Capitolo sesto

UN'ATTESA PAZIENTE E DORATA

 

Gli anni che vanno dalla fine della campagna etiopica all'inizio della seconda guerra mondiale rappresentano per Alessandro Pavolini un periodo di attesa. Un'attesa paziente e dorata che si consuma (quando il suo lavoro di giornalista non lo porta in giro per il mondo) fra il circolo del golf, i convegni culturali e i salotti aristocratici della capitale, di cui è assiduo frequentatore.

Apparentemente, si direbbe che non nutra altro che ambizioni letterarie. Scrive e pubblica molto, infatti, mentre sembra invece essersi quasi defilato dalla politica attiva. Naturalmente non è vero, ma questo suo atteggiamento distaccato e, a volte, critico gli procurerà accuse e sospetti.

In effetti, Pavolini coltiva accortamente un suo progetto che gli consentirebbe di realizzarsi come uomo politico senza essere per questo costretto a trascurare i propri interessi culturali. Mira infatti al ministero della Cultura popolare, detto correntemente Minculpop: un dicastero sorto sulle ceneri di quello della Stampa e della Propaganda affidato a Ciano, e che dovrebbe d'ora in avanti coordinare tutte le attività culturali del paese e, naturalmente, controllarle. Al momento, titolare del Minculpop è Dino Alfieri, anche lui amico di Ciano, ma culturalmente inadatto alla bisogna.

A ben vedere, infatti, tutte le azioni del Pavolini di quegli anni sembrano tendere al raggiungimento di questo fine. La sua tolleranza per l'aria di fronda che spira nei Littoriali e il suo aristocratico disprezzo per lo «staracismo» più becero non sono vane manifestazioni snobistiche, ma precisi segnali indirizzati agli ambienti culturali per ottenere in cambio fiducia e consensi. Mentre certe sue improvvise durezze ideologiche, che appannano momentaneamente la sua fama di moderato, paiono invece segnali rivolti al partito per confermare la propria ortodossia.

Pavolini porta avanti il suo gioco sotto l'ala protettrice di Ciano. Il quale non deve essere all'oscuro del progetto. Da qualche tempo, infatti, il giovane ministro degli Esteri ha cominciato a pensare alla «successione». In attesa dell'inevitabile ricambio generazionale al vertice del regime, Galeazzo, che a buon diritto si considera il «principe ereditario», ha già abbozzato un suo «governo ombra» formato dai suoi coetanei fedeli e preparati. Circa il ruolo da affidare a Buzzino, che è il più colto della compagnia, Ciano non ha mai fatto misteri: sarà il suo ministro della Cultura.

Frattanto Alessandro Pavolini è tornato a dedicarsi attivamente al giornalismo. Alterna il suo impegno di inviato speciale del «Corriere della Sera» con quello di presidente della Confederazione fascista Professionisti e Artisti. Nella primavera del 1937 partecipa all'ultimo volo intercontinentale del dirigibile Zeppelin recandosi a Buenos Aires dove, per incarico ricevuto personalmente da Mussolini, celebra il primo anniversario della fondazione dell'impero. Le sue corrispondenze dal Sudamerica compaiono con molto risalto sulla terza pagina del «Corriere».

Sempre per conto del «Corriere», Pavolini si trasferisce in seguito nei Balcani e invia articoli che poi raccoglierà nel libro "Tutto il Danubio". Successivamente compie viaggi in Turchia e nel Medio Oriente. Da tempo scrive anche racconti che poi riunirà nel suo ultimo libro, il più bello: "Scomparsa d'Angela", che otterrà un buon successo editoriale e traduzioni all'estero.

I racconti di Pavolini sono tutti di buona fattura e alcuni veramente riusciti. Il suo stile è moderno (a volte si direbbe hemingwayano), il taglio nervoso, le conclusioni rapide. I temi che affronta sono in genere avventurosi o sentimentali, ma non mancano i bozzetti di costume o le storie della piccola gente. Manca invece ogni accenno di propaganda politica.

Il genere avventuroso è comunque quello in cui meglio esprime le sue doti innate, perché sa intrecciare scene d'azione violenta a momenti di poesia crepuscolare. La morte, o, più esattamente, la «bella morte», è il tema che maggiormente lo affascina. Come in "Scomparsa d'Angela", il racconto che darà il titolo al libro, dove narra con accenti di commosso lirismo di una giovane aviatrice che scompare col suo aereo in un lago:

"Quaggiù i meccanici continuano a esaminare il motore, svitano, avvitano pensierosi, e noi continuiamo a guardare nel lago. Ma so che noi non troveremo nell'acqua il corpo e che essi non troveranno nel ferro un perché".

 

Altri racconti lo rivelano attento lettore dei più noti autori americani del momento, che lui ha imparato ad amare frequentando a Firenze Elio Vittorini. E' il caso di "Leopardo a Dil Dil", un racconto che si svolge in un ambiente che ricorda quello delle "Nevi del Kilimangiaro" descritto da Hemingway. Il protagonista è un aviatore italiano costretto ad atterrare in territorio nemico durante la guerra d'Abissinia:

"Via la tuta. Pallottola in canna alla rivoltella, contare i colpi: undici (uno fu sprecato contro un falco, al campo), ricordarsi di spararne dieci e serbare l'undecimo. In carlinga: verificare la mitragliatrice, prendere la carta, inventariare i biscotti e le sigarette. Se necessario basterà accostare l'accendino a questo vecchio «Corriere Eritreo» appallottolato, imbevuto, per incendiare l'apparecchio".

Più tardi, l'aviatore vede arrivare gli abissini:

"Gente, ecco. E a destra. E a sinistra. E' un accerchiamento rado, lento, ancora lontano, un giro di punti bianchi nell'orizzonte vacillante... Quaranta. Cinquanta. Fino a cento la mitragliatrice potrebbe averne ragione.

Aumentano.

Un sordo mugolio nasce, quasi una voce intima della terra, una doglia dell'altipiano. Si avvicinano, crescendo in statura; alti; allungati ancora dal loro avanzare saltellato, e dai fucili branditi...

Finalmente la sparatoria deflagra, scarica di fulmini liberatrice. L'arma fornisce sobbalzando il suo giro. Passano i proiettili di fucile presso l'orecchio col suono del filo elettrico colpito da fionda...

Non cessano di gridare, gli accerchianti, sebbene la cadenza sia spezzata, sebbene la mitragliatrice spalanchi lacune nel coro, non cessano di gridare... Sono altissimi, fasciati di bianco; nel puntamento il nero del viso s'intensifica; la morte li coglie al ventre, cadono piegati in due rotando.

Passano, "wup, wup", le pallottole vicino alla testa. Una cateratta calda, un bagliore rosso luminoso empie la vista di un occhio. Bisogna cambiare il caricatore..."

Tratto in salvo, gravemente ferito, l'aviatore, che è toscano e si chiama Leonardo, viene poi affidato a una famiglia di coloni italiani in Eritrea che abita in una concessione chiamata Dil Dil, che assomiglia «all'Agro Pontino dalla parte di Ninfa, di Cori» e che è ombreggiata da quercioni enormi «come se ne trovano sul Monte Amiata e nelle illustrazioni del "Furioso"»:

"Piccoli mondi a sé, isole di quasi Italia sono un po' tutte le vecchie concessioni eritree, coi loro odori di cedrina, di rosmarino, di basilico in una lista di terriccio lungo l'intonaco del villino, con un'aiuola di rose davanti alla veranda, con qualche panchina e magari un [sic!] gnomo di Signa nel viluppo dei pomari..."

Leonardo trascorre i giorni della sua lunga convalescenza a Dil Dil.

Gli tiene silenziosa compagnia un ragazzo alle soglie dell'adolescenza, Luchino, che ha per amica una gazzella di nome Leonora e per nemico un leopardo solitario che ogni sera scende ad abbeverarsi al ruscello. La belva non ha mai dato fastidi ai coloni, ma questi l'hanno strumentalizzata per tenere buono il ragazzo («Se non la smetti chiamo il leopardo, gli dicevano i parenti»). A Dil Dil, insomma, c'è un babau di cui Luchino, pur vergognandosene, ha ancora paura.

 

"Un fruscio delle frasche bastava ancora a farlo trasalire; specie se era stato disubbidiente. Poter guarire! Poter guarire dell'infanzia! Egli vi si applicava con intensità, a letto si sdraiava diritto come una sentinella sull'attenti perché aveva sentito dire che così si cresce più presto; ed era fiero che verso il ferito gli avessero dato un incarico preciso, un incarico d'uomo".

In quell'ambiente familiare l'aviatore ferito intanto migliora:

"Vicino a casa, vicino a casa egli era. L'odore di garza e di canfora delle zanzariere gli evocava certi armadi d'avanti la villeggiatura. Il ritratto di Re Umberto era il medesimo che aveva visto da ragazzo dai nonni, in Valdinievole..."

Aiutato da Luchino, Leonardo riprende a camminare. Compie le prime passeggiate. Gioca con Leonora.

Finché una sera il ragazzo nota la scomparsa della gazzella:

"Di certo andava al ruscello... "Ebbene?", stava per chiedere l'aviatore. Ma subito si ricordò del leopardo, ed ecco si mise in cammino brandendo il fucile. Presto corsero a perdifiato. E sentivano, nel rombo del cuore, ciascuno la propria debolezza lanciata a repentaglio... Ma sempre più correvano tra le piante sempre più folte...

Entrarono con un balzo nella grotticina di fronde intorno all'abbeveratoio. La gazzella giaceva su un fianco, un fianco squarciato. I rosei e netti suoi tessuti si disegnavano a nudo, e i suoi muscoli e tendini lacerati fra neri grumi di mosche... e la testa dagli occhi incolpevoli a metà sommersa nella trasparenza aveva nei cerchi che ne nascevano, a uno a uno allargandosi, una sua aureola. Si sentiva l'affanno dei due. Nelle frasche spezzate durava un che di acre, come per un transito fulmineo e recente.

A poco a poco il loro affanno diminuì. E la vita continuava! Continuava, avevano il brusio del ruscello e il canto degli uccelli nelle orecchie, i piedi sul terriccio arruffato come di circo. Tra le scapole, un brivido di fresco notturno.

S'incontrarono con gli occhi, e ciascuno dei due capì che era guarito".

 

Un altro racconto di Pavolini, dal titolo "Cento metri", in cui l'autore narra in prima persona di un suo amico livornese, ottimo centometrista, di nome Niccolò, è stato interpretato come una smaccata confessione dei sentimenti rancorosi che già allora Pavolini nutriva per Ciano («Tutto di Niccolò mi irritava: e soprattutto la qualità, i doni, i privilegi»). Questo Niccolò, mentre il narratore sgobba sui libri all'accademia navale, vive spensieratamente concentrato solo in quei pochi secondi della propria corsa:

"Poi mi batteva sulle spalle le sue espansive manate di livornese, scherzava, divagava con spirito; riprendeva dinoccolato a errare per le giornate come per un'anticamera.

Ormai, però, io sapevo bene che se c'era uno della nostra età il quale non si distraesse mai veramente, era lui, Niccolò. Era appunto come quei tuffatori che sostano a lungo sulla cima del trampolino, e guardano l'acqua e non la guardano, e pare che il tempo non abbia valore per loro lassù, sospesi a mezz'aria; ma in realtà essi lavorano, lavorano ad aspettare un certo loro istante da cogliere, quello e non altro, da buttarglisi dietro al volo. Così Niccolò nel suo andirivieni, in quella spaziosità di vigilia che conservava alla sua vita.

Aspettava un certo momento. Sempre guardava e non guardava un certo filo, teso ad altezza del cuore.

Né si trattava (anche questo sapevo, ormai) di un traguardo qualsiasi: ma di un traguardo ben preciso, sebbene ancora lontano nello spazio e nel tempo.

Campionato europeo, Helsinki: la finale... Oh, una pista rossa, là come a Livorno; e una pistolettata, e via".

 

Finalmente il gran giorno arriva. Niccolò è selezionato per i campionati europei e l'autore, che si trova in Finlandia dove è giunto con la sua nave, può assistere alla gara:

"Io vidi Niccolò - punta delle dita al suolo, orecchio al colpo, occhio al filo laggiù - Niccolò che stava per bruciare la sua attesa d'anni in alcuni secondi...

Quando partirono e corsero io li vidi avventarsi verso il traguardo come un'onda frontale, compatta.

Conoscete in queste corse il gesto con cui le chiude il vincente, gettando avanti in un estremo sforzo il petto a toccare primo il filo? Così fece Niccolò.

Ma fu come se il filo contenesse una corrente: e il cuore gettato avanti non reggesse il leggerissimo urto.

Cadde sull'erba acciambellato, come un levriero.

Quando riuscii a rivederlo l'avevano steso supino e una folla contemplava quel suo profilo, lucente d'un sole intenso e straniero".

 

Apparirà a tutti evidente che alcuni passi di questo racconto possono essere riferiti ai rapporti Ciano-Pavolini ed essere anche letti in chiave premonitoria (l'invidia per i privilegi di Niccolò, la sua «livornesità», il traguardo sportivo inteso come la successione a Mussolini e, infine, la morte di Niccolò che chiude il conto fra i due amici). Ma è certo che Pavolini, scrivendo "Cento metri", non intendeva assolutamente riferirsi a Ciano. Un fatto simile è oltretutto inconcepibile per la semplice ragione che Pavolini era solito far leggere a Ciano i suoi scritti e chiedergli, cortigianescamente, giudizi e suggerimenti. Perché dunque avrebbe rischiato di perdere la sua preziosa amicizia? La spiegazione, comunque, è un'altra. Fu Ciano a suggerire il racconto a Pavolini narrandogli un episodio della propria giovinezza livornese che lui stesso, forse, avrebbe voluto scrivere. Ciano, insomma, non è il Niccolò di "Cento metri", ma l'«io narrante», ossia il cadetto dell'accademia che invidia i privilegi e le qualità dello sfortunato centometrista.

Frattanto, mentre Pavolini scrive e viaggia, Ciano tesse i nuovi rapporti internazionali dell'Italia imperiale. Nel 1936, in piena intesa con Mussolini, ha avviato la realizzazione dell'Asse Roma-Berlino, che lui giudica necessario per togliere l'Italia dal suo isolamento politico seguito alle sanzioni. Promotore dell'intervento italiano in Spagna, durante la guerra civile, pur fingendo di deprecare l'enorme numero di fucilazioni compiute dai franchisti (ma neanche i repubblicani scherzavano), incoraggia le esecuzioni sommarie compiute dai nostri. Telegrafa infatti ai comandi: «Resta inteso che mentre i prigionieri spagnoli dovranno venire da noi rispettati, bisogna passare subito per le armi i mercenari internazionali. Naturalmente, per primi, i rinnegati italiani».

E' fra queste manifestazioni di spietata brutalità che nasce, nel «circolo Ciano», l'idea di far uccidere i fratelli Carlo e Nello Rosselli, due fra i più tenaci sostenitori della necessità di combattere dovunque il fascismo («Oggi in Spagna domani in Italia» è la loro parola d'ordine). I Rosselli vengono infatti uccisi il 9 giugno 1937 da fascisti francesi che operano su commissione dei servizi segreti italiani.

Non si hanno testimonianze sulle reazioni di Pavolini nell'apprendere la morte dei suoi amici di un tempo. Probabilmente approvò il delitto, ma è tuttavia da escludere la sua partecipazione al complotto: a quell'epoca si trovava in Sudamerica. La sua carriera politica comunque continua... Il 5 febbraio 1938 Galeazzo Ciano annota nel suo diario: «Ho nominato Pavolini Presidente dell'Istituto per gli scambi internazionali. Farà bene ed è fedele».

Pavolini sembra ormai disposto a qualsiasi concessione. Pochi mesi dopo, per esempio, è pronto a gettare alle ortiche tutti i suoi scrupoli di difensore della libertà della cultura per entrare a far parte, a imitazione di Goebbels, della ridicola Commissione per la bonifica libraria. Questa commissione - di cui, oltre Pavolini, fanno parte Marinetti, Formichi e Padellaro - è una specie di congregazione fascista dell'Indice che ha il compito di impedire la circolazione di libri scritti da autori di origine ebraica o, comunque, non in linea con le direttive del Minculpop. Vengono proibite, fra le altre, le opere di Gogol', Tolstoj, Turgenev, Casanova, Ovidio, Marziale, Rabelais, Poe.

Molto più sfumata è invece la posizione di Pavolini rispetto alla proclamazione delle leggi sulla razza. Certo lo frena la sua delicata situazione familiare: suo fratello Corrado, che ha sposato una giovane ebrea, Marcella Hanau, appena pochi anni prima, al ritorno da un viaggio in Germania, ha pubblicamente parlato dell'antisemitismo nazista come di un odio «quasi raccapricciante se si riflette che anche l'ebreo è infine un essere umano». Influisce inoltre su Pavolini la sua amicizia con la famiglia fiorentina degli Uzielli, cui deve anche molta gratitudine.

A ogni buon conto, dopo la proclamazione delle leggi antisemite, egli si limita, nella sua veste di presidente della Confederazione fascista Professionisti e Artisti, a trasmettere senza commenti ai sindacati provinciali le disposizioni governative che stabiliscono l'allontanamento degli israeliti da tutte le cariche pubbliche. Più tardi aderirà al primo Centro per lo studio del problema ebraico fondato ad Ancona dal marchese Guido Podaliri Vulpiani da Recanati.

Forse è per questa sua palese tiepidezza verso la moda dell'antisemitismo importata dalla Germania (a cui va unita la sua ancora non sopita tedescofobia) che Pavolini torna a ritrovarsi nel mirino dei delatori. Circa i sospetti sul suo «lealismo politico» riferiti dall'OVRA a Mussolini, già sappiamo. Ma altre voci corrono in quei giorni sul suo conto a proposito di certe sue prese di distanza dal regime che certamente non esistono. Pavolini, comunque, reagisce con la consueta durezza. Lo dimostra questa lettera da lui scritta al ministro della Cultura popolare, Dino Alfieri, il 2 dicembre 1938:

"Caro Alfieri, ho ripensato all'accenno da te fattomi alla Camera relativamente a non so quale voce su "critiche e riserve" che io avrei espresse (non so su che, dove e con chi).

Quand'ero federale io, a Firenze si bastonava ogni propalatore di critiche o di barzellette. Qui in Confederazione, è fresca la scoperta di tre fascisti dediti a criticare e "da me colpiti personalmente" [il corsivo è di Alfieri], e poi con misure che sono giunte al confino e al ritiro delle tessere. E' perciò quasi ridicolo che io ti faccia dichiarazioni in materia.

Comunque: né scrivendo, sia pure in lettere privatissime, né telefonando, "né parlando con chicchessia" - dai più intimi ai più estranei - mai in vita mia, dico MAI, io ho detto o scritto parola che non fosse assolutamente rispondente al mio animo, cioè intransigentemente fascista.

Ciò mi dà il diritto di citare la fonte: il diritto di chiederti che un confronto mi dia modo di smascherare - nell'interesse non solo mio - uno di quei calunniatori, pericolosi fra tutti, che non partono da un fatto svisato, ma da una "invenzione"."

La vicenda non ha seguito. Si tratta comunque di piccole nubi che non oscurano minimamente l'orizzonte radioso che attende a brevissimo termine l'intellettuale fascista. Dal 10 al 18 luglio 1939, Pavolini accompagna Ciano in Spagna, dove il ministro degli Esteri va a godersi la «sua» vittoria. Pochi mesi prima aveva partecipato al fianco di Ciano anche alla guerra d'Albania, dove il suo amico e protettore aveva colto una nuova corona da offrire alla casa Savoia.

La visita in Spagna, dove Ciano e il suo seguito giungono a bordo dell'"Eugenio di Savoia", scortato da un'intera squadra navale, segna un nuovo trionfo per il ministro degli Esteri italiano. E' il momento più felice della sua carriera politica. E felici quanto lui sono coloro che egli tiene legati alla sua cordata da un patto non scritto di assoluta fedeltà.

Anche se i giorni cupi non sono lontani, Ciano pare ancora deciso a tenere l'Italia fuori dal conflitto che gli alleati tedeschi vanno minacciando. Nel frattempo, infatti, la sua linea di politica estera si è fatta molto oscillante, passando alternativamente fra Londra e Berlino. Pavolini è fra i meglio informati delle sue oscillazioni. In agosto, dopo l'incontro di Salisburgo in cui Hitler e von Ribbentrop gli comunicano l'intenzione di attaccare la Polonia, Ciano ha un colloquio confidenziale con l'amico. «Quei due pazzi hanno deciso la distruzione del mondo» gli confida. Poi aggiunge: «Mussolini ci teneva molto che spiegassi quale follia sarebbe una guerra scatenata adesso. Ma li ho trovati irremovibili. Allora ho detto a Baffino [cioè Hitler] che l'Italia non è impegnata a seguirlo perché gli accordi fra noi stabiliscono che nei prossimi tre anni si provveda alla preparazione. E poi Mussolini punta sempre su una conferenza risolutiva. Baffino» prosegue Ciano «ha dovuto ammettere che l'Italia non ha alcun obbligo di farsi sbranare per la sua bella faccia».

Pavolini approva il comportamento di Ciano. «Al tuo posto avrei fatto lo stesso» dichiara.

Il primo settembre 1939 i tedeschi aggrediscono la Polonia. Due giorni dopo Francia e Inghilterra dichiarano guerra alla Germania. L'Italia invece prende tempo e annuncia la propria «non belligeranza».

19 ottobre 1939. Galeazzo Ciano scrive sul suo diario: «Il Duce si accinge a fare ministri tutti i miei amici, Muti, Pavolini, Riccardi e Ricci. Manda via Alfieri e ciò mi dispiace perché è stato un buon camerata».

Il nuovo governo formato pochi giorni dopo da Mussolini viene maliziosamente definito «il primo gabinetto Ciano» per via dei numerosi membri del suo «circolo» che ne fanno parte. In esso Pavolini ottiene il dicastero della Cultura popolare. Buzzino ha da poco compiuto trentasei anni e, a parte l'indispensabile appoggio di Ciano, ha le carte in regola per adempiere al suo nuovo compito. Molti intellettuali si rallegrano per la sua nomina. Ricordando il suo lavoro a Firenze, sono certi che la cultura italiana ne guadagnerà.