svizzera: voleva restare fino all'ultimo vicina al suo uomo. A convincerla sarebbe stato lo stesso Pavolini, con uno stratagemma. Le affidò, si dice, una valigetta colma di «documenti importantissimi» e la pregò di portarli al sicuro oltre la frontiera. Persuasa, Doris partì. Arrivata a Lugano, aprì quella valigetta e vi trovò un vecchio abito spiegazzato e un biglietto: «Grazie per la tua fedeltà e per il tuo bene. Sandro».

Se andò così, bisogna riconoscere che il congedo ebbe un suo stile.

E' la sera del 25 aprile. Adesso ad Alessandro Pavolini restano circa sessanta ore di vita. Partita la colonna di Mussolini, il comandante delle Brigate nere saetta per le vie della città, con il fedele Enzino. Indossa la consueta uniforme e guida personalmente l'auto scoperta. Gruppi di fascisti si aggirano disorientati per le strade. Altri hanno invece una meta precisa: piazza San Sepolcro. Qui, infatti, dove ha sede anche la federazione del partito, migliaia di uomini in armi si stanno radunando spontaneamente.

Tutto intorno alla piazza sono state alzate alcune barricate che, a dire del federale Costa, hanno sollevato le proteste del parroco «perché esse impediranno l'accesso in chiesa ai fedeli per la messa del mattino». Si parla concitatamente di difesa a oltranza nella «storica piazza del fascio primogenito». Ma i più sono incerti e confusi. Pavolini, comunque, contesta la loro decisione. «Bisogna portarli tutti a Como, dal Duce» ordina al federale Costa. Questi, da una finestra, spiega ai militi come stanno le cose. Il Duce ci attende a Como. Che facciamo? «Tutti a Como!» rispondono in coro.

La notte trascorre in preparativi. E' un'affannosa ricerca di automezzi, benzina, armi e viveri. All'alba, la «colonna Pavolini» è pronta a partire. Secondo quanto ha scritto Vincenzo Costa, si tratta di 178 automezzi, più tre o quattro carri leggeri della brigata nera Leonessa. In totale: 4636 fascisti e 345 ausiliarie.

Partono alle 6.20 da via Dante e attraversano la città senza registrare incidenti: i partigiani non si fanno vivi. Pavolini precede la colonna. Lungo la strada, appena fuori Milano, sono attaccati da alcuni caccia inglesi che fanno saltare un camion di munizioni e un altro carico di fusti di benzina. Si contano un paio di morti. Alcune ausiliarie sono ferite. Poi la marcia riprende a velocità sostenuta. Pavolini si agita come al solito: dà ordini, incoraggia, minaccia: non esita a estrarre la pistola quando è il caso.

Verso le 8 del 26 aprile, la colonna giunge alla periferia di Como. A Camerlata, Pavolini e Costa, che stanno procedendo in testa con le loro macchine appaiate, incontrano un gruppo di ciclisti in abiti civili. Fra costoro, Costa riconosce l'avvocato Mario Bassi, capo della provincia di Milano. «Che succede? Dove stai andando?» gli chiede.

«Me ne vado a casa, a Varese» risponde Bassi. «Io il mio dovere l'ho compiuto. Il Duce è partito. Se ne è andato nella notte, senza dir nulla. Che ci stavo a fare a Como?» Pavolini sbianca in viso. «Partito? Non è possibile.» Poi ordina a Bassi di non parlarne con gli altri: tutti devono credere che il Duce li stia aspettando.

Como rigurgita di fascisti in armi. Si sono accampati davanti alla federazione del partito con i loro bagagli e le loro famiglie. «Attendiamo gli ordini del Duce» dicono a Pavolini quando passa in macchina in mezzo a loro.

Pochi istanti dopo, seguito da Romualdi, Costa, Motta e Colombo, il segretario del partito piomba nell'ufficio del prefetto di Como, Renato Celio.

Costa e gli altri, che attendono nell'anticamera, lo sentono gridare. Alle loro orecchie giungono frasi smozzicate: «Sempre lui! Sempre Buffarini!... Ma perché il Duce si è fatto convincere? Perché è partito... Perché... Perché...».

Il resto è noto.

Per Pavolini la giornata è affannosa, piena di rabbia e di imprevisti. La sera, prima di salire sull'autoblinda della brigata nera di Lucca, dopo aver parlato per l'ultima volta ai fascisti in piazza e promesso loro di andare a riprendere il Duce, ha un rapido incontro con la famiglia. Bacia i ragazzi, stringe al petto la moglie.

«Non ci dicemmo nulla» ricorda la vedova. «Un abbraccio e basta. Le parole non erano più necessarie per capire.» In strada, Pavolini incontra il suo vecchio amico Piffi Gomez, che lo aveva seguito a Salò e che ora è lì confuso con gli altri. Abbracciandolo, gli dice con tono scherzoso: «Vuoi conoscere il mio ultimo desiderio? Entrare in un cinema e godermi per due ore un bel film».