Capitolo decimo
«AL MITRA! ALLA MACCHIA!»
La data del 25 luglio 1943 ha segnato una ideale linea di demarcazione nella storia del fascismo e nelle biografie degli uomini che lo hanno vissuto. Da allora, per decenni, e forse ancora oggi, si è continuato a distinguere e a suddividere i fascisti in due categorie: quelli di «prima» e quelli di «dopo» il 25 luglio, spesso giustificando i primi e sempre condannando i secondi.
D'altra parte, quel giorno - dopo il voto del Gran Consiglio e l'arresto di Benito Mussolini - suonò l'ora della verità: molte fedi già vacillanti crollarono del tutto mentre altre, sia pure in minor misura, si rinvigorirono, vuoi per rabbia, vuoi per fanatismo, vuoi per malinteso senso dell'onore.
Il 25 luglio fornì anche l'opportunità di abbandonare una nave che stava chiaramente affondando. Cominciò infatti il passaggio in massa all'antifascismo, e molte future carriere politiche si decisero in quelle ore. I fascisti di «prima» o si riscattarono nella Resistenza o, in maggior misura, si rintanarono in comodi rifugi per riemergere sotto altre vesti al momento opportuno. Mentre quelli che vollero restare fascisti anche «dopo», favorirono involontariamente i loro ex camerati assumendosi tutte le responsabilità degli errori e degli orrori di un regime violento e sopraffattore che semmai va condannato in blocco senza distinzioni o suddivisioni.
Alessandro Pavolini, futuro leader dei tragici fascisti del «dopo», pare non abbia avuto tentennamenti nel compiere questa scelta che lo avrebbe condotto consapevolmente alla morte. Le varie versioni che circolarono in quei giorni a proposito delle sue prime reazioni alla caduta del regime ce lo presentano sconvolto, addolorato o stizzito, ma comunque deciso a non arrendersi. Soltanto Herbert Kappler, il maggiore delle S.S. che già operava a Roma con i suoi agenti segreti, insinuerà in un rapporto successivo, di cui torneremo a parlare, che Pavolini avrebbe inviato un telegramma di solidarietà al maresciallo Badoglio. Ma si tratta di un episodio inverosimile: Pavolini sapeva che Badoglio «non aveva dimenticato». Semmai è più credibile l'ipotesi che Pavolini abbia scelto di fuggire in Germania più che altro per la paura della rappresaglia badogliana. E' noto, d'altra parte, che il suo nome, insieme a quello di Ettore Muti, figurava in testa alla lista dei fascisti da liquidare compilata dal maresciallo.
Siamo comunque in grado di fornire una versione esatta dei fatti.
La notte fra il 24 e il 25, Pavolini è informato di quanto è accaduto al Gran Consiglio. Telefona, fra gli altri, all'amica. «Che succede?» chiede la Duranti. «Può accadere di tutto. E' finita. Ma tu stai tranquilla. Tu non c'entri.» Nel pomeriggio di domenica 25, il direttore del «Messaggero» torna in redazione. Fa caldo, la città è immersa nella pennichella. I telefoni tacciono. Pavolini è da qualche tempo a Roma da solo: ha mandato la famiglia in villeggiatura al Terminino. Ma sua moglie Teresa, ignara di tutto, ha lasciato i figli alla governante, e sta scendendo in città. Nella tarda serata, quando ancora non è stata diffusa la notizia dell'arresto di Mussolini a villa Savoia, Pavolini incontra Zenone Benini, il gerarca che fu pronubo della sua amicizia con Ciano. Pur mancando notizie ufficiali, Benini è abbastanza informato su quanto sta accadendo.
«Mussolini è scomparso» gli dice. «L'esercito sta assumendo il potere.» La reazione di Pavolini è violenta e rabbiosa: «Mitra! Mitra!» urla. «Alla macchia!» E scompare nella notte.
Alle 22.45, quando la radio annuncia le dimissioni «del cavalier Benito Mussolini» e la costituzione del governo Badoglio, finalmente Roma si desta e capisce cosa sta accadendo.
Come racconta Paolo Monelli, che visse quella lunga notte, le finestre si illuminano, si spalancano i portoni, le case si svuotano e tutti escono fuori ad abbracciarsi e a darsi l'un l'altro la notizia. I primi scalmanati si gettano contro quelli che hanno ancora il distintivo all'occhiello, glielo strappano, lo calpestano. «Via la cimice!» si grida. Un folto gruppo di persone si dirige poi verso la sede del «Messaggero», in via del Tritone. Molti gridano: «Dov'è Pavolini?». Altri penetrano nel giornale. Sono uomini scamiciati, alcuni a petto nudo, altri avvolti in bandiere tricolori, e vogliono spaccare tutto. Si calmano soltanto quando alcuni scrittori e giornalisti li assicurano che i fascisti sono già scappati.
Mentre un gruppo di giornalisti si accinge a comporre un'edizione straordinaria del giornale - un foglio volante che sarà poi distribuito ai passanti -, arriva altra gente e tutti gridano: «Dov'è Pavolini? Vogliamo Pavolini!». Portata in trionfo, arriva come una ventata anche l'attrice Paola Borboni, in pigiama.
La sala stampa di piazza San Silvestro è messa a sacco. Scalmanati buttano dalle finestre nella strada, e vi si appicca il fuoco, scrivanie, collezioni di giornali, macchine da scrivere e ritratti di Mussolini. Altri incendi divampano, qua e là per Roma, davanti alle sedi rionali del Fascio. Cittadini presi da bellicoso furore si aggirano imbracciando le armi prelevate dalle caserme della Milizia. Persino Leo Longanesi si mostra fieramente per strada con in pugno un lungo fucile '91.
Pavolini, intanto, è arrivato a casa, dove lo attende la moglie. Le spiega l'accaduto e le dice: «Restare qui è pericoloso. Tu tornerai al Terminillo. Dovrai occuparti dei ragazzi. Io non so ancora cosa farò». Poi escono insieme nella notte e raggiungono la villa di uno zio di lei, l'architetto Brogi, che abita in via Aldrovandi, a villa Borghese, una strada che sale lungo il muro di cinta dello zoo. Ma Pavolini non si sente sicuro neanche lì. Dopo alcune telefonate, alle quattro del mattino gli amici Piffi Gomez e Augusto Fantechi, direttore dell'istituto Luce, lo accompagnano in casa di Pierfrancesco Nistri, un fiorentino che presta servizio come ufficiale presso lo Stato maggiore di De Stefano, a Mentana. La casa di Nistri è poco lontana da quella dei Brogi: in via Tre Madonne 12.
Il rifugio è sicuro: nessuno può immaginare che Pavolini sia nascosto in quell'appartamento. Ma lui è inquieto.
«Tu non sei più compromesso di tanti altri» lo consola Gomez. «Di chi hai paura?»
«Di Badoglio» risponde Pavolini.
Il mattino seguente, di buon'ora, Pierfrancesco Nistri, che deve raggiungere il suo comando, passa a salutare l'ospite. Lo trova immobile davanti alla finestra mentre osserva alcuni volenterosi che stanno scalpellando i fasci di marmo che adornano la facciata dell'istituto Africano di via Aldrovandi.
«Perché? Perché?» mormora Pavolini. Nistri nota che ha le lacrime agli occhi.
Nel pomeriggio gli amici tornano a trovarlo. Notano con sorpresa che si è tagliato i baffi e ci scherzano sopra: «Se credi di farla franca, sei un bischero» gli dice Piffi. «Comunque, tu di qui non ti muovi» interviene Nistri. «Qui sei al sicuro: me lo ha detto anche Senise.» Carmine Senise è l'accomodante capo della polizia dal quale Pierfrancesco Nistri è andato per chiedere consiglio. E il suo consiglio è stato questo: «Che Pavolini stia buono. Stiano tutti buoni. Non sono loro i nemici. I veri nemici di oggi sono i tedeschi e i comunisti».
Ma Pavolini non intende star buono. Vuole trasferirsi in Germania per «continuare la lotta». Per questo si è tagliato i baffi. Spera di non essere riconosciuto quando, in qualche maniera, raggiungerà l'ambasciata germanica, che si è trasformata in un centro di smistamento per gerarchi in fuga. Gli amici cercano di dissuaderlo, o almeno di fargli prendere tempo: ma lui non intende ragione.
La decisione di Pavolini, maturata in quell'appartamento di via Tre Madonne, è fredda e meditata. Annunciando la sua scelta, non manca di pronunciare alcune battute che rivelano come sia già entrato in quell'atmosfera delirante, da crepuscolo degli dei, che non lo abbandonerà più.
«Dal regime ho avuto tutto» afferma. «E intendo restituirgli tutto.» E ancora: «C'è una sola strada possibile per salvare almeno il nostro onore di fascisti». All'amato fratello Corrado, che lo va a salutare molto preoccupato, dice con un sorriso: «So perfettamente come andrà a finire: in fondo a questa strada mi aspetta il plotone d'esecuzione».
Per prendere contatto con l'ambasciata germanica, Pavolini utilizza come tramite la baronessa romana Luciana De Reutern, un'amica di famiglia che fa parte del giro di belle signore dell'aristocrazia che i Pavolini amavano frequentare. La donna ha infatti un contatto all'interno dell'ambasciata stessa: il barone Friedrik von Klem.
Prima di avviare le trattative, anche la bella Luciana tenta di dissuadere l'amico. «Proprio non lo vedevo nella parte del vendicatore» ricorda oggi la baronessa. «Era un uomo così dolce! 'Perché?' gli chiesi. 'Perché non resti qui con noi? Ti nasconderemo.' Ma lui insistette e capii che era perfettamente consapevole di ciò a cui andava incontro. Prima di salutarmi mi disse con un sorriso: 'Ricordati che sono fiorentino e fazioso'.» L'operazione Trasferimento nell'ambasciata germanica si svolge senza intoppi: anche in questo caso l'organizzazione tedesca non difetta. Caricato a bordo di un'auto con targa diplomatica, Pavolini raggiunge l'ambasciata la sera del 27. All'alba del 28 lascerà Roma con un aereo tedesco che decolla da Ciampino.
E Doris? Rimasta senza notizie dell'uomo che probabilmente ama davvero, l'attrice è in angustie. Non sappiamo come esattamente siano andate le cose, questo comunque è il suo racconto:
"Dopo quella telefonata, Sandro non si era fatto più vivo. Poi, un giorno, mi telefona una signora. Mi dice: «Devo parlarvi di una cosa molto importante». Rispondo: «Ditemi». E lei dice: «Pavolini è all'ambasciata tedesca. Deve andare in Germania, ma non ha una lira. Voi avete del denaro?». Che Sandro non avesse denaro non mi sorprende. Ma neanch'io ho dei soldi in quel momento. Rispondo quindi che ho soltanto un braccialetto con trentadue sterline d'oro. Potrei staccare quelle e mandarle. «Va bene» dice l'altra. E io: «Ma dove?». E lì, su due piedi, al telefono, organizziamo un piccolo film di spionaggio. Mio cugino Fontana, con un fiore all'occhiello, si presenta a una certa ora davanti all'albergo Ambasciatori di via Veneto per incontrare un tizio al quale consegnare il pacchetto. Attende. Poi si fa avanti un signore che ha un fiore identico all'occhiello e gli chiede: «Voi avete qualcosa per me?». Segue lo scambio e le trentadue sterline raggiungono Pavolini. L'indomani mi telefona la stessa signora. Dice: «Grazie per quello che avete fatto. Il ministro è partito per la Germania». E per settimane non ne seppi più nulla".
Pavolini intanto è arrivato in Germania, ma con suo disappunto (prevedeva accoglienze ben diverse) si è visto confinare in un piccolo albergo di Königsberg, la città della Prussia orientale, in seguito incorporata nell'URSS, che ha cambiato nome in Kaliningrad. Ospite dello stesso albergo c'è il figlio del Duce, Vittorio, che Pavolini conosce abbastanza bene. Il giovane Mussolini, infatti, aveva collaborato al «Messaggero».
Senza notizie dall'Italia e totalmente isolati, i due uomini trascorrono giorni di attesa. «Nessuno si curava di noi» racconta Vittorio. «E temevamo di poter essere arrestati da un momento all'altro.» Nelle stesse condizioni vivono gli altri fascisti che sono riparati in Germania dopo il 25 luglio. Si tratta di Roberto Farinacci, Renato Ricci e Giovanni Preziosi, i quali, insieme ad altri personaggi secondari, sono alloggiati a Rastenburg, sempre nella Prussia orientale, poco lontano dalla "Wolfschanze", la tana del lupo, quartier generale del Führer.
Nessuno fino a oggi è riuscito a ricostruire con precisione cosa accadde nell'ambiente dei rifugiati fascisti in Germania, fra il 25 luglio e l'8 settembre del 1943. Siamo in grado di farlo noi.
Anticipando il nostro «tradimento», Hitler aveva già deciso il 26 luglio (e non dopo l'8 settembre come sosterranno i tedeschi) di invadere il paese ancora ufficialmente loro alleato («La guerra continua» aveva dichiarato, come è noto, Badoglio assumendo i poteri), arrestando il re e l'intero governo e liberando con la forza Mussolini. A operazione compiuta, i tedeschi intendevano poi formare un governo utilizzando appunto i gerarchi loro «ospiti». Per questo, nell'attesa degli eventi, costoro erano stati confinati nella Prussia orientale sotto falso nome: Farinacci si faceva chiamare «avvocato Silva», Pavolini si era blasonato diventando il «conte Pini».
Ma l'operazione Student, dal nome del generale che doveva guidarla, non può essere realizzata per una semplice ragione: i tedeschi non riescono a localizzare la prigione di Mussolini. Questo ritardo consentirà agli italiani di avere la meglio in quel singolare gioco degli inganni: infatti riusciranno a concludere l'armistizio dell'8 settembre cogliendo di sorpresa i nazisti.
Frattanto, mentre maturano questi avvenimenti, fra i pochi gerarchi rifugiati in Germania non tira aria di concordia. Tutti, infatti, aspirano a diventare il Quisling italiano, e ciascuno intriga per suo conto. Il più attivo è Farinacci, che si ritiene il personaggio più importante della piccola colonia e che è convinto di godere della stima di Hitler. Ignora, l'incauto, di avere rischiato la fucilazione: Hitler infatti lo conosce così poco che sulle prime lo ha confuso con il «traditore Grandi», il protagonista della rivolta del Gran Consiglio, chiedendo la sua testa.
Il più papabile del momento pare invece essere Giovanni Preziosi, un ex prete di Avellino, con fama di menagramo, che da anni conduce, inascoltato, una violenta campagna antisemita e che ora tuona sul «Volkischer Beobachter», l'organo del partito nazista, contro la congiura giudaico-massonica che secondo lui avrebbe travolto Mussolini. Il sinistro personaggio pensa che sia giunto il suo momento. Ora infatti reclama che finalmente si proceda anche in Italia all'effettiva applicazione delle leggi razziali fino alla totale liquidazione «dei meticci, dei mariti delle ebree e di quanti hanno gocce di sangue ebraico». Per queste sue posizioni estremiste, Preziosi è protetto da Alfred Rosenberg, il teorico del razzismo tedesco.
Anche Pavolini si rivela molto attivo in questa corsa alla successione di Mussolini. Ritiene, non a torto, di poter godere della protezione di Goebbels, ma è anche consapevole di possedere le qualità indispensabili (fede, ardimento, preparazione culturale) per ridare vita in Italia a un movimento fascista capace di riscattare l'«onta» badogliana.
E' in questa fredda estate baltica che matura quella sua trasformazione che sarà motivo di sorpresa e di sgomento per quanti lo conoscevano. Il tenebroso mister Hyde, che forse già si nascondeva nelle profondità del suo animo, emerge con violenza, allontanando l'immagine del bonario dottor Jekyll. Nel suo lucido delirio egli abbozza in quei giorni il progetto letterario di restituire al fascismo la purezza e l'entusiasmo della prima ora, riesumando i vecchi, intransigenti ideali dello squadrismo che il regime imborghesito ha, a suo parere, avvilito e deluso.
Scherzi dell'età: come capita a molti anziani quando rievocano i loro vent'anni (che sono sempre belli, meravigliosi, perché il filtro della memoria ha cancellato tutto ciò che è sgradevole), Pavolini, che pure in quel momento ha quarant'anni, si crogiola nell'illusione di far rivivere un mondo che non è mai esistito. Dello squadrismo che ha vissuto giovanissimo, egli ricorda solo i momenti eccitanti dell'azione, dell'avventura, del «tutti per uno, uno per tutti» che la sua fantasia ha mitizzato. In questa sua trasposizione onirica della storia, i ceffi da galera che all'inizio degli anni Venti manganellavano, incendiavano, rubavano, uccidevano - tanto che lo stesso regime li aveva poi messi in disparte - assumono ora le sembianze di puri eroi ingiustamente puniti. Solo richiamando costoro sarà possibile, egli sostiene, restituire al fascismo la sua antica purezza.
Con questa idea fissa come un'ossessione, Alessandro Pavolini attende la chiamata nel suo malinconico esilio di Königsberg. «In Germania» racconterà più tardi Edmondo Cione, un filosofo approdato a Salò, «Pavolini sosteneva la necessità di un'epurazione sanguinosa, specie contro i fascisti che a parer suo erano stati dei traditori.» Auspica, insomma, un lavacro di sangue purificatore: è convinto che per fare risorgere lo spirito dello squadrismo sia necessario gettare sull'altare le teste mozzate di coloro che hanno tradito il regime dopo averne goduto i privilegi... Prima fra tutte, quella del suo amico Galeazzo Ciano.
Siamo al prologo di un dramma shakespeariano.
Il primo atto ha inizio la notte dell'8 settembre 1943, quando giunge al quartier generale di Hitler la notizia che l'Italia si è arresa. Nessuna legge internazionale ha mai stabilito che un paese non possa rompere un patto militare quando è in gioco la sua sopravvivenza, ma tutto ciò non rientra nella mentalità nibelungica del Führer. Egli grida infatti al tradimento e, seduta stante, ordina l'occupazione del paese. Poi stabilisce che si formi al più presto un governo fascista provvisorio.
Annota più tardi Goebbels sul suo diario:
"Pavolini, Ricci e il figlio del Duce sono ora al Quartier Generale a preparare un appello al popolo italiano e alle forze armate italiane. Sono stati scelti per formare un governo neofascista che agisca in nome del Duce. Dovranno prendere residenza nell'Italia settentrionale non appena le condizioni si siano consolidate. Lavorano con grande zelo".
Più che di zelo, è il caso di parlare di entusiasmo frenetico! Già nella notte fra l'8 e il 9 settembre, Pavolini è in azione. Con Vittorio Mussolini ha allestito una stazione radiotrasmittente dentro un vagone-ristorante fermo su un binario morto presso Königsberg. Da qui, quella notte, il neofascismo fa sentire per la prima volta la sua voce, preceduto dalle note di "Giovinezza". La rudimentale emittente funziona mediante un cavo che la collega direttamente a Berlino, dove le trasmissioni, registrate su disco, vengono poi allacciate in relè con la stazione di Monaco, che le diffonde sulla rete italiana più volte il giorno e la notte.
In Italia capita a molti di udire queste voci e questi inni che paiono giungere dall'oltretomba. Una notte, per esempio, Doris Duranti, avvertita da un'amica, corre alla radio e le pare di riconoscere la voce di Pavolini; che infatti si alterna al microfono con Vittorio Mussolini e Giovanni Preziosi.
E' da questa radio improvvisata che, oltre all'annuncio della rinascita del fascismo, si reclama per la prima volta la fucilazione dei traditori...
Per quattro giorni convulsi, i superstiti del crollo fascista rifugiati in Germania si agitano in un mare confuso di intrighi e di sotterfugi per contendersi la direzione del nuovo governo. Ma i tedeschi sono incerti. «I loro nomi» annota Goebbels «sono troppo poco importanti.» A risolvere la situazione di incertezza ci pensano i paracadutisti del generale Kurt Student, comandati dal colonnello delle S.S. Otto Skorzeny, che il 12 settembre liberano Mussolini a Campo Imperatore. Ora i tedeschi dispongono di un «nome» di prestigio.
Fra gli italiani in Germania, i primi a essere informati della liberazione del Duce sono il figlio Vittorio e Alessandro Pavolini. Convocati in fretta alla "Wolfschanze", apprendono commossi la notizia dalla viva voce del Führer.
Mussolini arriva a Rastenburg la sera del 14 (la notte precedente l'aveva trascorsa a Monaco con la moglie Rachele). Dopo un primo incontro con Hitler, riceve i membri del «governo provvisorio». Sono presenti, oltre il figlio Vittorio, Alessandro Pavolini, Renato Ricci, Roberto Farinacci, Giovanni Preziosi e alcuni altri. Racconta un testimone:
"Mussolini ringraziò i presenti per la fede dimostrata e passò rapidamente in rivista gli avvenimenti a cui aveva preso parte e quelli di cui era venuto a conoscenza dai giornali e da alcuni rapporti di seconda mano. Non era completamente sicuro di sé e sin dalle prime frasi si poteva capire che si considerava fuori della partita o almeno desiderava restarvi".
Dopo questa premessa poco incoraggiante, Pavolini prende la parola a nome dei presenti. «Il governo provvisorio nazionale fascista» egli ricorda al Duce senza perifrasi «attende la ratifica del suo capo naturale: solo dopo si potrà annunciare la composizione del governo.» Mussolini sembra interdetto, e tergiversa: «La vostra opera è degna di lode. Bisogna però ricominciare da zero...». Ma Pavolini insiste: «Per fare questo abbiamo bisogno del capo. Di voi».
Niente da fare. Mussolini rotea gli occhi e chiude la conversazione: «In questo momento non posso prendere decisioni, mi mancano troppi elementi per formulare un giudizio. Vediamoci domani».
L'incontro è deludente. Soprattutto per Pavolini, che si attendeva un Mussolini assai diverso.
Il giorno seguente, comunque, Mussolini è meno titubante. Le pressioni di Hitler, quelle dei suoi e l'ingombrante peso delle sue responsabilità l'hanno convinto che non può estraniarsi dalla partita. Convoca infatti i suoi uomini e annuncia la sua intenzione di riassumere la direzione del fascismo. Poi si rivolge direttamente a Pavolini: «Voi» dice cadenzando le parole «sarete il segretario provvisorio del partito. Che si chiamerà Partito fascista repubblicano».
Perché Pavolini? Si è discusso molto su questa scelta per molti versi inattesa. E sono state avanzate spiegazioni contrastanti. Pavolini, in quel momento, non è un nome importante. Salvo Preziosi, che il superstizioso Mussolini evita come la peste per la sua fama di iettatore, appare il meno indicato della compagnia. E' chiaro infatti che il fascismo, per risorgere, ha bisogno di un uomo di polso, deciso, spregiudicato, pronto a tutto. E Pavolini, fino a poco tempo prima, è stato giudicato un intellettuale raffinato e salottiero. Andrebbero certamente meglio Ricci o Farinacci, i quali, oltre a godere di ben altra notorietà negli ambienti fascisti, hanno dalla loro un passato di violenze che li rende più indicati per affrontare i tempi duri che si prospettano.
E' stato anche detto che sulla scelta del Duce influì particolarmente l'amicizia che Pavolini aveva stretto con Vittorio Mussolini durante il loro esilio sulle rive del Baltico. Ma questa ipotesi ci è stata smentita dallo stesso Vittorio. «Io e Pavolini» ha precisato «non eravamo neppure tanto amici. Probabilmente mio padre lo ha scelto perché in quel momento la rosa dei candidati era assai ridotta.» Poi ha aggiunto con tono indefinibile: «O forse perché sapeva che era amico di Ciano...».
Quella stessa sera, 15 settembre 1943, l'agenzia di stampa Stefani dirama il seguente comunicato: «Benito Mussolini ha ripreso oggi la suprema direzione del fascismo». Seguivano cinque ordini del giorno: la nomina di Alessandro Pavolini a segretario provvisorio del partito; l'ordine a tutte le autorità militari, politiche, amministrative e scolastiche che erano state destituite dalle loro funzioni dal «governo della capitolazione» di riprendere i loro posti; istruzioni a tutte le organizzazioni del partito perché appoggiassero attivamente l'esercito germanico, dessero immediata assistenza morale e materiale al popolo e riesaminassero «la posizione dei membri del partito in rapporto al loro contegno di fronte al colpo di stato della capitolazione e del disonore, punendo esemplarmente i vili e i traditori». Per ultima veniva proclamata la ricostituzione della Milizia fascista. Con due successive ordinanze, Mussolini annunciava la nomina di Renato Ricci a comandante della Milizia e dichiarava gli ufficiali delle forze armate liberi dal giuramento prestato al re.
Il 16 settembre Alessandro Pavolini parte per Roma con l'incarico di riaprire la sede del partito e di provvedere alla formazione del nuovo governo. Avvicinandosi al confine italiano, incrocia lunghe colonne di prigionieri. Tutti portano sul dorso la scritta «Italien».