Capitolo dodicesimo
«QUALCHEDUNO LA PAGHERA'»
La contessa Carolina Ciano, madre di Galeazzo, ha lasciato scritto prima di morire:
"La responsabilità della morte di mio figlio è soprattutto di Buffarini Guidi, di Pavolini, di Cosmin, capo della provincia di Verona, e purtroppo anche di Rachele Mussolini. Furono Pavolini, Buffarini e Cosmin a impedire che fosse inoltrata a Mussolini la domanda di grazia di mio figlio Galeazzo e dei suoi quattro compagni di sventura".
L'accusa di Carolina Ciano è stata respinta dal figlio di Buffarini, mentre Teresa Pavolini ha affermato: «Il solo giudizio sereno sui protagonisti di un periodo così drammatico potrà darlo la storia». Da parte sua, Vittorio Mussolini ha detto:
"Nessuno amava Galeazzo. I tedeschi poi lo detestavano e non l'avrebbero mai mandato in Italia per un processo-burletta. Eravamo nell'inverno del '44 e il nemico si avvicinava a Roma. La fucilazione di Galeazzo fu come una sfida gettata dai fanatici a mio padre. Egli l'accettò. Nessuno si sognò mai di suggerire a mio padre la clemenza. Nessuno si batté per salvare Galeazzo, tranne Edda, sua moglie. Dopo la fucilazione di Ciano, mio padre mi disse: «Con il processo di Verona la famiglia Mussolini ha pagato»".
Edda Ciano, per suo conto, ha detto: «Quella volta mio padre volle fare il console romano». A chi scrive questo libro ha aggiunto:
"Pavolini invidioso di mio marito? Sciocchezze. Certo, Pavolini doveva molto a Galeazzo. Erano stati molto amici. E con questo? Pavolini era un fascista intelligente (sì, c'erano anche dei fascisti colti e intelligenti, lo scriva nel suo libro!) e un uomo coerente. Si comportò di conseguenza".
Mentre il diplomatico tedesco Möllhausen, che operava a Salò, ha scritto:
"A quanto veniva affermato negli ambienti delle S.S., la sorte di Ciano era già stata decisa in un colloquio fra Hitler e Mussolini. Berlino fece anche sapere che un'eventuale commutazione della pena capitale degli imputati, in particolare di Ciano, sarebbe stata accolta molto male".
Infine c'è la testimonianza del generale Renzo Montagna, uno dei nove giudici del Tribunale speciale di Verona, che rivela quanto accadde in camera di consiglio:
"Quando fu la volta di Ciano la discussione tra noi si svolse in un'atmosfera di solidarietà. Nessuno dei giudici ebbe per lui una sola parola indulgente e il risultato fu che si votò all'unanimità per la fucilazione. Spettava semmai a Pavolini, nella sua qualità di segretario del partito, inoltrare la domanda di grazia..."
Forse è appena il caso di chiarire che l'affrettata legge costitutiva del Tribunale speciale, che doveva giudicare i traditori del 25 luglio, neppure prevedeva l'eventualità della grazia, e quindi nulla stabiliva sull'inoltro delle domande. Ma non è questo il punto.
Per anni si è discusso e ci si è arrovellati per isolare in un solo personaggio la responsabilità della fucilazione di Ciano e dei suoi quattro compagni. Spesso dimenticando qual era la reale situazione in quel gennaio del 1944. Domandiamoci invece - perché questo è il nocciolo della questione - cosa sarebbe accaduto se Mussolini, Pavolini o altri avessero graziato tutti gli imputati (perché è chiaro che, se avessero graziato Ciano, avrebbero dovuto graziare anche De Bono, Mannelli, Gottardi e Pareschi, tutti meno condannabili di lui).
La risposta è semplice: i tedeschi sarebbero sicuramente intervenuti per sostituirsi al plotone d'esecuzione fascista e la neorepubblica avrebbe perduto ogni credibilità. Ma, probabilmente, ancora prima dei tedeschi sarebbero intervenuti quei fanatici squadristi che da tempo chiedevano la testa dei traditori e che già avevano tentato di assaltare il carcere degli Scalzi per fare giustizia sommaria. E anche in questo caso il prestigio del governo fascista avrebbe subito un colpo ben duro.
Questa, dunque, era la situazione reale. Alessandro Pavolini ne era perfettamente consapevole. Nessuno ha mai raccolto le sue confidenze, né ora siamo in grado di scrutare nelle profondità del suo animo. Quindi non possiamo stabilire se desiderasse la morte di Ciano per un imprecisabile desiderio di vendetta o per dar prova di stoicismo romantico sacrificando anche l'amico più caro. Certo è che riteneva questo sacrificio necessario e indispensabile per la sopravvivenza stessa del fascismo.
D'altra parte, come sappiamo, questa era la linea di condotta dell'uomo: il lavacro di sangue purificatore fu sempre alla base dei suoi programmi. Secondo lui, soltanto gli ingenui o gli opportunisti potevano illudersi di salvarsi dando vita a un improbabile movimento di pacificazione. Era anche consapevole che il fascismo era ormai condannato dalla storia. Ne percepiva l'isolamento. Sapeva che il partito era una minoranza assediata in un paese ostile, e da tempo si era votato anima e corpo al rogo finale.
Questa sua linea romantica e disperata è anche quella - non bisogna dimenticarlo - che, magari con motivazioni diverse, incontra l'approvazione della maggioranza dei fascisti di Salò. Pavolini ne ha avuto un'ulteriore prova due mesi prima, il 14 novembre, in occasione del congresso di Verona.
Quel giorno si sono riuniti nell'ampia sala di Castelvecchio centinaia di delegati delle organizzazioni del partito dell'Italia centrosettentrionale, con il confuso proposito di gettare le basi del nuovo Stato. Ne è seguita un'assemblea caotica. Un torrente di discussioni senza capo né coda, caratterizzato da incidenti, contrasti, appelli retorici e proposte politiche fra le più disparate: chi invoca un impossibile ritorno alle origini, chi l'abolizione della proprietà privata, chi la creazione di un partito armato. Tutti però sono d'accordo nel reclamare vendetta. E tutti si levano in piedi ad applaudire quando, di tanto in tanto, riecheggia nell'aula il grido che ha cadenzato i lavori del congresso: «A morte Ciano!».
Pavolini, per la verità, ha organizzato questo congresso per preparare l'assemblea Costituente. Ha anche portato un suo «manifesto politico», che condensa in 18 punti quelle che dovrebbero essere le linee maestre del nuovo Stato. Il documento, redatto dallo stesso Pavolini con la collaborazione di Mussolini, dell'ex comunista Bombacci, autonominatosi «consigliere del Duce», e con l'immancabile supervisione dell'ambasciatore germanico Rahn, è diviso in tre parti: politica interna, politica estera, politica sociale.
Nella prima parte vengono stabilite le modalità per la convocazione della Costituente. Per la nomina del capo dello Stato vi si prospetta l'adozione di un sistema elettorale misto e si afferma che «nel partito, ordine di combattenti e di credenti, si deve realizzare un organismo di assoluta purezza politica, degno di essere il custode dell'idea rivoluzionaria». Per la politica estera, si annuncia che la repubblica si adopererà «per la realizzazione di una comunità europea». In materia sociale il documento è molto a «sinistra»: si garantisce la proprietà privata, ma si parla anche di socializzazione delle aziende: tecnici e operai coopereranno alla ripartizione degli utili; i consigli di amministrazione, quando è il caso, saranno rimossi e sostituiti dai consigli di gestione, mentre in agricoltura si procederà all'espropriazione delle terre incolte. Seguono molte altre interessanti innovazioni di ordine sociale. Insomma, tutto quello che il fascismo non ha voluto dare in vent'anni lo si promette ora, quando non è più possibile mantenere gli impegni.
Ma non è il «manifesto» che interessa i delegati. In quell'assemblea, dei «18 punti» neppure si parla, tanto che saranno approvati acriticamente. Nella tumultuosa sala di Castelvecchio, dove i «vecchi» e i «duri» delle squadre si ritrovano per la prima volta insieme, si parla d'altro: di guerra, di ribellismo e soprattutto di vendetta.
Quando Pavolini annuncia che dopo l'uccisione di un fascista a Brescia «è seguita la fucilazione di undici comunisti, i quali sono stati allineati per le strade affinché la città ne traesse un monito», l'assemblea si leva in piedi ad applaudire con tale vigore che il segretario sente il bisogno di precisare: «Io non sono né un sanguinario, né un maniaco; la mia formazione mentale è molto diversa. Ma ho la precisa sensazione che o si fa così o non si toccano le coscienze...».
Galeazzo Ciano, come già detto, è il principale bersaglio degli insulti che si levano dalla sala. Molti reclamano la rapida costituzione del tribunale che lo condannerà. Altri denunciano manovre tendenti a liberarlo.
Spirito di vendetta e nostalgia per i «bei tempi del manganello» sono i fantasmi che aleggiano nell'aula. Pavolini cerca di evocarli. «Lo squadrismo» afferma «è stata la primavera della nostra vita. Chi è stato squadrista una volta lo è sempre...» Voci: «Non tutti!».
Pavolini si corregge: «Naturalmente, parlo dei presenti...».
Si registrano anche divertenti scontri verbali: «Non vogliamo più essere presi per il culo!» urla un delegato.
La battuta non piace al raffinato segretario: «Queste sono espressioni da caserma».
«Ma questa è una caserma!» gli rispondono.
A un certo punto i lavori dell'assemblea sono interrotti dal segretario del partito, che annuncia l'uccisione del federale Ghisellini di Ferrara. Alle urla scomposte di esecrazione che subito si levano, Pavolini balza in piedi, freddo e minaccioso:
"Silenzio! Se ci sarà da fare qualcosa sarò io il primo a farlo, ma non si grida in presenza di un morto. Si agisce disciplinatamente. I camerati di Ferrara raggiungano immediatamente la sede. Quello che bisognerà fare, sarà fatto e lo faremo con il nostro stile spietato e inesorabile".
Subito dopo squadre fasciste di Padova e di Verona partono in spedizione punitiva per Ferrara. Massacreranno diciassette antifascisti scelti a caso. «Questo avvenimento» scriverà lo storico britannico Frederick W. Deakin «concluse le settimane di esitazione dopo il settembre e segnò la fine di ogni illusione di patti e di comprensione con l'altra parte. Il nuovo corso sboccò nella vendetta.» Dopo questo episodio, il congresso si chiude in un clima di confusa esaltazione. Dai lavori dell'assemblea non è uscito alcun progetto politico realistico, ma soltanto un comune proposito di vendetta che si riassume in un vecchio slogan fascista: «Qualcheduno la pagherà».
Per Pavolini, comunque, è una vittoria. E' infatti la linea dura che vince, e ciò significa l'approvazione del suo concetto di fascismo delle squadre d'azione, che otterrà il risultato di affrettare la guerra civile.
Solo con queste premesse è dunque possibile capire perché si è giunti alle cinque esecuzioni di Verona dell'11 gennaio 1944, e perché è inimmaginabile un atto di clemenza: nessuno dei capi fascisti lo desiderava, anche se poi si affanneranno in un penoso gioco di scaricabarile per palleggiarsi l'un l'altro la responsabilità. Pavolini, perlomeno, non ebbe esitazioni ad assumersi le proprie. Quando infatti gli chiedono di adoperarsi per l'inoltro delle domande di grazia, la sua risposta è negativa.
Circa le ultime ore dei condannati di Verona e il comportamento di Pavolini, esiste una testimonianza di Puccio Pucci, già segretario generale del CONI e all'epoca collaboratore del segretario del partito.
Racconta Pucci:
"Tra i ricordi più tristi della mia vita c'è l'episodio della fucilazione dei cinque membri del Gran Consiglio del fascismo cui dovetti assistere per incarico ricevuto dal segretario del partito. Conosco direttamente i retroscena, che si conclusero con la condanna a morte. Appena terminato il processo di Verona, Pavolini e io partimmo alla volta di Gargnano. Pavolini fu ricevuto dal Duce, al quale riferì esattamente le conclusioni processuali. Subito dopo questo colloquio, mentre ritornavamo a Verona (dove nel frattempo i cinque condannati a morte avevano presentato domanda di grazia), Pavolini mi raccontò che Mussolini gli aveva detto: «Ero sicuro che la decisione del tribunale straordinario sarebbe stata di condanna a morte. Con questa condanna si chiude un ciclo storico. Come capo dello Stato e del fascismo, non dunque come parente di uno dei condannati, ritengo che i giudici di Verona abbiano fatto il loro dovere». Raggiunta Verona, Pavolini e io ci recammo in prefettura, da Cosmin, capo della provincia, presso il quale si trovavano le domande di grazia. Era sopraggiunto anche Buffarini Guidi, ministro degli Interni. Qui ebbe inizio il conflitto delle competenze per l'inoltro delle domande di grazia a Mussolini. Pavolini si limitò a dire con significativa insistenza che non si poteva mettere Mussolini in una situazione di doloroso imbarazzo. Secondo quanto so per scienza diretta, Pavolini non era personalmente bramoso della morte di Ciano. Fu lui a impedire che un gruppo di fascisti emiliani entrasse nottetempo nel carcere degli Scalzi per fare giustizia sommaria di Ciano e degli altri".
Si conoscono anche le esatte parole che Pavolini pronunciò per rifiutare l'inoltro delle suppliche. Disse: «Non possiamo obbligare il Duce a ucciderlo due volte».