Capitolo ottavo

UN'ATTRICE PER L'ECCELLENZA

 

Chi comparve per prima a seno nudo sugli schermi dell'Italia littoria? Clara Calamai nella "Cena delle beffe" o Doris Duranti nel "Re si diverte"?

L'interrogativo è ancora sospeso e il primato conteso. I due film infatti comparvero contemporaneamente sugli schermi nella primavera del 1941 dopo avere ottenuto l'imprimatur dalla commissione di censura presieduta dal ministro Pavolini. E l'evento - uno dei più grandi del costume fascista - segnò anche una data nella memoria di milioni di giovani che affollarono le sale per vedere per la prima volta un seno dal vivo. Resta perciò da stabilire chi dei due registi prese per primo l'iniziativa. Ossia se il primato spetta ad Alessandro Blasetti, autore della "Cena delle beffe", oppure a Mario Bonnard, autore del "Re si diverte".

Ma se gli storici del cinema sono incerti, le due ormai attempate attrici non avevano dubbi.

Affermerà la Calamai: «Io fui la prima. La Duranti cercò di imitarmi subito dopo, ma se uno la va poi a rivedere capisce che quel seno non è neanche il suo: c'è un fotogramma che scatta e si vede il seno di un'altra. Insomma, glielo hanno doppiato».

Ribatterà la Duranti: «Non solo fui io la prima a scoprire il seno, ma lo mostrai restando in piedi, non da sdraiata come ha fatto la Calamai. E chi è esperto di queste cose, certo capirà la differenza...».

Ma lasciamo agli esperti il compito di assegnare il primato. Ci siamo infatti concessa questa frivola digressione solo per consentire l'entrata in scena di Doris Duranti, la bomba sexy del cinema littorio, che d'ora in avanti avrà un ruolo non secondario nella vita di Alessandro Pavolini.

Del rapporto che unì la bellissima attrice e il timido ministro - un rapporto soprattutto fisico, intenso e sofferto, caratterizzato dal temperamento passionale di entrambi - non si conoscono molti dettagli. Lui non le scrisse mai alcuna lettera, o comunque non ne sono mai state trovate. Neppure si confidò con qualcuno, tranne, raramente, con l'amico fraterno Piffi Gomez e, in una particolare occasione, con lo stesso Benito Mussolini.

Neanche la Duranti è stata molto loquace. Dopo essere uscita indenne dalla tragedia di Salò, dopo un matrimonio di comodo con il poliziotto svizzero che l'aveva salvata e una clamorosa fuga a Santo Domingo con il giornalista Mario Ferretti, l'attrice, deceduta nel 1993, ha fatto qualche accenno alla sua storia con Pavolini in un memoriale. Ma il tono da lei usato ha un suono falso, fra il beffardo e lo scanzonato, come se temesse di incrinare, con una confessione sincera, la sua reputazione di divoratrice di uomini.

In effetti la Duranti amò Pavolini forse più di quanto lui amasse lei. Da questa relazione, comunque, vantaggi ne ricavò pochi; soldi nessuno. D'altra parte, pur ammettendo un iniziale interesse dell'attrice a legarsi all'uomo che in quel momento dominava l'industria cinematografica, resterebbe da spiegare perché, se non lo amava, lei lo seguì al Nord sfidando le S.S. (che l'arrestarono e forse la violentarono perché mezza ebrea) e rischiando una fine non diversa da quella dell'altra «signora» di Salò, Claretta Petacci.

Scarse, su questa vicenda, sono le notizie che si possono ricavare dai fascicoli riservati nei quali Mussolini raccoglieva minuziosamente le spiate, le informative e le lettere anonime che riguardavano tutti i suoi gerarchi. Il dossier di Pavolini, peraltro, risulta essere il più modesto del voluminoso archivio mussoliniano. A differenza degli altri, che rigurgitano di ogni sorta di denunce, il suo, salvo alcune banali informative sulla «nota attrice», di cui diremo, contiene ben poco di rimarchevole. C'è la nota denuncia dell'OVRA che avanza sospetti sul suo lealismo politico; c'è la lettera anonima di cui abbiamo già parlato, relativa ai suoi «numerosi stipendi» ai tempi della campagna d'Abissinia, che si conclude con un rapporto (evidentemente richiesto da Mussolini) sulle consistenze patrimoniali del ministro. Da questo documento risulta che

"S.E. Pavolini è nullatenente, ma sua moglie Teresa Franzi ha acquistato nel 1936 un appartamento di cinque stanze in via Flaminia 389 (prezzo L. 60000) e nel 1941 due appartamenti composti di una stanza più accessori in via Tadolini, a Roma, per la somma complessiva di L. 60000".

 

Sulla base di questa scarna documentazione contenuta nel dossier e con l'ausilio di varie testimonianze raccolte, sarà comunque possibile ricostruire per grandi linee anche l'unica importante vicenda extraconiugale di Alessandro Pavolini. Ma non mancheranno lacune e imprecisioni. Anche perché molti ex collaboratori del ministro della Cultura popolare, come il suo attendente Enzo De Benedictis, l'ex capo del CONI, Puccio Pucci, l'amico Piffi e altri, erano talmente votati alla sua memoria che rifiutarono di entrare in questi particolari perché, dicevano, «non vogliamo far soffrire la vedova».

Per esempio, è già difficile stabilire la data del primo incontro fra l'attrice e il ministro. Sicuramente accadde a Livorno, città natale della Duranti, probabilmente nel dicembre 1941.

A quell'epoca, Pavolini ha trentotto anni. Apparentemente è un uomo arrivato. La vita è stata prodiga con lui: ha una moglie affettuosa e fedele, tre figli e una posizione di grande rilievo al vertice del regime. Per giunta, a differenza di altri gerarchi privi di alternative, lui dispone anche di un'uscita di sicurezza: il giornalismo e la letteratura. Dovrebbe essere soddisfatto, invece è inquieto e scontento. Soffre di crisi di malinconia e si distrae scrivendo poesie crepuscolari, di stampo pascoliano, che legge alla moglie e poi straccia, «perché un ministro fascista non può scrivere queste cose in tempo di guerra».

Probabilmente non è soddisfatto del posto che occupa. Lui, oltre la poesia, ha sempre amato l'azione. Non per nulla si è fatto più volte richiamare in servizio e ha partecipato, con una squadriglia da bombardamento, alla campagna di Grecia, dove ha ottenuto una seconda medaglia d'argento. Ma quella sua seconda esperienza bellica non è stata molto esaltante. Diversa e ben più grave è la situazione di quando, dall'Asmara, scriveva a Ciano: «Meglio volare, bombardare e non pensare ad altro. Allora tutto ridiventa bello e luminoso...».

Che le vere aspirazioni di Pavolini andassero al di là del suo compito di ministro della Cultura popolare, impegnato a «mobilitare le coscienze» con la sistematica falsificazione della realtà, lo si deduce anche da molti altri indizi. Lo prova pure una sua confidenza a Jò di Benigno, una biografa di Mussolini. «Che equivoco» le confessa ricevendola al ministero nell'aprile del 1941 «avermi messo in questo ufficio.» A incupirlo contribuisce anche il presentimento dell'imminente tragedia. Lui, per la verità, non è mai stato ottimista, ma oltre al suo naturale pessimismo, pure l'intelligenza gli suggerisce che l'impresa è disperata. Anche se tutto questo - è probabile - invece di avvilirlo lo mette in stato di permanente eccitazione. Pensa spesso alla morte, alla «bella morte» cui inconsapevolmente è votato.

D'altra parte, la situazione è realisticamente grave. L'euforia dei primi mesi di guerra, alimentata soprattutto dai clamorosi successi tedeschi, si è da tempo dissolta. Le forze armate italiane, tanto esaltate dal regime, hanno da tempo rivelato la loro totale impreparazione. Dall'inizio della guerra non si è registrato neppure un solo successo militare, e Mussolini ha invocato invano «almeno una giornata di sole». Le cose vanno male su tutti i fronti, e anche i tedeschi hanno perduto la loro sicumera. In Russia, dopo la fulminea campagna estiva, la Wehrmacht segna il passo davanti a Mosca, dove l'attende un inverno terribile, e dopo l'intervento nel conflitto degli Stati Uniti, le probabilità di affermazione a vantaggio dell'Asse si sono drammaticamente assottigliate. Pavolini è consapevole di tutto questo. La sua posizione gli consente inoltre di tastare quotidianamente il polso del paese: un polso fiacco che rivela come l'ondata di sfiducia abbia ormai travalicato i limiti di sicurezza. Ma non ci può far nulla: con lo scoppio della guerra il ruolo del ministro della Propaganda - anziché essere esaltato come è accaduto in Germania con Goebbels - in Italia è stato declassato a un livello secondario. Praticamente, Pavolini è escluso dai grandi centri decisionali, e spesso se ne lamenta con Ciano. Lui vorrebbe fare, vorrebbe agire, ma non dispone degli strumenti necessari.

Questo suo sentirsi inutile, tuttavia, non lo spinge a chiudersi in se stesso, o magari a prendere le distanze da una situazione pericolante. L'opportunismo non è un'erba che alligna nel suo campo. Desideroso com'è di servire la causa fino in fondo, aspira semmai a posti di maggiore responsabilità. Insomma, se per un verso tale stato di cose aumenta la sua frustrazione, per l'altro dà alimento a quella sua fede fanatica di fascista romantico che lo spingerà progressivamente verso punte di furente intransigenza.

E' sintomatico, per capire il personaggio, un episodio che lo vide, qualche tempo prima, protagonista di un violento scontro verbale con il maresciallo Badoglio. I due uomini si erano incontrati nell'anticamera del Duce, a palazzo Venezia, verso la fine di novembre del 1940. La campagna di Grecia era in corso da un mese, con risultati disastrosi, e già fra i vertici del regime e quelli dell'esercito era cominciato il palleggio delle responsabilità. In attesa di essere ricevuti da Mussolini, i due uomini si erano scambiati pochi convenevoli, poi Badoglio aveva subito affrontato il tema del giorno: le operazioni in Grecia. Abituato alle mormorazioni di corridoio, allora molto diffuse, con interlocutori consenzienti o tolleranti, il vecchio maresciallo era andato per le spicce: «I comandanti dello scacchiere greco-albanese hanno commesso molti errori» aveva borbottato. E subito aveva aggiunto, con tono confidenziale: «Ma creda a me, eccellenza, la colpa maggiore bisogna cercarla altrove, ed è tutta nel comando di Mussolini. Lui non può esercitare anche il comando militare. Deve lasciar fare a noi e semmai, quando le cose vanno storte, colpire i responsabili. Ciascuno insomma deve fare il suo mestiere».

Il discorso di Badoglio era piuttosto assennato, ma Pavolini scattò in piedi come fosse stato punto da una vipera: ogni critica al Duce era per lui un sacrilegio.

«Voi non avete il diritto di parlare in questo modo!» aveva urlato con gli occhi fiammeggianti di odio in faccia al maresciallo. «Sarà mio dovere riferire al Duce quanto mi avete detto. Parola per parola.» E aveva mantenuto la promessa.

Mussolini andò su tutte le furie dopo aver ascoltato la «spiata» del suo ministro. «Quel Badoglio è un nemico del regime!» gridò. «Un traditore della patria. Con lui sono stato fin troppo paziente...» L'indomani, Farinacci pubblicò su «Regime Fascista» un violento attacco contro il capo di Stato maggiore. E quando Badoglio andò a protestare con Mussolini, questi gli mostrò la dichiarazione scritta da Pavolini che ricostruiva il loro colloquio. Il maresciallo la lesse, fremente di rabbia, e la dichiarò «non rispondente al vero». Ma più tardi presentò le sue dimissioni «per motivi di età e di salute». «Quel Pavolini me la pagherà» dichiarò in seguito Pietro Badoglio. «I piemontesi del mio stampo non dimenticano.» C'è un altro episodio di quei giorni che può servire per far luce sulla complessa personalità di Alessandro Pavolini. Lo rievoca l'attrice Elsa de' Giorgi nel suo libro "I coetanei".

Verso la fine del 1940 e l'inizio del 1941, il Minculpop era solito organizzare incontri fra attrici cinematografiche e soldati feriti che rientravano dal fronte greco. Le scene, abilmente manipolate da noti registi e riprese dagli operatori del Film-Luce, dovevano dare agli spettatori la sensazione che i nostri feriti godessero di ogni assistenza in un ambiente eroico e sereno. La realtà, naturalmente, era ben diversa.

Fu appunto durante una di queste visite impietose in un ospedale romano che Elsa de' Giorgi non riuscì a interpretare la parte che le era stata assegnata perché sconvolta dallo spettacolo che le si era presentato davanti agli occhi. Racconta l'attrice:

"Mi salirono le lacrime agli occhi mentre dicevo ancora «ci scusi» e ruggii sola, gli occhi accecati di pianto, riattraversando a caso le camerate oscure, biancheggianti di quei lettini fitti, brulicanti di feriti. Trovai la porta d'uscita e risalii sola sul taxi sgangherato che era ancora lì ad attenderci. Non aspettai le altre; detti l'indirizzo del ministero della Cultura popolare. Il cuore mi batteva forte come quando decidevo qualcosa per cui mi occorreva molto coraggio. Quando scesi in via Veneto, entrando in portineria per farmi annunciare, pensai che era assurdo quello che stavo per fare: era domenica e il ministro non poteva esserci, ma ormai il portiere aveva comunicato, un po' stupito, il mio nome alla segretaria, mentre mi sbirciava curioso e diffidente aspettando la risposta con la cornetta all'orecchio. Con sua evidente sorpresa si sentì ordinare dalla segretaria un: «... Fate salire, l'eccellenza attende». Premurosissimo, allora, si affrettò ad aprirmi l'ascensore, richiudendolo con cura e precisando quale bottone dovevo premere.

All'arrivo della cabina trovai ad attendermi un giovane che si inchinò silenzioso e mi precedé camminando rapido e discreto. Schiuse una grande porta, si fece di lato e m'introdusse in un salotto pieno di divani ampi e poltrone soffici e basse. «Accomodatevi, l'eccellenza verrà subito.» Io restai in piedi stordita, ancora tutta vibrante per ciò che avevo visto e provato là all'ospedale, e quell'essere ricevuta prontamente da Pavolini era stato così inaspettato che non ero riuscita a cancellare la mia ribellione.

Pavolini entrò quasi subito, serio, la sua fronte curiosa, cocciuta e infelice sotto i capelli nerissimi che, con i baffi, interrompevano il pallore del viso. Lo avevo visto una sola volta prima di allora, ma lo ricordavo nitidamente. Mi guardò timido, con una dolcezza carica e carezzevole dei begli occhi neri. Pareva che il suo sguardo scaturisse da quella fronte convessa, brutta e dolorosa. Con un gesto cortese mi invitò a sedere ma io, veemente, lo investii con parole affollate, il viso infiammato, gli occhi che mi si riempivano di lacrime.

Dapprima egli non capì nulla, né da dove venissi, né di che parlassi. Continuava a sentirsi ripetere: «Ci vada, eccellenza, ci vada lei in quell'ospedale a vedere con i suoi occhi la beffa ignobile a cui si espongono quelle migliaia di mutilati, di moribondi. Vada a vedere le facce degli ufficiali». Finalmente il giovane ministro parve orientarsi: il suo pallore si accentuò sotto la preoccupazione della gran fronte infelice; si stirava il labbro inferiore con gesto nervoso e ripetuto.

Io ero quasi alla fine della mia esplosione. E, mentre esaurivo gli argomenti di quella ribellione, mi ascoltai dire: «Vi impiccheranno. Non possono che impiccarvi, non lo capite?».

Avevo finito. Quasi risvegliandomi guardai bene in faccia il mio muto interlocutore col cuore percosso di sgomento. Che avevo fatto? Che mi sarebbe successo ora? Anche le lacrime mi avevano abbandonata al lampo lucido della coscienza.

Il ministro si scostò lentamente e andò a sedersi su di una poltrona bassa, i gomiti sulle ginocchia, il viso appoggiato sui pugni chiusi. Io restai immobile dov'ero in silenzio.

Allo sfumare di quell'impeto, si andava sostituendo, ora, una calma ragionata piena di pudore. Avrei voluto essere lontana di là; non mi pentivo di ciò che avevo detto: non riuscivo ad avere paura. Solo mi sentivo umiliata di dover stare lì ad aspettare come una colpevole: perché in quel luogo, davanti a quell'uomo, le cose che ero venuta a dire erano una colpa che quel ministro doveva punire.

Mentre pensavo questo, guardavo con una certa curiosità la figura esile e bruna, rannicchiata su quella poltrona, col viso contro i pugni stretti. Quanto aspettai così? Non lo ricorderò mai, ma quando egli alzò la testa e mi guardò, capii che lui non mi giudicava, non mi rimproverava: era solo intensamente sgomento; quella sua fronte triste e pallida rifletteva da una lampada un riverbero che ne accentuava la convessità e la faceva somigliare a un globo, a qualcosa di assolutamente estraneo al suo corpo.

Mi guardò a lungo come a contemplarmi incuriosito, poi, restandosene seduto laggiù, quasi in terra, disse lentamente, e la sua voce era bella, morbida: «Ha ragione. Ha ragione. E' assurdo quello che facciamo». Si alzò perplesso e girò distratto dietro a un tavolo grande, carico di telefoni; certo il suo tavolo. Vi si sedette. Io che gli ero prossima, sedetti di fronte a lui e restammo ancora a guardarci, ormai confidenti e scoraggiati.

«Non è questo solo» proseguiva lui. «Sono tante cose come queste che non tengono conto di quello che pensano gli altri. E siamo soli, siamo sempre più soli, noi lo sentiamo bene. Ma per questo stia tranquilla: non si ripeterà più.» Mi guardava con una specie di complice abbandono, fiducioso, quasi placato per aver potuto un momento essere sincero.

Il campanello di uno di quei telefoni squillò. Il suo viso si irrigidì. Afferrò rapidissimo il ricevitore, ascoltò un attimo, poi scattò in piedi con prontezza così militare che mi parve di sentire battere i tacchi. La sua voce era diversa; tutta attutita da un rispetto religioso. Diceva soltanto: «Sì, Duce. Sì, Duce». Uno spazio di tempo in cui ascoltò più a lungo, intensificando quella espressione quasi aggressiva di ossequio, poi ancora: «Sì, Duce, agli ordini».

La trasformazione di quell'uomo durante i pochi attimi della conversazione telefonica fu sorprendente. Sconcertata lo guardai sperando di vedere riapparire la persona civile e malinconica che mi aveva consolata pochi istanti prima, ma ormai egli era chiuso, lontano, svagato nell'impero di quella voce. Mi guardò come se mi vedesse solo allora. Restò in piedi in un atto che ora parve consigliare il congedo. Mi alzai, infatti, ed egli mi accompagnò alla porta cortese e distratto. Lo guardavo ancora intenta ed egli, forse memore di qualche commozione a quello sguardo, disse: «Non parli a nessuno del nostro colloquio. Io l'ho considerato un gesto di amicizia e spero di dargliene la prova».

La prova fu, forse, che da quel giorno furono sospese per tutta la durata del fascismo le visite delle dive agli ospedali militari".

 

Quando Doris Duranti incontra per la prima volta Alessandro Pavolini, a Livorno, sul finire del 1941, lei è già un'attrice famosa e affermata. Ventiquattro anni, un fisico slanciato e aggressivo, i capelli corvini, un viso bellissimo, di una bellezza esotica, occhi splendidi, temperamento sensuale, una via di mezzo fra Joan Crawford e Maria Felix, Doris è in quel momento la diva che più di tutte eccita la fantasia dei maschi italiani. Di carattere ribelle, libera, estroversa, spregiudicata, è scappata di casa a diciotto anni per seguire il «bello» del momento, l'attore Nino Besozzi. A Roma, dov'è approdata, questa ragazza senza inibizioni non ha faticato a farsi accettare a Cinecittà. In breve tempo è diventata la «pasionaria» del cinema italiano. Fra tutte le bamboleggianti attrici dell'epoca dei «telefoni bianchi», lei è certamente l'unica femmina sanguigna e sensuale che non sfigurerebbe tra le rappresentanti dell'odierno genere erotico. Quando conosce Pavolini ha già al suo attivo un numero discreto di buoni film: "Sotto la croce del Sud", "Sentinella di bronzo" e "Il re si diverte". A Livorno è ritornata per motivi di lavoro: sta infatti girando "Carmela", con il regista Calzavara, negli stabilimenti cinematografici di Tirrenia.

L'occasione del loro incontro è fornita da un terribile bombardamento aereo che quella notte ha colpito la città. Pavolini, che è ospite di Ciano nella sua villa di Antignano, ha voluto recarsi a visitare i quartieri sinistrati in forma privata, ossia in borghese e senza seguito. Anche la Duranti è scesa in città dal suo albergo, e in quel momento si aggira sgomenta fra le macerie dei quartieri in cui ha trascorso la fanciullezza. A un tratto, come racconterà in seguito la diva a Guido Gerosa, le appare fra le rovine un uomo giovane, di carnagione scura e vestito con molta ricercatezza. L'uomo, che ha gli occhi arrossati e il volto triste, la fissa sorpreso: «Ma voi siete l'attrice Doris Duranti!». «Sì. E voi chi siete?»

«Mi chiamo Alessandro Pavolini.» Quel nome, sul momento, non le dice nulla. Poi lo sconosciuto le chiede se può andarla a trovare a Tirrenia. Vorrebbe vederla al lavoro. Doris risponde che è possibile. «Ma voi chi siete?» gli chiede ancora. «Cosa fate?»

«Varie cose» risponde l'altro sibillino.

A Tirrenia, Doris riferisce del suo incontro al suo produttore e cugino Eugenio Fontana: «Un tipo curioso mi ha chiesto se può venire a vedermi girare. E' simpatico. Verrà domani». Fontana si arrabbia: «Ti ho detto mille volte di non portare rompiscatole. Qui si lavora. Ma sai almeno chi è?». «Boh, un tale che dice di chiamarsi Pavolini!» Il produttore rimane senza fiato. «Stai scherzando? Ma non sai che Pavolini è il ministro della Cultura popolare?» No, Doris non lo sa e non le importa: «Sai quanto mi frega dei politici».

Il giorno dopo, puntuale, arriva Pavolini. Visita i teatri di posa, assiste alla ripresa di alcune scene, poi si accomiata dall'attrice. «Voglio» le dice «che veniate a pranzo con me a casa di Ciano. Vi manderò a prendere questa sera.» La villa di Antignano, che Ciano ha preso in affitto da un ricco ebreo, è il buen retiro del ministro degli Esteri e del suo «circolo». La cena, secondo il racconto dell'attrice, è molto divertente, ma non accade nulla di strano. Nulla di quanto sostengono le leggende secondo le quali, a una cert'ora, Ciano e i suoi amici tagliano con le forbici i reggipetti delle signore per misurare e confrontare. Tutto si svolge all'insegna della galanteria. «E' splendido» dice Ciano all'attrice «che voi siate livornese. I livornesi sono gente speciale. La nostra maggiore virtù è l'ostinazione, che è spesso una virtù deleteria.» Pavolini più tardi vuole accompagnarla all'albergo e chiede a Doris di indicargli la strada. «Potete scegliere voi» risponde l'attrice. «Si può passare dalla parte del mare o da quella del cimitero.» Il viso di Pavolini si incupisce: «Andiamo per la via dei morti» propone. «I morti danno un senso di sicurezza.» Quando passano davanti al cimitero, lui si ferma e si fa il segno della croce, poi prega la Duranti di imitarlo. Restano fermi a lungo in quel luogo alquanto lugubre: poche parole, lunghi silenzi.

«Capii subito che era un uomo tormentato» racconterà Doris. «Diceva di avere rinnegato per la politica la sua vera vocazione, la letteratura. Borbottava che faceva il ministro per dovere. Mi disse che il suo ideale era di vivere in un luogo scosceso e deserto, con una penna e una candela. Per scrivere, scrivere e ancora scrivere. Le candele erano la sua mania. Amava il silenzio.» Dopo la serata in casa Ciano, per qualche giorno Pavolini non si fa vivo. Poi un pomeriggio Doris riceve una telefonata dal segretario del ministro: «Passeremo a prendervi alle 21. Vestitevi da sera».

Questa volta la villa di Ciano è affollata di gerarchi e di signore. Nella penombra, Pavolini circuisce la bella Doris che si finge intimidita, mentre invece è prontissima a gettarsi fra le sue braccia. «Noi due potremo diventare amici, molto amici» le sussurra il ministro. «Sì, eccellenza.»

«Ma capisci? Amici innamorati.»

«Sì, eccellenza.»

«E lascia perdere l'eccellenza! Per te sono Sandro.» Non si rivedono per alcune settimane. E' una tattica quella di Pavolini di sparire per qualche tempo. Alla fine si rifà vivo a Roma. Per telefono: «Potremmo vederci a casa tua» le propone. «Tutto deve restare segreto.»

«Certo, eccellenza.» Così cominciano a vedersi nella casa di lei, in viale Parioli 101, che Doris fa arredare in fretta, a proprie spese, per renderla più accogliente. «Con Pavolini» racconterà «di soldi ne ho visti pochi. Non aveva mai una lira. Mai visto regali. Un Natale arrivarono delle piccole orchidee bianche con un biglietto: 'Non posso fare di più'. Un altro Natale ho comprato io i regali per i suoi bambini...» Naturalmente è un'esagerazione. La relazione della Duranti con il ministro non è del tutto disinteressata. L'attrice, e soprattutto il suo protettore-produttore Eugenio Fontana, ne traggono notevoli vantaggi: a Cinecittà infatti - dove la notizia della love story si è subito diffusa - il loro potere contrattuale è aumentato. Ora Doris può scegliere i film che preferisce e la sua posizione privilegiata suscita proteste e invidie fra le altre attrici, che forse vorrebbero trovarsi al suo posto.

E' proprio dagli ambienti di Cinecittà che cominciano a partire le prime lettere anonime contro il ministro della Cultura popolare. Le accuse sono le solite: ingiustizie, prepotenze e favoritismi. Ma gli anonimi battono soprattutto il tasto dell'erotismo, come se in quell'Italia fascista e bacchettona i giochi di alcova fossero una colpa molto più grave delle prevaricazioni e delle violenze che i gerarchi del regime avevano istituzionalizzato.

Ma la morale del tempo è quella che è: i fascisti sono pudichi, la società permissiva è ancora tutta da inventare e, per giunta, il Vaticano non scherza. Sembra incredibile, ma in quei giorni tragici, con pane razionato e la guerra alle porte, il gesuita Tacchi Venturi assilla quasi quotidianamente Mussolini per lamentare che «in alto loco» non si apprezza quel film scollacciato, quella rivista sboccata o quella fotografia irriverente pubblicata dai giornali.

Le storie che circolano sul rapporto fra Pavolini e la Duranti - tutte riferite puntualmente a Mussolini - hanno quasi sempre un sapore boccaccesco. Alcune sono anche divertenti. Come quella che ha per protagonista il ministro, l'attrice e l'attore Andrea Checchi. Racconta infatti l'anonimo che una sera Pavolini aveva sorpreso l'amante a letto con Checchi. Ne era seguita una scena imbarazzante nel corso della quale l'attore, nudo come un verme, aveva raccolto in fretta gli abiti ed era fuggito, non prima di avere salutato romanamente il ministro in orbace...

Le cose, in realtà, non sono andate così, anche se dispiace cancellare la scena di Andrea Checchi nudo che saluta a braccio teso l'infuriato Pavolini. Andarono in maniera diversa, come si deduce dal seguente rapporto dell'OVRA che fu consegnato a Mussolini il 25 febbraio 1942:

"In tutti gli ambienti della capitale è noto che l'Eccellenza Pavolini ha come amante l'artista cinematografica Doris Duranti, cosa che da qualche tempo forma oggetto di argomento piccante.

La Duranti gli telefona molte volte al giorno e si serve dell'apparecchio della sartoria Ventura o di quello del parrucchiere Attilio di piazza di Spagna (a qualche telefonata ha assistito anche la signora del Consigliere Nazionale Pelà).

Le artiste cinematografiche sorelle Carola e Martella Lotti hanno messo in giro la voce di avere assistito alla cosiddetta «messa nera» celebrata in casa della Duranti alla presenza dell'Eccellenza Pavolini, durante la quale sarebbero stati commessi atti inqualificabili. Esse aggiungono di avere visto un giorno la predetta Eccellenza mentre erasi denudato per aderire al desiderio della Duranti e delle altre artiste che «volevano vedere un ministro nudo».

Le signorine Lotti raccontano ancora che in un'altra occasione il Ministro si recò con la macchina del Ministero a fare una visita inaspettata alla Duranti e che trovò, oltre l'amica, l'artista Andrea Checchi in mutande corte, il quale Checchi rimase confuso e cercò di darsi un contegno. Constatata tale sorpresa, il Ministro andò su tutte le furie e cominciò a gridare mentre il Checchi, che nel frattempo si era rivestito, riusciva a guadagnare la porta. La reazione della Duranti fu che minacciò l'Eccellenza di fare uno scandalo. Prese infatti il telefono in mano e, mentre si accingeva a formare chissà quale numero, l'Eccellenza, perso il controllo, presa la cornetta gliela ruppe sulla testa. In seguito la Duranti non uscì per qualche giorno: non si sa se per la gelosia del Ministro o per la testa fasciata...

Ma tali voci non è stato possibile controllarle, data la delicatezza dell'argomento. Risulta tuttavia che in quei giorni in casa Duranti si svolse effettivamente una scena violentissima e volgare, ma fra l'artista stessa e la sua cuoca e si udì quest'ultima pronunciare la seguente frase: «Dirò io al Ministro quanto sei puttana!».

Persona bene informata esclude tuttavia che il Ministro, giunto alcune ore dopo, abbia avuto quindi discussione e tanto meno che sia trasceso a vie di fatto. Si ritiene pertanto che persona interessata a screditare il Ministro, prendendo spunto dall'episodio, abbia cercato di accreditare la voce di una scenata di gelosia per avere trovato il Checchi in «mutande corte» nella casa della Duranti. Il Checchi, lavorando insieme a lei nel film "La Contessa di Castiglione", si reca spesso in casa della collega, ma non risulta che sia con la Duranti anche in intimi rapporti.

Risulta comunque che l'Eccellenza Pavolini avrebbe pregato il presidente di Cinecittà di far diffondere la voce che ogni rapporto fra lui e la Duranti sarebbe stato nettamente troncato. La notizia della rottura è stata accolta negli ambienti con meraviglia e incredulità. Peraltro la Duranti stessa continua a spadroneggiare a Cinecittà al punto di pretendere delle stufe a legna [sic!] nei locali del teatro dove lavora con grande disappunto del personale.

Risulta infine che una società cinematografica costituita sotto gli auspici dell'Eccellenza Pavolini, di cui è presidente il Consigliere Nazionale Gomez, e direttore generale il noto Eugenio Fontana, amante ufficiale della Duranti, da lui ceduta al Ministro, fu finanziata con tre milioni dal Ministero della Cultura Popolare".

 

La relazione di Pavolini con la Duranti è dunque di dominio pubblico. Mussolini se ne indigna, o meglio finge di indignarsene, visto che il suo non è il pulpito più adatto dal quale fare la predica. Comunque non sopporta che i suoi uomini siano coinvolti in tresche d'alcova. Un giorno, alla fine di un Consiglio dei ministri, congeda gli altri e ferma con un gesto Pavolini: «Voi restate. Devo parlarvi».

Mentre questi lo ascolta in silenzio, irrigidito sull'attenti, Mussolini gli fa una durissima lavata di capo. Poi conclude imperiosamente: «Queste storie nuocciono al partito. Lo gettano nel ridicolo. Meglio chiudere, e alla svelta, questa pagina».

Curiosamente, Pavolini reagisce in maniera inattesa. Il fedele gregario, sempre pronto a rispondere «sì, Duce», questa volta si ribella: «Duce,» ribatte «tengo molto alla signora Duranti. Non intendo rinunziare a lei».

Un attimo di silenzio, ma la prevista tempesta non si scatena. Mussolini incassa il colpo borbottando fra i denti: «Quando è così, ne riparleremo». E pianta in asso il suo interlocutore.

Ne riparlano poco tempo dopo, in modo inatteso. Mussolini, che ama molto il cinema, ogni sera si fa proiettare un film nella sua saletta privata di villa Torlonia. Uno dei film che vede in quei giorni è "Il re si diverte", versione cinematografica della storia di Rigoletto, nel quale la Duranti, nella parte di una danzatrice, balla coperta di pochi veli e, per un attimo, a seno scoperto. Mussolini osserva e apprezza. Il giorno dopo, incontrando Pavolini, lo ferma e gli dice sornione: «Ho visto ieri il film della signora Duranti. Vi comprendo».

La storia d'amore del ministro può dunque continuare, con tanto di sottintesa approvazione.