Capitolo quindicesimo

«LE UOVA DEL DRAGO»

 

Il pomeriggio del 14 aprile 1945, quando mancano appena undici giorni alla fine della guerra in Italia, a villa Feltrinelli di Gargnano, residenza di Mussolini, si svolge una importante riunione fra i massimi dirigenti di Salò e i rappresentanti germanici. I convenuti ignorano che quello sarà il loro ultimo incontro, ma è eufemistico sottolineare che il loro morale è piuttosto a terra.

Intorno a loro, tutto sta cadendo in pezzi. Hitler è assediato nel suo bunker in delirante attesa che si ripeta il miracolo che salvò Pietro il Grande: ma non vi è segno di quel disfacimento nella coalizione alleata che nel 1762 sottrasse il sovrano alla catastrofe. L'improvvisa morte di Roosevelt, che aveva fatto intravedere la possibilità di una crisi fra Mosca e Washington in cui inserirsi, si è rivelata priva di quell'effetto destabilizzante sugli Alleati che si pensava potesse portare con sé. Russi e americani vanno più che mai d'accordo. Anche dalla linea Gotica giungono pessime notizie: si attende da un momento all'altro che gli Alleati scatenino l'offensiva finale.

La riunione è piuttosto informale e non ha neppure un ordine del giorno scritto, ma tutti sanno quale sarà l'argomento. Siamo giunti al «che fare?», in vista dell'approssimarsi della «deprecata eventualità X». Sono presenti Pavolini, Graziani, il nuovo sottosegretario agli Esteri, Filippo Anfuso; il ministro degli Interni, Zerbino, l'ambasciatore Rahn, il generale delle S.S. Wolff, il colonnello Dollmann, il generale Vietinghoff, che ha sostituito Kesselring al comando del fronte Sud, altri generali italiani e tedeschi. Benito Mussolini presiede questa malinconica riunione.

Da tempo, fra questi uomini, è venuta meno ogni forma di solidarietà umana e politica. Salvo alcuni, ciascuno sta preoccupandosi del proprio privato e sta cercando una personale via d'uscita, anche se nessuno lo ammetterebbe pubblicamente. Figuriamoci! A parole sono tutti pronti a morire per la causa. Insomma, siamo alla solita commedia degli inganni prima del «si salvi chi può».

E Mussolini ad aprire la discussione, e subito accenna a una sigla che finora è stata pronunciata sottovoce: RAR.

Cos'è il RAR? Significa Ridotto Alpino Repubblicano, ossia l'ultimo baluardo difensivo dove dovranno raccogliersi tutti i fascisti per l'olocausto finale. Poi tocca a Pavolini entrare nei dettagli. E' lui l'autore di quel piano romantico e disperato.

Di fronte a un uditorio che non nasconde scetticismo e perplessità, Pavolini parte con slancio. Spiega ciò che è stato fatto e soprattutto quello che si dovrà ancora fare per costituire questa eroica ridotta nella Valtellina. Fornisce dati, rilievi geografici, distribuzione dei presidi. E' appena rientrato da un giro d'ispezione della zona e, anche se la situazione non è del tutto favorevole, le prospettive gli paiono buone. Ha già provveduto a trasferirvi alcune centinaia di squadristi toscani con le loro famiglie, tutti pronti a combattere; poi ci sono altri squadristi provenienti da altre regioni e i duemila uomini del presidio. Ha scelto anche il comandante, il generale Onorio Onori, fiorentino, un fascista della prima ora. A questi uomini, spiega ancora Pavolini, si aggiungeranno tutti gli altri che, a partire dal giorno 20 aprile, dovranno essere, secondo lui, concentrati nella ridotta. In pochi giorni ammonteranno «a cinquantamila, forse più». Perduto nel suo sogno, il segretario del partito illustra altri romantici progetti. Si scaveranno caverne per colmarle di armi e di viveri, si costruiranno nuovi alloggiamenti, si organizzeranno, insomma, le cose in modo che l'ultimo baluardo fascista «accenda le fantasie degli uomini e resti impresso nella storia». Non mancano, nell'esposizione di Pavolini, le trovate, per così dire, giornalistiche, che tanto piacciono a Mussolini (e qui è il caso di rilevare come la sorte abbia voluto affidare appunto a due giornalisti il compito di vegliare sull'agonia del fascismo). Pavolini progetta infatti di trasferire nella ridotta le ceneri di Dante, massimo simbolo di italianità, di installarvi una potente stazione radiofonica e una tipografia dove stampare un giornale «che dovrà uscire fino all'ultima ora, così come abbiamo fatto a Firenze». Ma non ha finito: ipotizza anche il decollo di un ultimo aereo che dovrà distribuire le copie lanciandole su tutta l'Italia. Evidentemente, siamo al delirio, ma nessuno lo ferma. Anzi, Mussolini lo segue come ipnotizzato, facendo cenni d'assenso. Pavolini, poi, conclude con un finale scontato: «In Valtellina si consumeranno le Termopili del fascismo».

La doccia fredda del ritorno alla realtà non tarda a giungere. Il primo a parlare è Graziani. Il vecchio maresciallo non ha la minima intenzione di partecipare all'avventura. «Le mie truppe» dichiara «si muoveranno solo d'accordo col comando tedesco.» In pratica è il rifiuto di farle trasferire in Valtellina. Anche i tedeschi, che hanno seguito la scena immobili come statue di bronzo, non mostrano interesse per il progetto. Vietinghoff, con teutonica ironia, si limita a chiedere qualche informazione tecnica: «Quante armi avete? Quanti viveri?». Alle risposte evasive di Pavolini, commenta: «Se voi italiani ritenete opportuno questo progetto, forse avreste dovuto pensarci molto tempo prima. Ora è tardi». Il generale Wolff, da parte sua, si affretta ad associarsi alle critiche di Vietinghoff. La questione non lo interessa: da tempo ha separato il proprio destino da quello dei morituri. L'ambasciatore Rahn, invece, si limita a far presente che la ridotta dovrebbe almeno essere organizzata in modo da consentire un'eventuale ritirata in Germania.

Dopo questo inconcludente dialogo, la riunione si scioglie sull'eco ironica di una battuta di Anfuso rivolta a Pavolini: «Preoccupati dei viveri, mi raccomando. Chissà che fame avranno i tuoi uomini dopo quella marcia in alta montagna».

Questo progetto romantico della ridotta tanto vagheggiata da Pavolini, che riversava in essa tutte le sue fantasie letterarie, ha una sua storia. Nasce nella mente del comandante delle Brigate nere dopo la caduta di Firenze. Durante l'estate ne parla spesso con Mussolini, e insieme passano ore a fantasticare su improbabili resistenze a oltranza qua e là per l'Italia. Per prima scelgono Trieste, città simbolo dell'italianità. Ma poi cambiano idea: i tedeschi certamente impedirebbero un concentramento di truppe italiane nella zona. Poi Pavolini suggerisce Milano e Mussolini approva l'idea. Milano è la città dove il fascismo è nato ed è giusto che diventi il suo ultimo campo di battaglia. Insieme farneticano di fortificarla allo scopo di «tenere la metropoli a oltranza».

«Ne faremo un Alcazar fascista» afferma Pavolini. Ma Mussolini lo corregge: «No, Milano diventerà la nostra Stalingrado». Parole al vento. Frasi d'effetto utili tutt'al più per un bel titolo in prima pagina. Milano non è l'Alcazar e neppure Stalingrado. Di lì a poco ne convengono anche loro. Ma un posto bisognerà pure trovarlo... «Comunque» conclude Mussolini «in un luogo qualsiasi, il fascismo deve cadere eroicamente.» Pavolini ha tempo di riflettere sull'argomento durante la convalescenza per le ferite riportate nello scontro con i partigiani piemontesi. L'8 settembre 1944 (la coincidenza con l'anniversario della resa è casuale, ma significativa), scrive a Mussolini una lunga lettera:

"Duce, il progetto - nella deprecata eventualità di una ulteriore e pressoché completa invasione del territorio repubblicano - di arroccarci con le Camicie Nere, con le nostre armi e con il nostro governo in una zona difendibile quale la provincia di Sondrio e parte di quella di Como, appare, mi sembra, la soluzione più logica e degna. Apprendo però da Prinzing, il quale ha parlato a lungo con l'Ambasciatore Rahn e col generale Wolff, che il progetto germanico sarebbe stato per Merano o altra zona vicina.

Inutile dirvi, Duce, come tale soluzione sia per togliere ogni valore al nostro proposito di una resistenza estrema del Fascismo mussoliniano in una roccaforte italiana. A Merano si tratterebbe di un governo fantasma ospitato malvolentieri dal Gauleiter Hofer.

D'altra parte, una nostra resistenza nella Valtellina e intorno all'Adamello proteggerebbe il fianco germanico nell'Alto Adige. Da ogni punto di vista mi sembra che la convenienza politica e ideale dell'Alleato coincida con la nostra... Con profonda devozione, Alessandro Pavolini"

Mussolini non perde tempo ad approvare il progetto. Pochi giorni dopo, infatti, così telegrafa a Pavolini:

"Vi affido con la presente l'incarico formale di presiedere e dirigere i lavori della Commissione che si chiamerà «Ridotto Alpino Repubblicano» (RAR) intendendo per tale denominazione la zona prescelta per organizzarvi la più lunga resistenza possibile all'invasore. Tale resistenza deve essere organicamente preparata - tempestivamente e in ogni campo... Mi terrete regolarmente informato dello sviluppo dei vostri lavori".

 

Come si può notare, Mussolini non precisa nel suo ordine la località in cui dovrà sorgere il RAR. Si direbbe che lasci carta bianca a Pavolini. Ma questi trova subito chi gli contesta la scelta: chi ritiene che sia più adatta la Val d'Aosta, chi propende per la Carnia, «dopo averne cacciato i cosacchi», chi per l'Alto Adige onde finire insieme all'alleato germanico. Si perde così molto tempo (ma forse lo si vuole perdere) a studiare decine di altre ipotesi. I fascicoli del RAR si riempiono di inutili scartoffie, frutto di altrettante inutili ispezioni. In pratica non si fa nulla fino all'aprile del 1945, quando è ormai troppo tardi.

Qualcosa di più concreto, invece, Pavolini lo realizza in favore dei suoi squadristi e dei loro congiunti. Nel massimo segreto consentito stabilisce le norme in vista della «deprecata eventualità X». Agli squadristi che intendono portarsi appresso la famiglia seguendo «la Repubblica Sociale in quelle province dove essa venga a restringere la sua sovranità» sono garantiti premi in denaro di 20000 lire per il capofamiglia più 10000 per ogni congiunto, oltre ogni altra possibile forma di assistenza. Vengono offerte anche altre soluzioni per chi intendesse separarsi dai congiunti e raggiungere da solo la ridotta. Fatto salvo il premio in denaro, i familiari degli squadristi possono infatti scegliere fra «l'ospitalità nel Terzo Reich» e la «mimetizzazione». Quest'ultima soluzione, che è la preferita dai più, consiste nella distribuzione di «carte d'identità (e tessere annonarie) "convenzionali", cioè con altro nome», le quali dovranno essere intestate «a comuni i cui archivi anagrafici siano stati distrutti dai bombardamenti (come La Spezia, Livorno, eccetera)». Questo spiega l'alto numero di «sfollati politici» spezzini e livornesi che verranno trasferiti al Nord nei mesi successivi.

D'accordo con il ministro della Cultura popolare, Ferdinando Mezzasoma, l'altro cervello pensante della R.S.I., Pavolini si preoccupa molto anche per il dopo. Ordina la distribuzione di fondi segreti a favore «di quei camerati - fedeli fra i fedeli - che intendano rimanere sul posto e continuare la lotta dopo l'invasione (bande ribelli fasciste, nuclei di sabotatori, incaricati politici eccetera)...». Ma si preoccupa soprattutto di lasciare alcune «talpe» negli organismi più delicati e di distribuire qua e là per il paese alcune «mine ideologiche», o «uova del drago», come le chiamano i tedeschi, affinché un giorno il fascismo possa tornare a germogliare. A questo proposito, in un memorandum riservato diretto a Mussolini, Pavolini suggerisce, fra l'altro, «che sarebbe opportuno inviare alla spicciolata una trentina di camerati giovani, capaci e intelligenti in Svizzera per crearvi una centrale fascista». Aggiunge che sarebbe anche necessario costituire nella repubblica elvetica «un considerevole fondo in valuta estera per affrontare ogni occasione presente e futura».

Chissà se questi suggerimenti saranno stati ascoltati da Mussolini. Gli studiosi non hanno mai indagato in questa direzione, occupandosi invece degli aspetti meno occulti degli ultimi giorni della R.S.I. Non è tuttavia improbabile che qualcosa sia stato fatto in questo senso per il dopo. D'altra parte è noto che Mussolini, su suggerimento dell'ex comunista Bombacci, nel marasma degli ultimi giorni si preoccupò di seminare «mine sociali» nella Valpadana, affrettando il suo programma di socializzazione delle fabbriche, costituendo i comitati di gestione fra gli operai e avviando altre riforme «per far dispetto alla borghesia monarchica e badogliana». Possibile, dunque, che non abbia dato ascolto a Pavolini e Mezzasoma che gli suggerivano di lasciare anche i semi indispensabili per la rinascita del suo partito?

Secondo una leggenda ancora diffusa tra i veterani di Salò, Mussolini, Pavolini e Mezzasoma sarebbero tornati a parlare delle «uova del drago» nel segreto dell'ufficio del Duce, nella prefettura di corso Monforte, a Milano, la mattina del 25 aprile. Sempre secondo questa leggenda, i tre uomini, in procinto di abbandonare la città sotto l'incalzare dell'avanzata alleata, si sarebbero preoccupati di affidare ad alcuni camerati «giovani, capaci e intelligenti» il compito o, se preferite, la «fiaccola» da tenere nascosta sotto il moggio in attesa di tempi più adatti per farla tornare a risplendere. La leggenda sostiene anche che questa fiamma è la stessa che campeggiava nell'insegna dell'M.S.I., e indica anche il nome di uno dei giovani cui fu affidata: Giorgio Almirante. Sarà vero? Almirante, allora capo di gabinetto del ministro Mezzasoma, era a Milano in quei giorni ma, pur essendo un giovane coraggioso e fedele, non seguì Mussolini e gli altri nel viaggio che li avrebbe condotti prima a Como e poi a Dongo.

Perché non partì con loro? Perché non rispose all'ultimo appello del segretario del suo partito?

In un'epoca successiva, il leader del Movimento sociale ha cercato di dare una risposta a questi insidiosi interrogativi accennando a un imprecisato «incarico» che gli venne affidato in quei giorni. Racconta infatti Almirante in "Autobiografia di un «fucilatore»":

"«Io vado a Como [gli disse il ministro Mezzasoma]... Vado a Como da solo. Tu rimani qui, rimanete tutti qui.» Lo guardavo, non avevo la capacità di dirgli nulla. Azzardai, a bassissima voce: «Se rimango, desidero un incarico, dimmi cosa debbo fare». Ora, dopo tanta forza d'anni e di eventi, ci ripenso. Un incarico? Cosa c'era ormai da fare? Cosa c'era ormai da dire?... Eppure Mezzasoma mi diede l'incarico impossibile che io sollecitavo, indirizzandomi, su indicazione del segretario del partito Pavolini che era lì con noi, ad un funzionario del partito che, a sua volta... Niente, naturalmente. Soltanto l'ultima tra le ultimissime illusioni. Poi il congedo".

 

Inutile dire che questa prosa alquanto ermetica del segretario dell'M.S.I. non ha certamente contribuito a sfatare la leggenda. Ma, forse, Almirante voleva proprio questo, o non poteva fare di più. Questo suo dire e non dire, infatti, se da un lato ha consentito ai suoi avversari politici di intravedere nel suo comportamento un meschino tentativo di rafforzare la propria leadership nel partito, dall'altro, fra coloro che ritengono veritiera la leggenda delle «uova del drago», ha permesso di confermare le intime convinzioni di ciascuno.

Siamo, evidentemente, di fronte a un circolo chiuso.