Capitolo tredicesimo
L'UNICA PATRIA E' QUELLA FASCISTA
Un pomeriggio di marzo del 1944, il regista Andrea Forzano, figlio di Gioacchino, il noto scrittore di teatro amico di Mussolini, si recò a Gargnano per chiedere al Duce il permesso di recuperare e portare a Tirrenia i rulli del film "Piazza San Sepolcro", che era finito a Venezia dopo il trasferimento al Nord dei materiali di Cinecittà.
Dopo aver trascorso la notte nel «treno reale» che funzionava da albergo per gli ospiti di riguardo, la mattina dopo si presentò a villa Feltrinelli. Essendo munito di documenti ineccepibili, ebbe facile accesso e un sottufficiale della guardia gli indicò la strada senza neppure accompagnarlo.
Avvicinandosi alla villa, il giovane regista notò con sorpresa una sentinella delle S.S. in uniforme mimetica e armata di Maschinen-pistole che, pur mantenendo un atteggiamento marziale, rivolgeva quasi di soppiatto curiosi sberleffi verso una finestra del primo piano. Incuriosito, Andrea Forzano girò alla larga, badando di non far rumore, per arrivare alle spalle del soldato intento a far boccacce. Ebbe così modo di vedere, con suo enorme stupore, nel riquadro di una finestra, il volto pallido e smagrito di Mussolini il quale, tenendo sollevata la tendina, contraccambiava gli sberleffi del tedesco torcendo le labbra e scuotendo la testa.
L'episodio ci pare sufficientemente significativo per dare l'idea del livello cui era sceso agli occhi dei tedeschi il prestigio del Duce e della sua repubblica.
Se questo non bastasse, c'è un altro episodio che riguarda il «numero due» della R.S.I., Alessandro Pavolini, o, più esattamente, la sua amica Doris Duranti.
Dopo il trasferimento al Nord dei fascisti, Doris aveva traslocato all'hotel Excelsior di Firenze. Era l'albergo in cui si davano convegno gli alti ufficiali tedeschi, i capi fascisti emergenti, i nuovi ricchi, le spie e gli avventurieri. Ogni sera organizzavano grandi feste: era l'allegria folle dell'ultimo atto. Si consumavano rapidi amori, ma accadevano anche fatti tragici. Una sera, per esempio, fu suonata "Giovinezza" e tutti scattarono in piedi, tranne l'industriale Piaggio, che rimase ostentatamente seduto. Un milite in camicia nera lo uccise con quattro colpi di pistola. Un'altra notte, un ufficiale tedesco ubriaco cercò di entrare nella camera della Duranti. Ma per quella volta il nome di Pavolini, pronunciato dalla donna, bastò a fermarlo.
Quel nome non le è invece di alcuna utilità quando, alcuni giorni dopo, vengono a prenderla quelli delle S.S. L'attrice protesta. «Vi farò arrestare da Pavolini» minaccia. Niente da fare: la sollevano di peso e la caricano in macchina. Nell'auto c'è anche un italiano, il quale le spiega come stanno le cose: «Dicono che siete una mezzosangue. Che avete dei parenti ebrei». Forse è vero, ma Doris non si è mai curata di questo.
Nella sede della Gestapo, alcuni ufficiali l'accolgono con brutalità. Uno le ordina di spogliarsi nuda, e lei obbedisce terrorizzata. La esaminano interessati. Uno degli ufficiali scopre che ha sulla spalla tre puntini neri, dei nei. «Questa è la prova» grida. «Questo è il tatuaggio della tua cabila.» Chissà se dice sul serio, o se è un suo curioso modo di divertirsi.
Intanto l'attrice, in lacrime, ripete di essere l'amica di Alessandro Pavolini. Di essere amica anche dei tedeschi... Gli altri sghignazzano. Ripetono che eseguono gli ordini del Führer, che di Pavolini non gliene importa un accidente. Poi la obbligano a danzare per loro, forse la violentano... Nel suo racconto, Doris non entra nei dettagli. Più tardi la trasferiscono nel carcere di Santa Verdiana e la rinchiudono in una cella con altre venti persone, tutti ebrei destinati ai campi di sterminio. Vi resterà tre lunghi giorni. Pavolini riuscirà a ottenere il suo rilascio dopo non pochi umilianti interventi presso le autorità germaniche. Ma non va a prenderla, manda al suo posto Pierfrancesco Nistri, l'ufficiale che lo aveva ospitato la notte del 25 luglio. Dopo la liberazione, Doris si trasferisce a Venezia, dove sono già approdati i naufraghi di Cinecittà, fra i quali Osvaldo Valenti e Luisa Ferida. Pavolini, per il momento, non si fa vivo.
In stato di perenne tensione nervosa, prigioniero del raptus che lo ha strappato, inguaribile romantico, dalla realtà, Pavolini è ormai un uomo solo, deciso a guidare con il mitra in pugno l'ultima battaglia del fascismo. Fin dall'inizio del suo segretariato, egli auspica la trasformazione del partito in un unico corpo armato. Non lo hanno ascoltato, e ora le forze armate della repubblica sono frantumate e divise. Graziani ha ottenuto il suo esercito apolitico, formato da giovani di leva, da richiamati recalcitranti e dagli ex prigionieri di guerra che si sono arruolati per sfuggire al campo di concentramento. Il principe Valerio Borghese ha la sua Decima MAS, un reparto speciale e combattivo, che si è distinto ad Anzio e che opera efficacemente nell'antiguerriglia; ma il «comandante» non vuole prendere ordini da nessuno e conduce, per così dire, una guerra personale. Poi c'è la G.N.R. (Guardia nazionale repubblicana) che, agli ordini di Renato Ricci, ha preso il posto della Milizia. Ma è un coagulo di fascisti, di ex carabinieri e poliziotti privo di nerbo e di organizzazione. Infine ci sono i gruppi autonomi, vere e proprie bande di avventurieri e di torturatori, che commettono ogni sorta di nefandezze sotto l'usbergo del mantenimento dell'ordine pubblico. A Milano, per esempio, operano in quei giorni ben sette «polizie».
Il sogno irrealizzabile di Pavolini è di annullare tutto questo e di enucleare in un unico organismo armato soltanto i veri fascisti ancora animati dallo spirito squadrista. Nel suo delirio è ancora convinto di poter far rivivere il tempo ormai perduto. «Squadristizzare il partito» diventa il suo motto, e Trotzkij il suo modello. «Come Trotzkij» continua a ripetere «occorre trasformare il partito in un'armata rivoluzionaria.» Ai primi di giugno del 1944 egli torna a Firenze dopo tanti anni. L'esercito alleato si è rimesso in movimento - Roma è stata liberata il 4 giugno -, e lui ha chiesto al Duce di potersi trasferire in Toscana per organizzare la difesa e l'eventuale esodo al Nord dei fascisti e delle loro famiglie. Ha anche un compito segreto e molto delicato: organizzare gruppi di resistenza, franchi tiratori e varie attività di propaganda e di sabotaggio per il «dopo». Si trovano accenni a questa sua missione nelle numerose lettere-rapporto che lui invia a Mussolini in quei giorni. Scrive infatti il 19 giugno:
"Particolare cura dedico all'organizzazione dei gruppi di attivisti da lasciare sul posto o eventualmente da irradiare al Sud. Iniziative ben consistenti sono state prese per Terni, Arezzo, Grosseto, Firenze, Livorno, Pisa: radio clandestine, tipografie, bande, movimenti politici".
Indirettamente, parla di questa sua missione anche alla moglie. Dopo averle detto che si trova all'Excelsior, «nella stessa camera che avevamo l'ultima volta che fummo qui per il Maggio del '33», così continua: «Io devo per ora rimanere in Toscana: ne ho avuto ordine e poi - tu capirai perché - è un compito che non posso lasciare ad altri».
E' il caso di dire, per inciso, che l'attività di circa quattrocento cecchini - tutti giovanissimi volontari - lasciati a Firenze da Pavolini continuerà a lungo dopo l'occupazione della città provocando vittime e creando seri problemi agli Alleati e alla polizia partigiana. Molti di questi ragazzi finiranno poi davanti ai plotoni d'esecuzione.
Pavolini è già a Firenze quando Roma cade. Quella sera, dal suo albergo, scrive ancora alla moglie che, nel frattempo, si è trasferita con i figli - sempre sotto il controllo tedesco - da Zürs a Cortina d'Ampezzo. E' una lettera molto malinconica. Dopo aver promesso alla figlia dodicenne Maria Vittoria la sua collaborazione a un giornaletto che la ragazza si fa da sola (ma è una mania di famiglia!), così continua:
"Ma questa sera non mi sento. E' come quando si sta attorno a una persona cara che si sa che deve morire - lo si sa benissimo - ma quando poi succede fa lo stesso un'impressione profonda. Così è di Roma che se ne va. Ma ci torneremo, ci torneremo... Un abbraccio dal tuo BU [zzino]".
A Firenze Pavolini non pensa soltanto ad armare i franchi tiratori. Vive anche momenti di intensa nostalgia e va come in pellegrinaggio alla ricerca del tempo perduto. Telefona, timido, a vecchi amici, molti dei quali non si faranno trovare. Si reca al cimitero di Scandicci a pregare sulla tomba della madre, poi non manca di passare da Seeber, la libreria di via Tornabuoni, da sempre luogo di incontro degli intellettuali fiorentini.
Racconta in proposito lo scrittore Alessandro Bonsanti:
"Una mattina, come al solito, passo da Seeber per dare un'occhiata alle vetrine. A un tratto mi accorgo di avere accanto Pavolini che sta frugando fra i libri. Non eravamo amici, ma l'avevo conosciuto ai tempi di «Solaria» e del «Bargello». Ci fu un momento d'imbarazzo: che faccio?, mi chiesi. Lo saluto? Forse avrebbe voluto farlo anche lui, ma non lo fece. Ci guardammo per un attimo, poi lui uscì. Due uomini armati fino ai denti lo aspettavano nella strada. Da allora, mi sono chiesto spesso perché non gli ho parlato. Avrei dovuto farlo? Certo non mi avrebbe fatto del male e forse avrei potuto scrivere qualcosa su quell'incontro".
A Firenze, Pavolini ha un contatto indiretto anche con Romano Bilenchi. Racconta lo scrittore:
"Durante il periodo della Repubblica di Salò, quale segretario del partito, Pavolini venne a Firenze per organizzare i franchi tiratori fascisti. Un operaio comunista riuscì a rubargli l'automobile con sopra un mitra e sei bombe. Io ho dormito per quindici giorni, gli ultimi dell'occupazione tedesca, su quell'automobile che era stata portata nella tipografia del Partito comunista. Ma se mi fossi trovato a combattere contro di lui e in condizioni di poterlo vincere non gli avrei sparato: avrei fatto di tutto per salvarlo".
Mentre l'avanzata alleata è in pieno svolgimento, Alessandro Pavolini si aggira freneticamente per le province toscane e spesso si spinge nelle prime linee, ora esortando alla difesa, ora organizzando l'esodo. Tutte le sere, puntualmente, riferisce al Duce con lunghe lettere scritte a mano. I suoi rapporti sono dettagliati e precisi, il quadro della situazione è reale, ma si avverte, qua e là, il suo ostinato, ossessionante proposito di convincere Mussolini che ci si può fidare soltanto dei veri fascisti.
Gli scrive, per esempio, il 19 giugno:
"Da per tutto, si è registrato lo squagliamento - quasi sempre con armi - dei carabinieri. Fatto più grave, quasi da per tutto parte della G.N.R. si è pure squagliata al contagio dei carabinieri e della situazione generale. Altrettanto - e più - dicasi dell'esercito... Chi ha retto le situazioni sono stati i fascisti e solo i fascisti".
E' il 20 giugno:
"Il Maresciallo Kesselring, che rimase impressionato per la defezione del battaglione italiano stanziato nell'isola d'Elba, passato al nemico con musica in testa, ha particolarmente insistito sul concetto che le nostre forze siano formate da nuclei, anche ristretti di numero, purché assolutamente fedeli. E si è dichiarato favorevole ai nuclei di fascisti armati... Nel caso che nei prossimi giorni la situazione al fronte si rafforzi, potrei partire: in caso contrario, reputo indispensabile partire per ultimo".
Il 22 giugno, di sua iniziativa, Pavolini arma gli squadristi di Lucca creando così la prima brigata nera, cui viene dato il nome di Mussolini (è la stessa brigata che dieci mesi più tardi, al comando dello squadrista di Empoli Idreno Utimpergher, lo scorterà nella strada per Dongo). Ne informa poi il Duce in una lettera del 24 giugno, nella quale lo mette al corrente anche delle trattative da lui avviate con l'arcivescovo Della Costa in vista dell'evacuazione di Firenze:
"Così stando le cose si è presa la decisione di lasciare le opere d'arte delle gallerie fiorentine e quelle ammassate qui dalla Toscana, dal Lazio e dall'Umbria - un tesoro di miliardi e miliardi - concentrate nei luoghi ove si trovano. Ho anche creduto opportuno prendere contatto con l'arcivescovo affinché egli possa far presente all'altra parte come la decisione di lasciare tutte le opere d'arte a Firenze costituisca un omaggio ai diritti inalienabili e secolari di questa città unica al mondo".
Pochi giorni dopo Firenze è liberata, ma Pavolini vi resta fino all'ultimo partecipando ai combattimenti. Riesce persino a far uscire un giornale fino a poche ore prima della caduta della città.
Le Brigate nere, ultima incarnazione della violenza fascista di Salò, hanno una nascita stentata e difficile. Gli avversari di Pavolini, consapevoli dell'enorme potere, anche militare, che verrebbe ad assumere il segretario del partito, fanno di tutto per ostacolarla. Mussolini, che ormai approva il concetto del segretario del partito («soltanto lo squadrismo potrà salvare il fascismo»), ha già firmato il decreto costitutivo, ma esita a pubblicarlo. Lo farà soltanto dopo la sua visita a Hitler, nella «tana del lupo» di Rastenburg, del 20 luglio 1944. Il suo incontro con il Führer, appena miracolosamente sfuggito a un attentato compiuto da elementi dell'esercito, lo convince ulteriormente della validità del progetto del suo fedele segretario. Confida infatti a Hitler: «D'ora in poi ci si potrà fidare soltanto del partito e delle sue organizzazioni». Gli uomini di queste organizzazioni, egli pensa, lotteranno sino all'ultimo perché combattono non solo per la propria vita, ma per quella delle loro famiglie e perché sanno cosa li attende se saranno i partigiani a vincere.
La data dell'annuncio è scelta bene, perché suona come una rivincita: il 25 luglio. Quella sera, a un anno dal «tradimento», Pavolini trionfante legge alla radio l'ordine diramato da Mussolini:
"Data la situazione che è dominata da un solo decisivo supremo fattore, quello delle armi e del combattimento, davanti al quale tutti gli altri sono di assai minore importanza, decido che, a datare dal primo luglio, si passi dall'attuale struttura politico-militare del partito a un organismo di tipo esclusivamente militare. Dal primo luglio tutti gli iscritti regolarmente al Partito fascista repubblicano, di età fra i diciotto e i sessanta anni e non appartenenti alle Forze armate repubblicane, costituiscono il Corpo ausiliario delle Camicie nere composto dalle squadre di azione. Le altre attività svolte fin qui dal partito vengono affidate agli enti competenti, e cioè: l'assistenza ai Fasci femminili, ai Comuni e alle altre organizzazioni; la propaganda all'Istituto nazionale di cultura fascista. Il segretario del partito attua la trasformazione dell'attuale Direzione del partito in Ufficio di stato maggiore del Corpo ausiliario delle squadre di azione delle Camicie nere. Le Federazioni si trasformano in Brigate del corpo ausiliario delle Camicie nere. Data la natura dell'organismo e i suoi scopi, il comando sarà affidato ai capi politici locali. Non ci saranno gradi ma soltanto funzioni di comando. Il Corpo sarà sottoposto a disciplina militare e al codice militare del tempo di guerra. Il Corpo sarà impiegato agli ordini dei capi di provincia, i quali sono responsabili dell'ordine pubblico e della sicurezza dei cittadini contro i sicari e i gruppi di complici del nemico".
Chi era vicino a Pavolini la sera in cui pronunciò alla radio il suo discorso lo ricorda emozionato e felice. Finalmente aveva raggiunto il suo scopo di trasformare il partito in un «ordine di combattenti», in un corpo di puri «in cui fiammeggia il vecchio fuoco fedele dello squadrismo». Sono sogni. Le Brigate nere si riveleranno nella loro grande maggioranza delle bande di canaglie e di torturatori, ma per il momento Pavolini può ancora cullarsi nelle sue illusioni. Al momento dell'annuncio della costituzione delle brigate, egli afferma, esagerando, che «ventimila squadristi sono già saldamente inquadrati». Si tratta in realtà di poche migliaia di uomini, quasi tutti provenienti dalle federazioni della Toscana, che lo hanno seguito dopo la caduta di Firenze e l'assestamento del fronte lungo la linea Gotica. Ad armare questi uomini hanno provveduto i tedeschi, ai quali il segretario del partito ha già esposto i suoi progetti, ottenendone l'approvazione. Racconta infatti il console Möllhausen:
"Pavolini aveva presentato la questione delle brigate in modo che poteva essere persuasivo: «Gli italiani non temono il combattimento e quelli che sono fedeli al Duce lo sono per davvero. Non amano però essere chiusi in caserma, inquadrati, irreggimentati, dover sottostare all'addestramento, portare vistose e pesanti uniformi. Il movimento partigiano ha successo perché il combattente nelle file partigiane ha l'impressione di essere un uomo libero. Egli è fiero del suo operato, perché agisce indipendentemente e sviluppa l'azione secondo la sua personalità e individualità. Bisogna quindi creare un movimento antipartigiano sulle stesse basi e con le stesse caratteristiche. Io» diceva Pavolini «ne prenderò la direzione. Diventerò capo delle Brigate nere e mi atterrò alle direttive che riceverò da Wolff. Le spese saranno a carico del governo di Salò, ma i tedeschi ci debbono dare le armi»".
Il generale Wolff e l'ambasciatore Rahn avevano trovato il progetto di loro gusto. Per assicurarsi il controllo diretto delle nuove formazioni fasciste, avevano messo al fianco di Pavolini il capitano delle S.S. Prinzing, in qualità di ufficiale di collegamento. Poi avevano consegnato le armi.
Parlando alla radio, Pavolini non nasconde che il principale scopo delle sue brigate sarà quello di liberare il territorio della repubblica dal movimento ribellistico, che si è sviluppato soprattutto in Piemonte. «Io vi parlo» precisa infatti «da una caserma del Piemonte dove sono affluiti i reparti della prima Brigata nera mobile al comando del segretario del Partito.» Le Brigate nere, spiega ancora Pavolini, si organizzano parallelamente su due binari:
"In ogni provincia vi è una brigata di stanza presidiaria, in ogni gruppo di province una brigata mobile che si sposta a seconda delle contingenze... La disciplina più rigorosa e sostanziale deve essere la caratteristica del Corpo. Si tratta di battersi. Niente requisizioni, arresti e altri compiti di polizia..."
Ricordando che sta parlando nel primo anniversario «del tradimento regio, senza il quale essi non sarebbero caduti», l'oratore comunica l'ordine di Mussolini di assegnare a ciascuna brigata il nome di un fascista repubblicano ucciso. Il nome di Ettore Muti è riservato alla brigata nera di Ravenna, quella di Torino si denomina Ather Capelli; quella di Milano, Aldo Resega; quella di Bologna, Eugenio Facchini; quella di Ferrara, Igino Ghisellini; quella di Forlì, Giuseppe Capanna.
Il 25 luglio di un anno prima, continua Pavolini, ha gettato l'Italia nell'onta e nel pianto.
"Ma tutto non è perduto se in questa data di infamia uomini di carattere si raccolgono intorno ad una netta bandiera, ad una bandiera che oggi davvero significa dedizione totale ed estremo rischio. Questa bandiera è il Fascismo. La parola Patria è una grande parola come la parola madre: ma tutti possono invocarla e non basta professarsi per l'Italia quando vi è anche un'Italia di Badoglio e di Palmiro Togliatti. Le nostre divisioni che tornano dalla Germania - e non è solo un materiale rimpatrio di individui, è il ritorno in Italia e all'onore delle armi - portano sulla baionetta un'idea politica. Né potrebbe essere diversamente in questo tempo, durante questa guerra che Mussolini definisce di religione. Anche il risultato della crisi determinata in Germania dal criminale complotto, in cui la vita del Führer è stata salvata per decreto provvidenziale, non va a favore dell'apoliticità delle forze armate, ma anzi favorirà l'accentuazione della loro politicità ideale".
Quest'ultima stoccata di Pavolini è diretta a Graziani, il quale, come è noto, difende il suo esercito apolitico e depreca addirittura l'esistenza di un partito fascista, ritenendolo elemento di discordia. Basta con gli equivoci, sembra dire il capo delle Brigate nere al capo dell'esercito, noi non si sta lottando per una generica patria apolitica; la nostra patria, l'unica patria ammessa, è la patria fascista. Questa guerra è una guerra di religione, una guerra politica, devono quindi essere i fascisti a guidarla e a combatterla.
Per il suo piccolo esercito politico, Pavolini ha pensato a tutto: all'abbigliamento («teschio di millimetri 30 per 18 da applicare al di sopra della visiera, camicia o maglione neri, giacca a vento impermeabile, possibilmente mimetica, pantaloni lunghi serrati alle caviglie») e alle famiglie dei suoi uomini («da questo momento tutti i fascisti devono considerarsi in stato di emergenza contro l'attività dei ribelli e per la difesa delle proprie famiglie. I componenti di queste devono essere armati in modo da formare di ogni casa un piccolo fortilizio dove non è possibile la sorpresa nel sonno»).
Più tardi organizzerà l'esodo al Nord delle famiglie dei suoi brigatisti, distribuendo documenti falsi affinché possano mimetizzarsi al momento opportuno. Anche i congiunti dello stesso Pavolini cambieranno nome, diventando la famiglia Parisi, di Livorno. Doris Duranti diventerà invece Dora Pratesi, di La Spezia. I documenti falsi venivano con maggior frequenza attribuiti ai comuni di queste due città perché i bombardamenti aerei avevano distrutto l'anagrafe di entrambi, e quindi sarebbe stato assai difficile eseguire controlli.