7. CHI È LÀ?
UN UOMO PAGO DELLA VITA
Prima che l’immagine di Spinoza si fosse chiarita nella mia mente, mi ponevo una domanda inquietante: negli anni che trascorse a Voorburg e all’Aia, Spinoza era davvero appagato, o il suo era un modo di atteggiarsi, una posa di santità? Stava forse costruendosi un personaggio impregnato di benevolenza, ispirato alla negazione di tutto quanto è terreno, insomma, un’immagine di sé che desse autorità alle sue parole e rendesse il compito dei suoi critici ancor più difficile? Lo Spinoza che immagino io risponde facilmente a questa domanda. Spinoza era davvero pago della sua esistenza. La sua frugalità non era fittizia. Egli non stava recitando per mostrare alla posterità un esempio di sacrificio. Probabilmente, la sua vita e la sua filosofia confluirono, grosso modo, quando egli raggiunse la veneranda età di trentatré anni.
Supponendo che Spinoza fosse contento della sua vita, e considerando che essa era priva degli orpelli che siamo soliti associare alla felicità - anzi: la sua salute malferma, la mancanza di mezzi e l’assenza di rapporti familiari avrebbero impedito ad Aristotele di definire la sua un’esistenza riuscita - è ragionevole chiedersi come facesse a sentirsi appagato. Qual era il suo segreto? La mia non è una semplice curiosità; piuttosto, mi attrae l'opportunità di pormi un’altra domanda ancora: in che misura la conoscenza della biologia delle emozioni, dei sentimenti e dei rapporti mente-corpo discussa in questo libro è rilevante ai fini di una vita soddisfatta? Senza dubbio emozioni e sentimenti sono essi stessi parte integrante di ciò che noi siamo, tanto dal punto di vista personale, quanto da quello sociale. La domanda allora è: il fatto di sapere come funzionano emozioni e sentimenti ha una qualche importanza nel determinare il modo in cui viviamo? Nei capitoli precedenti ho ipotizzato che una tal conoscenza comporti davvero una differenza nell’orientamento della vita sociale; qui, invece, mi sto chiedendo se possa essere altrettanto importante nella vita personale.
Collegare questo interrogativo a Spinoza è ragionevole, soprattutto se si osserva che il concetto di natura umana che va prendendo forma sotto l’influsso della moderna biologia si sovrappone in parte a quello che lui stesso, a suo tempo, propose. Occorre dunque considerare l’approccio di Spinoza all’appagamento.
La più nota delle raccomandazioni di Spinoza per realizzare il fine di una vita ben vissuta prescriveva due cose: un sistema di comportamento etico e una forma di governo democratica. Spinoza tuttavia non pensava che seguire le norme etiche e le leggi di uno stato democratico fosse sufficiente per raggiungere la forma più alta di appagamento, ossia quello stato di perdurante felicità che per lui coincideva con l’umana salvezza. Al giorno d’oggi, non lo penserebbe neppure la maggior parte della gente - credo. Molte persone sembrano desiderare qualcosa di più dalla vita, che non una condotta morale e osservante delle leggi. La soddisfazione associata all’amore, alla famiglia, all’amicizia e alla buona salute; le gratificazioni che vengono dal far bene il lavoro che si è scelto (la soddisfazione personale, l’approvazione degli altri, gli onori e il compenso economico); il perseguimento del proprio piacere e l’accumulo di ricchezze; e, ancora, l’identificazione con una nazione e con l’umanità intera. Tutto questo non basta ad appagarci. Molti esseri umani desiderano qualcosa che comporti, quanto meno, una certa chiarezza sul significato della propria vita. E questa esigenza - espressa in modo più o meno chiaro, più o meno confuso - non è che il desiderio struggente di sapere da dove veniamo e - ancor più, forse - dove siamo diretti. Al di là della nostra esistenza immediata, quale scopo potrebbe dunque avere la nostra vita? Ed ecco, insieme al desiderio, presentarsi una risposta, bene a fuoco oppure vaga, e finalmente scorgiamo o intravediamo un fine.
Non tutti gli esseri umani avvertono questa necessità. Desideri e bisogni variano notevolmente da individuo a individuo, a seconda della personalità, della curiosità, delle condizioni socioculturali e dei periodi della vita. Spesso la giovinezza lascia poco spazio alle riflessioni sui lati negativi della condizione umana. La fortuna e il successo agiscono anch’essi da schermo. Molti si stupirebbero nel sentir parlare del bisogno di qualcos’altro, a parte la gioventù, la salute e la fortuna. Perché tanta agitazione? D’altra parte, se si riconosce questa esigenza, è giusto chiedersi che cosa ci spinge a desiderare ardentemente qualcosa che potrebbe non arrivare da sé - o addirittura non arrivare del tutto. Perché quella conoscenza e quella chiarezza in più ci appaiono tanto desiderabili?
Si potrebbe rispondere affermando che il desiderare intensamente qualcosa è un aspetto profondo della mente umana. Esso è radicato nell’architettura del nostro cervello e nel pool genico da cui esso deriva, non meno di quanto lo siano i caratteri profondi che ci spingono a esplorare, con grande curiosità e sistematicamente, il nostro essere e il mondo che lo circonda; gli stessi che ci stimolano a costruire delle spiegazioni per gli oggetti e le situazioni presenti in quel mondo. L’origine evolutiva di tale aspirazione è del tutto plausibile, ma per comprendere perché il genoma umano l’abbia incorporata in sé, occorre aggiungere alla spiegazione un altro fattore - un fattore che io credo fosse all’opera nei primi esseri umani, proprio come lo è oggi. Questa sua persistenza ha a che fare con il potente meccanismo biologico a esso sotteso: lo stesso sforzo naturale di autoconservazione che Spinoza descrive in modo tanto trasparente come intima natura del nostro essere, il conatus, viene chiamato in azione quando dobbiamo affrontare la realtà della sofferenza e soprattutto quella della morte, reale o prevista, nostra o delle persone che amiamo. La prospettiva stessa della sofferenza e della morte disintegra il processo omeostatico dell’osservatore. Lo sforzo naturale teso all’autoconservazione e al conseguimento di uno stato di benessere risponde a quella disintegrazione lottando per impedire l’inevitabile e ristabilire l’equilibrio. La lotta ci spinge a trovare strategie per compensare la perdita dell’omeodinamica; e la consapevolezza della situazione difficile, nella sua interezza, è causa di dolore profondo.
Ancora una volta, per una ragione o per l’altra, non tutti gli esseri umani si comporteranno in questo modo nelle diverse occasioni. Ma per i molti che effettivamente reagiscono come ho descritto - non importa quanto bene riescano poi a risolvere l’impasse e a tirarsi fuori dall’oscurità - esiste, nella situazione, una dimensione tragica esclusivamente umana. Com’è che questa situazione arrivò a consolidarsi?
Per quel che posso immaginare, essa scaturì in primo luogo dal fatto di avere dei sentimenti - non solo emozioni: anche sentimenti - e in particolare quelli dell’empatia, grazie ai quali siamo pienamente consapevoli della nostra spontanea compassione verso gli altri; nelle circostanze appropriate, l’empatia apre la porta al dolore. In secondo luogo, la situazione derivò da due doni della biologia, la coscienza e la memoria, che condividiamo con altre specie ma raggiungono il massimo in noi esseri umani, sia per entità che per grado di sofisticazione. Nel senso stretto del termine, «coscienza» significa «presenza di una mente con un sé»; tuttavia, per l’uomo, in termini pratici, significa di più. Con l’aiuto di una memoria autobiografica, la coscienza ci offre un sé arricchito dalle registrazioni delle nostre esperienze individuali. Quando affrontiamo da esseri coscienti ogni nuovo momento della nostra vita, ci serviamo al tempo stesso delle circostanze in cui si verificarono le nostre gioie e i nostri dolori in passato, e delle circostanze immaginarie, proiettate in un futuro anticipato, che si presume ci arrecheranno altre gioie e altri dolori.
Se non fosse per questo livello superiore della coscienza umana, non vi sarebbe oggi, né vi sarebbe stata agli albori dell’umanità, alcuna angoscia particolarmente intensa di cui parlare. Ciò che non conosciamo non può ferirci. E anche nel caso in cui avessimo il dono della coscienza, se fossimo privi di memoria non saremmo torturati dall’angoscia. Ciò che conosciamo nel presente, ma che non siamo in grado di collocare nel contesto della nostra storia personale, potrebbe ferirci solo nel presente. E la combinazione dei due doni - coscienza e memoria - insieme alla generosità con cui ci sono stati elargiti, a tradursi nel dramma umano conferendogli uno status tragico nel passato come nel presente. Per fortuna, quegli stessi doni sono anche fonte di una gioia senza limiti, vero e proprio splendore umano. Condurre una vita consapevole e riflessiva non è solo una maledizione, ma anche un privilegio. Considerato da questa prospettiva, qualsiasi progetto di salvezza umana - qualsiasi progetto in grado di tramutare una vita di consapevole riflessione in una vita appagata - deve contemplare in primo luogo il modo di resistere all’angoscia evocata dalla sofferenza e dalla morte e, in secondo luogo, quello di cancellarla e di sostituirla con la gioia. La neurobiologia dell’emozione e del sentimento ci spiega, in termini suggestivi, che la gioia e le sue varianti sono preferibili al dolore e agli affetti simili, e sono inoltre più favorevoli alla salute e allo sviluppo creativo del nostro essere. Dovremmo dunque cercare la gioia, per decisione ragionata, e senza preoccuparci di quanto stupida e poco realistica possa sembrare quella ricerca. Se, pur non vivendo in condizioni di oppressione o di miseria estreme, non riusciamo a convincerci di quanto siamo fortunati a essere al mondo, forse non ci stiamo impegnando abbastanza.
Confrontarsi con la morte e la sofferenza può comportare una disintegrazione violenta dell’omeostasi. Probabilmente, i primi esseri umani cominciarono a sperimentare questa disintegrazione una volta che ebbero acquisito le emozioni sociali e i sentimenti di empatia; le emozioni e i sentimenti di gioia e dolore; la coscienza estesa con un sé autobiografico; e la capacità di immaginare entità e azioni potenzialmente in grado di alterare lo stato affettivo e di ripristinare l’equilibrio omeostatico. (Come abbiamo visto, i primi due requisiti, ossia la presenza di emozioni e sentimenti, sociali o meno, erano già in boccio nelle specie non umane; gli ultimi due, ossia la coscienza estesa e l’immaginazione, furono prevalentemente doni nuovi, riservati agli esseri umani). L’intenso desiderio di correttivi omeostatici sarebbe cominciato dunque come risposta all’angoscia. Gli individui con un cervello capace di escogitare tali correttivi e di ripristinare efficacemente l’equilibrio omeostatico sarebbero stati premiati con una vita più lunga e una progenie più numerosa. Il loro genoma avrebbe avuto migliori possibilità di propagarsi e, insieme a quello, si sarebbe disseminata anche la tendenza a ricorrere a tali reazioni. Quel desiderio, insieme alle sue benefiche conseguenze, sarebbe continuato a riaffiorare nel corso delle generazioni. Ecco perché una parte significativa dell’umanità potrebbe aver incorporato nella propria costituzione biologica sia le condizioni che portano al dolore personale, sia la ricerca di un conforto compensatorio.
I tentativi di salvezza riguardano pertanto un adattamento alla morte prevista oppure adeguamenti al dolore fisico e alla sofferenza mentale. (Naturalmente, per un certo periodo successivo all’invenzione del concetto di immortalità, tali tentativi miravano anche a evitare la vita all’inferno). Questi sforzi hanno una lunga storia. Individui intelligenti furono spinti a creare spiegazioni interessanti che rispondessero in modo diretto allo spettacolo della tragedia e consentissero di arginare la sofferenza, che da quello spettacolo deriva, attraverso l’adesione a precetti e prassi religiosi. (Qui non voglio insinuare che il confronto con la morte e la sofferenza sia stato l’unico fattore alla base dello sviluppo delle spiegazioni religiose. L’imposizione di comportamenti etici dovette essere un altro fattore importante in tal senso e potrebbe aver dato un particolare contributo alla sopravvivenza di individui il cui gruppo di appartenenza fosse riuscito a far rispettare le convenzioni morali). Alcune delle ben note narrazioni religiose promettono ricompense dopo la morte, mentre altre promettono un conforto in questa vita: l’obiettivo compensatorio, comunque, è lo stesso. In un certo senso, Spinoza fa parte di questa risposta storica. Essendo cresciuto in seno a una comunità religiosa, e avendo respinto la via da essa indicata per la salvezza umana, si vide costretto a trovarne un’altra. Sia il Tractatus sia l'Etica, oltre a contenere raffinate analisi di ciò che è, sono opere su ciò che dovrebbe essere e su come arrivare a raggiungerlo. La soluzione di Spinoza, tuttavia, è anche - in misura considerevole - un momento di rottura con la storia.
LA SOLUZIONE DI SPINOZA
Nel sistema di Spinoza esiste effettivamente un Dio, ma non si tratta di un Dio provvidente concepito a immagine dell’uomo. Dio è l’origine di tutto ciò che sta di fronte ai nostri sensi, ed è tutto ciò che è, sostanza causa sui, eterna e con infiniti attributi. In concreto, Dio è natura e si manifesta nel modo più chiaro nelle creature viventi. Tutto questo è colto, in uno spinozismo spesso citato, dall’espressione Deus sive natura: Dio o natura.1 Dio non si è rivelato agli esseri umani nei vari modi descritti nella Bibbia. Non si possono elevare preghiere al Dio di Spinoza.
Non è necessario temere questo Dio, giacché egli non punirà mai. Né occorre faticare nella speranza di essere premiati da una tal divinità, poiché da essa non arriverà premio alcuno. L’unica cosa che si possa davvero temere è il proprio comportamento.
Quando non siamo gentili con gli altri, in quel preciso istante puniamo noi stessi, e ci neghiamo l’opportunità di raggiungere la pace e la felicità interiori. Comportandoci in modo amabile, abbiamo buone probabilità di ottenere, in quell’istante, la pace e la felicità interiori. Pertanto, le azioni di una persona non dovrebbero essere volte a compiacere Dio, quanto piuttosto a esser conformi alla Sua natura. Da questo comportamento scaturisce un certo tipo di felicità e di salvezza - ora. La salus di Spinoza ha a che fare con i ripetuti momenti di felicità che, sommandosi, portano a una condizione di salute e benessere mentale.2
Spinoza non accettava che la prospettiva del premio o della punizione dopo la morte potesse rappresentare un incentivo appropriato per l’adozione di un comportamento morale. In una lettera molto esplicita deplorava chi si lasciasse guidare da una simile prospettiva: «Egli ... vivrebbe volentieri secondo l’impulso delle sue passioni, se non glielo impedisse il solo fatto che ha paura del castigo. Egli si astiene dunque dalle male azioni e osserva i divini comandamenti con la medesima riluttanza di uno schiavo e con animo titubante; e in cambio di questo servizio attende di essere colmato da Dio di ricompense assai più ambite dello stesso divino amore, e tanto più quanto più è riluttante e mal disposto a fare il bene che fa».3
Spinoza lascia spazio a due vie di salvezza: una accessibile a tutti, l’altra più ardua e praticabile solo da chi abbia un intelletto disciplinato ed educato. La via più accessibile richiede una vita virtuosa in seno a una civitas altrettanto virtuosa, obbediente alle regole di uno Stato democratico nonché attenta e consapevole della natura di Dio, sia pure in modo un poco indiretto, aiutandosi con la saggezza della Bibbia. La seconda via richiede tutti questi requisiti e, in più, l’accesso intuitivo alla comprensione: uno strumento intellettuale che Spinoza valutava più di ogni altro, e che a sua volta trova fondamento nella sapienza e in prolungate riflessioni. (Per Spinoza l’intuito è il mezzo più raffinato per accedere alla conoscenza; la «scienza intuitiva» è quella che egli definisce conoscenza di terzo genere, di livello superiore; ma si manifesta solo dopo aver accumulato un notevole sapere e averlo analizzato mediante la ragione). Prevedibilmente, Spinoza non teneva in alcun conto lo sforzo necessario per raggiungere i risultati desiderati: «Come infatti potrebbe avvenire, se la salvezza fosse sotto mano e potesse essere ottenuta senza molta fatica, che fosse negletta quasi da tutti? Ma tutte le cose eccellenti sono tanto difficili quanto rare» (Etica, V, proposizione 42, scolio).
Quanto al primo genere di salvezza, Spinoza nega che le narrazioni bibliche siano rivelazione divina, ma riconosce la saggezza incarnata dalle figure storiche di Mosè e di Cristo, e considera la Bibbia una miniera di conoscenze preziose sulla condotta umana e l’organizzazione civile.4
La seconda via per la salvezza presuppone che i requisiti della prima - una vita virtuosa assistita da un sistema sociopolitico le cui leggi aiutino l’individuo a essere giusto e caritatevole verso gli altri - siano soddisfatti, ma poi si spinge oltre. Spinoza richiede un’accettazione degli eventi naturali in quanto necessari, in armonia con le conoscenze scientifiche. La morte e il senso di perdita che ne deriva, per esempio, non possono essere evitati; dovremmo dunque accettarli. La soluzione di Spinoza richiede anche che l’individuo tenti di interrompere il processo che porta dagli stimoli emozionalmente adeguati potenziali induttori di emozioni negative - passioni come la paura, la rabbia, la gelosia, la tristezza - ai meccanismi che le eseguono. L’individuo dovrebbe invece sostituirli con altri stimoli, in grado di indurre emozioni positive, dalle quali trarre forza e nutrimento. Per facilitare questo obiettivo Spinoza raccomanda di tornare più volte a contemplare mentalmente gli stimoli negativi così da sviluppare una qualche tolleranza nei confronti delle emozioni negative e da acquisire gradualmente una certa dimestichezza nel generare quelle positive. Questo Spinoza è, a tutti gli effetti, un immunologo della mente che sta sviluppando un vaccino per creare anticorpi contro le passioni. In tutto quest’esercizio c’è una coloritura stoica; si deve tuttavia tener presente che Spinoza era critico nei confronti degli stoici, quando ipotizzavano che il controllo delle emozioni potesse essere completo. (E criticava anche Cartesio, per lo stesso motivo). Per quanto mi riguarda, Spinoza era abbastanza duro; ma, a quanto pare, non era abbastanza stoico.
La soluzione di Spinoza dipende dal potere della mente sui processi emozionali, potere che a sua volta dipende dalla scoperta delle cause delle emozioni negative e della conoscenza dei meccanismi dell’emozione. L’individuo deve essere consapevole della fondamentale separazione fra gli stimoli emozionalmente adeguati e il meccanismo di scatenamento dell’emozione, così da poter sostituire agli stimoli spontanei stimoli ragionati, in grado di generare stati di sentimento più positivi. (In una certa misura, il progetto psicoanalitico di Freud condivideva questi obiettivi). Oggi, la nuova comprensione dei meccanismi dell’emozione e del sentimento rende l’obiettivo di Spinoza ancor più raggiungibile. Infine, la soluzione di Spinoza chiede all’individuo di riflettere sulla vita, guidato dalla conoscenza e dalla ragione, nella prospettiva dell’eternità - di Dio o della Natura - piuttosto che in quella della propria immortalità.
I risultati di questo sforzo sono complicati e difficili da isolare. Uno di essi è la libertà: non del tipo solitamente contemplato nelle discussioni sul libero arbitrio, ma qualcosa di gran lunga più radicale; si tratta, qui, di una riduzione della dipendenza dall’oggetto - in questo caso dai bisogni emotivi - che ci rende altrimenti schiavi. Un altro risultato è che intuiamo gli aspetti essenziali della condizione umana. Tale intuizione è mescolata a un sentimento sereno, i cui ingredienti comprendono piacere, gioia, contentezza, ma per il quale i termini «benedizione» e «beatitudine» sembrano i più appropriati visto il suo carattere limpidissimo (Etica, V, proposizioni 32 e 36, e rispettive note). Questo sentimento «intellettuale» è sinonimo di una forma di amore intellettuale per Dio - amor intellectualis Dei .5
Goethe aveva notato che questo processo offre amore senza pretendere amore in cambio, e si chiedeva che cosa mai potesse essere più generoso e disinteressato di questo atteggiamento. Ma Goethe non fu abbastanza preciso: in realtà, l’individuo ottiene qualcosa in cambio, e lo ottiene nella forma della libertà umana più desiderabile. Per Spinoza un’entità è libera solo quando esiste esclusivamente secondo i princìpi della propria natura, e quando agisce esclusivamente per propria determinazione. Così facendo, l’individuo si procura inoltre la gioia più desiderabile nel canone spinoziano, una gioia forse meglio concepita come sentimento puro, per una volta quasi affrancato dal corpo, suo necessario gemello.
Non tutti hanno usato la stessa benevolenza di Goethe nel valutare la soluzione spinoziana, e c’è chi la considera un pasticcio senza speranza.6 D’altra parte, non sono in dubbio né la sincerità dello sforzo, né le sofferenze e le lotte che ne rappresentarono gli incentivi. Il personaggio di Malamud citato nel primo capitolo aveva colto il minimo che si possa dire su questi passaggi dell’Etica: «... voleva fare di se stesso un uomo libero». Né è in dubbio che
Spinoza fosse riuscito a coniugare ragione e affetto in chiave moderna. La strategia di Spinoza per arrivare alla libertà e alla beatitudine intraviste con l’intuizione richiede la conoscenza fattuale e la ragione. E affascinante che un uomo convinto che le dimostrazioni fossero l’occhio della mente passasse buona parte della propria vita a tornire le migliori lenti possibili, strumenti che aiutavano la mente a scorgere moltissime cose nuove. Spinoza considerava la scoperta della natura e la conoscenza come parte del nutrimento di un essere umano pensante. E bello pensare che le lenti tanto abilmente molate da Spinoza, e i microscopi nei quali esse venivano poi montate, fossero mezzi per scrutare più chiaramente la realtà e pertanto, in un certo senso, strumenti di salvezza. E tutto questo calzava a pennello con i tempi: quella di Spinoza fu l’epoca in cui vennero sviluppati numerosi dispositivi ottici e meccanici per consentire la scoperta scientifica, e al tempo stesso per fare del processo di scoperta una fonte di piacere.7
EFFICACIA DI UNA SOLUZIONE
Ma quella di Spinoza è una vera soluzione? E quanto è efficace? Il giudizio, oggi come allora, sembra oggetto di conflitto.
Per alcuni la soluzione di Spinoza è un sistema superiore per arricchire la vita di significato e rendere tollerabile la società umana. Il suo scopo è di riportare gli esseri umani alla relativa indipendenza che essi persero nel momento in cui acquisirono la coscienza estesa e la memoria autobiografica. La via di Spinoza passa attraverso l’uso della ragione e del sentimento. La ragione ci lascia intravedere la strada, mentre il sentimento rafforza la nostra volontà di vedere. Quel che più mi attira, nella soluzione di Spinoza, è il riconoscimento dei vantaggi della gioia unito al rifiuto del dolore e della paura, nonché la determinazione a cercare la prima e a cancellare i secondi. Spinoza afferma l’importanza della vita e trasforma emozioni e sentimenti in strumenti per alimentarla, in una bella combinazione di saggezza e preveggenza scientifica. Sulla via che porta all’orizzonte della vita, sta all’individuo vivere in modo da poter raggiungere spesso la perfezione della gioia, rendendo quindi la propria esistenza degna di essere vissuta. E poiché il processo ha fondamento nella natura, la soluzione di Spinoza è immediatamente compatibile con la concezione dell’universo edificata dalla scienza negli ultimi quattro secoli.
Sotto altri aspetti, tuttavia, la soluzione di Spinoza è problematica. L’implicazione che essa funzioni meglio al riparo dai contatti umani, in un isolato egocentrismo, mi disturba. Trovo che oggi l’ascetismo di Spinoza sia poco praticabile. Nel suo rifiuto delle futilità della vita, Spinoza non si spinge lontano come gli stoici greci e romani, ma ci si avvicina moltissimo. Quanto a noi, siamo troppo corrotti: non solo abbiamo assaggiato la mela della conoscenza, ma l’abbiamo ingoiata per intero - e sembra poco realistico spogliarci del bagaglio di cose, fatti, e abitudini di cui la nostra vita occidentale ad alta tecnologia è interamente pervasa. E poi, perché dovremmo? Perché mai qui non dovrebbe prevalere la saggezza di Aristotele? Aristotele diceva che la vita appagata è una vita virtuosa e felice, ma insisteva nel considerare la salute, la ricchezza, l’amore e l’amicizia come parte di quell’appagamento. Neppure io sono molto entusiasta della passività della soluzione di Spinoza verso il mondo esterno - e non importa poi quanto possa essere interiormente attiva la sua beatitudine. Altri si preoccupano del fatto che la soluzione di Spinoza non offra altro che la morte a chi arriva all’orizzonte della vita. Non c’è alcuna liberazione da tutta la sofferenza e l’ingiustizia che la biologia e la società regolarmente infliggono agli esseri umani, e meno che mai una compensazione per le perdite patite lungo il cammino. Il Dio di Spinoza è un’idea, ben diverso dal corpo e dal sangue creati, per esempio, dalla narrazione cristiana. Può darsi che Spinoza fosse ebbro di Dio, come Novalis disse di lui, ma il suo Dio è comunque piuttosto asciutto.
Nonostante il coraggio, la perseveranza, i sacrifici e la disciplina necessari per raggiungere quella gioia perfetta, tutto quel che si ottiene sono, appunto, momenti di perfezione. Sguardi fugaci su che cosa? Sul divino? Il conforto è breve, e si rimane in attesa del successivo momento di perfezione, del successivo sguardo fugace. A seconda della persona, può essere una cosa grandissima, o non significare nulla. Ma il fatto che tutto questo possa esser considerato inadeguato come fonte di soddisfazione o conforto, per non parlare della convenienza, non lo rende meno realistico.
Se provate a porvi, dalla stessa prospettiva di Spinoza, l’inquietante domanda iniziale di Amleto, «Chi è là?» - intendendo: chi è là fuori che ci induce a persistere come impone il nostro sforzo di autoconservazione? - la risposta è inequivoca: nessuno. La nostra desolata realtà è la solitudine - la solitudine di Cristo sulla croce e di Spinoza sui cuscini sgualciti del suo letto di morte. Eppure Spinoza trova un modo per eludere quella realtà, una nobile illusione per farci andare incontro alla musica e partecipare alla danza.
All’inizio del libro, ho descritto Spinoza come un intelletto geniale e al tempo stesso esasperante. Le ragioni per cui lo considero geniale sono ovvie. Ma uno dei motivi per cui lo trovo esasperante è la tranquilla sicurezza con cui affrontava un conflitto che la maggior parte di noi non ha ancora risolto: il conflitto fra l’idea che la sofferenza e la morte siano fenomeni biologici naturali che dovremmo accettare serenamente (e sono pochi gli esseri umani istruiti che non vedono la saggezza insita nel farlo) e una non meno naturale inclinazione della mente umana a scontrarsi con quella saggezza e a provare un senso di insoddisfazione nei suoi confronti. Rimane una lacerazione, e vorrei tanto che non fosse così. È che preferisco le storie a lieto fine.
SPINOZISMO
Intollerabile ai suoi tempi, una religiosità laica simile a quella di Spinoza è stata riscoperta, o reinventata, nel ventesimo secolo. Einstein, ad esempio, concepiva Dio e la religione in modo analogo. Descrisse il Dio dell’«uomo semplice» come «un essere da cui spera protezione e di cui teme il castigo, un essere col quale corrono, in una certa misura, relazioni personali per quanto rispettose esse siano: è un sentimento elevato della stessa natura dei rapporti tra figlio e padre».8
Nel descrivere il proprio sentimento religioso - il sentimento religioso degli «spiriti profondi nell’indagine scientifica» - Einstein scrisse che esso «consiste nell’ammirazione estatica delle leggi della natura; gli si rivela una mente così superiore che tutta l’intelligenza messa dagli uomini nei loro pensieri non è al cospetto di essa che un riflesso assolutamente nullo».9 Con parole di grande bellezza Einstein descrisse questo sentimento come «una sorta di ebbrezza gioiosa e di meraviglia al cospetto della bellezza e della grandiosità di questo mondo, di cui l’uomo può costruirsi solo una vaga idea. Questa gioia è il sentimento dal quale l’autentica ricerca scientifica trae il proprio nutrimento spirituale, ma che sembra anche trovare espressione nel canto degli uccelli». Io credo che questo sentimento, che Einstein definiva cosmico, sia affine all’amor intellectualis Dei di Spinoza, sebbene i due concetti non siano identici. Il sentimento cosmico di Einstein è esuberante, un misto di reverenza mozzafiato e di palpitante anticipazione di una comunione fisica con il mondo. L' amor di Spinoza è più contenuto: la sua comunione è interiore. Einstein sembrava fondere le due cose. Egli credeva che il sentimento cosmico fosse caratteristico dei geni religiosi di tutte le epoche, pur non avendo mai costituito la base di una Chiesa. «Accade di conseguenza che è precisamente fra gli eretici di tutti i tempi che troviamo uomini penetrati di questa religiosità superiore e che furono considerati dai loro contemporanei più spesso come atei, ma sovente anche come santi. Sotto questo aspetto, uomini come Democrito, Francesco d’Assisi e Spinoza possono stare l’uno vicino all’altro».10
Anche il pensiero di William James su questi temi rivela un’affinità con quello di Spinoza, il che può sembrare sorprendente se si considera che a separare i due uomini c’è quasi un abisso - in termini di tempo, luogo e contesto storico. Com’era prevedibile, il rapporto di James con Spinoza non fu di completa accettazione. Dalla biografia di R.W.B. Lewis apprendiamo che James lesse per la prima volta Spinoza nel 1888, mentre si accingeva a preparare un corso di filosofia della religione per l’Università di Harvard. Quel corso finì per costituire la base della sua opera Le varie forme della coscienza religiosa.11 James si oppose a Spinoza su diversi temi. Non approvava, per esempio, quella sua asserzione provocatoria: «... considererò le azioni umane e gli appetiti, come se fosse questione di linee, superfici o corpi» (Etica, III, Prefazione). Questi «freddi confronti» non erano congeniali al venerabile genio di Cambridge.12 James si oppose pure a quello che definì il solare entusiasmo di Spinoza per la vita, la sua «disposizione mentale equilibrata».13 Il motivo della sua posizione è affascinante. James suddivide gli esseri umani in due tipi: quelli con l’anima felice e quelli con l’anima malata. I primi hanno un loro modo naturale per non vedere la tragedia della morte, l’orrore della natura nella sua espressione più violenta, o il lato oscuro nei recessi dell’anima umana. James trovava irritante constatare che Spinoza sembrava essere uno spirito felice, uno di quegli uomini nati con «una costituzionale incapacità a soffrire per lungo tempo» e con «la tendenza a considerare le cose in modo ottimistico». Per gli Spinoza di questo mondo, diceva James, «il male è una malattia; e lamentarsi di una malattia è a sua volta una forma addizionale di malattia, che non fa che aumentare il danno originario».14 L’ottimismo di costoro è naturale.
James, d’altro canto, era un’«anima malata». Le persone come lui non riescono a contemplare la natura e a godersi lo spettacolo - quanto meno, non riescono a farlo sempre -, giacché quello spettacolo è spesso decisamente orribile e ingiusto. Non c’è bisogno di essere depressi per guardare al mondo come un’anima malata, per quanto James soffrisse davvero di un disturbo dell’umore: il magnifico sviluppo dell’opera Le varie forme della coscienza religiosa ebbe luogo mentre egli si stava riprendendo da un grave episodio di depressione. Eppure, stranamente, James considera positiva questa diversa prospettiva. Sebbene nella sua forma più grave, patologica, essa vada evitata, in una certa misura dovrebbe comunque essere presente per costringere gli esseri umani a confrontarsi con la realtà, senza lo schermo fuorviante sistematicamente interposto dalle anime solari. Una certa dose di pessimismo è positiva.
La formulazione del problema della salvezza umana in termini cognitivi e affettivi mostrò James all’apice della sua capacità di penetrazione intellettuale; d’altra parte, va detto che egli ingigantì l’effervescenza di Spinoza. Personalmente, non credo che questi avesse difficoltà a riconoscere il lato oscuro della natura, giacché ne aveva sperimentato gli effetti in prima persona. Anzi, è vero il contrario. Tuttavia, Spinoza rifiutava di accettare quel lato oscuro e di lasciare che dominasse l’individuo sotto forma di una passione negativa. Egli considerava il lato oscuro come una parte dell’esistenza e indicava come minimizzarlo. Più che uno spirito positivo di natura, Spinoza fu un uomo elastico e coraggioso. Lottava per essere felice. Si impegnava a fondo per cancellare i sentimenti di paura e dolore cha la natura ispira, e per sostituirli con quelli di gioia basati sulla scoperta della natura. Quella scoperta, però, quasi perversamente, comprendeva anche la crudeltà e l’indifferenza della natura.
Nonostante le obiezioni di James, la via verso la salvezza da lui proposta ha molti punti in comune con quella di Spinoza. In entrambi i casi, l’esperienza di Dio è un fatto privato. Entrambi negano che per avere l’esperienza del divino occorrano rituali e assemblee pubbliche. In effetti, le argomentazioni impiegate da James nel ripudiare la religione organizzata sono molto spinoziane. Entrambi descrivono l’esperienza del divino come puro sentimento: un sentimento piacevole, fonte di appagamento, di significato e di entusiasmo per la vita. In ultima analisi, la differenza importante sta nel punto in cui hanno origine e da cui possono essere ispirati i sentimenti sani e salvifici. Per Spinoza, il sentimento del divino posa sulla cima di una ragionata serenità nei confronti del mondo; in James, origina invece da una depressione e spesso offre conforto alla malinconia generata dalla sua percezione negativa della natura. A parte ciò, sia James sia Spinoza trovano Dio dentro - e James, servendosi delle conoscenze ancora in boccio della psicologia di fine secolo, disciplina che lui stesso ha contribuito a fondare, localizza la fonte del divino non semplicemente dentro di noi, ma nell’inconscio. James parla dell’esperienza religiosa come di qualcosa di «più», ma ci insegna che quel «più» con il quale possiamo proiettarci «più lontano» è, in effetti, «più vicino».
Spinoza e James ci orientano verso un proficuo adattamento sotto forma di una vita naturale dello spirito. Il loro Dio è terapeutico, nel senso che ripristina l’equilibrio omeodinamico perso a causa dell’angoscia. D’altra parte, nessuno dei due si aspetta che Dio ascolti. Entrambi credono che il ripristino dell’equilibrio sia un compito interiore spettante all’individuo, qualcosa da raggiungere nel momento in cui un modo raffinato di pensare induce emozioni e sentimenti appropriati. Entrambi razionalizzano il processo, riconoscendo che gli esseri umani sono mere occasioni di individualità soggettiva in un universo che in larga misura rimane misterioso. Nessuno dei due riesce a venire a capo del significato profondo di quell’universo.
STORIE A LIETO FINE?
Come possiamo farci strada verso un lieto fine in un universo dove perfino gli spiriti ottimisti e solari possono scorgere la sofferenza umana tanto facilmente e in tutte le sue forme - da quelle inevitabili a quelle evitabili? Molti hanno già la risposta, nella forma di una fede religiosa profondamente sentita o di un isolamento protettivo che risparmi loro ogni tipo di dolore. Ma che dire di tutti gli altri, quelli cioè che non hanno né l’una né l’altra risorsa? Naturalmente, la risposta onesta è che non lo so, e comunque sarebbe presuntuoso offrire ricette per coronare con un lieto fine la vita altrui. Tuttavia, posso dire qualcosa su come la vedo io.
Una via verso il lieto fine che mi sembra auspicabile potrebbe derivare dalla combinazione di alcuni aspetti della contemplazione spinoziana con un atteggiamento più attivo nei confronti del mondo intorno a noi. Questa via comprende una vita dello spirito che cerchi, con entusiasmo e una sorta di disciplina, la comprensione quale fonte di gioia - là dove la comprensione deriva dalla conoscenza scientifica, dall’esperienza estetica o da entrambe le cose. In pratica questa vita presuppone anche un atteggiamento combattivo, basato sulla convinzione che la condizione tragica dell’umanità possa essere almeno in parte alleviata, e che stia a noi fare qualcosa per migliorarla. Uno dei benefici arrecati dal progresso scientifico è costituito proprio dalla disponibilità di mezzi per pianificare comportamenti intelligenti che possano attenuare la sofferenza. La scienza e la parte migliore della tradizione umanista possono combinarsi per permettere di affrontare le questioni riguardanti l’umanità con un approccio nuovo - un approccio che consenta all’umanità stessa di sbocciare e fiorire.
Per chiarire questa mia idea comincerò spiegando che cosa intendo per vita dello spirito. Un mio amico, che segue con grande interesse gli sviluppi della biologia, e al tempo stesso ricerca la dimensione spirituale della vita, mi chiede spesso se sia possibile definire e localizzare lo spirito in termini neurobiologici. «Che cosa è lo spirito?», «Dove si trova?». E io come faccio a rispondere? Confesso di non avere simpatia per i tentativi di neurologizzare le esperienze religiose, soprattutto quando finiscono per identificare un centro cerebrale per Dio, o a legittimare Dio e la religione scoprendone i correlati neurali nelle scansioni cerebrali.15 E tuttavia, le esperienze spirituali, religiose o di altra natura, sono processi mentali: processi biologici del massimo livello di complessità. Hanno luogo nel cervello di un particolare organismo in particolari circostanze, e non c’è motivo per non descriverle in termini neurobiologici, purché siamo consapevoli delle limitazioni di un tale esercizio. Pertanto, ecco le risposte alle domande del mio amico.
In primo luogo, io assimilo il concetto di spiritualità a un’intensa esperienza di armonia: alla sensazione che l’organismo stia funzionando al livello di massima perfezione possibile. L’esperienza si sviluppa insieme al desiderio di agire con gentilezza e generosità verso gli altri. Pertanto, avere un’esperienza spirituale significa avere un certo tipo di sentimenti, che permangono nel tempo, dominati da una variante della gioia e comunque sereni. Il baricentro dei sentimenti che io definisco spirituali si trova all’intersezione di molteplici esperienze, e una è la pura e semplice bellezza. Un’altra è l’anticipazione di azioni condotte con una «disposizione d’animo pacifica» e con «una preponderanza di affetti amorevoli» (sebbene le parole siano di James, i concetti sono spinoziani). Queste esperienze possono riverberarsi e autoalimentarsi per brevi periodi di tempo. Così concepita, la spiritualità è un indice del piano organizzatore di una vita ben equilibrata, ben disposta e bene intenzionata. Forse si potrebbe azzardare che la spiritualità è una parziale rivelazione dell’impulso che è in atto in una vita in uno stato di perfezione. Se i sentimenti, come ho suggerito in precedenza, testimoniano lo stato del processo vitale, i sentimenti spirituali scavano sotto quella testimonianza, addentrandosi più in profondità nella sostanza del vivere. Essi costituiscono la base di un’intuizione del processo vitale.16
In secondo luogo, le esperienze spirituali arricchiscono dal punto di vista umano. Io credo che Spinoza avesse colpito nel segno pensando che la gioia e le sue varianti portassero a una maggiore perfezione funzionale. Le nostre attuali conoscenze scientifiche sulla gioia confermano che essa dovrebbe essere attivamente ricercata giacché contribuisce davvero alla piena espressione dell’individuo; allo stesso modo, esse confermano anche che il dolore e gli affetti a esso affini dovrebbero essere evitati perché malsani. Ciò implica l'osservanza di una certa gamma di norme sociali: recenti osservazioni (presentate nel cap. 4) confermerebbero che il comportamento umano cooperativo impegna sistemi cerebrali legati ai meccanismi del piacere e della ricompensa. La violazione delle norme sociali genera viceversa senso di colpa, vergogna e sofferenza: tutte varianti del dolore malsano.
In terzo luogo, noi abbiamo la capacità di evocare esperienze spirituali. La preghiera e i rituali, nel contesto di una narrazione religiosa, sono intesi proprio a produrre esperienze spirituali; esistono tuttavia anche altre fonti. Spesso si dice che il laicismo e la grossolana mercificazione tipici della nostra epoca abbiano reso ancor più difficile il raggiungimento della dimensione spirituale - quasi che i mezzi per indurla mancassero o si stessero facendo scarsi. Io credo che questo non sia del tutto vero. Noi viviamo circondati da stimoli in grado di evocare la spiritualità, sebbene la loro importanza e la loro efficacia siano ridotte dal rumore di fondo del nostro ambiente e dalla mancanza di una inquadratura sistematica all’interno della quale la loro azione può rivelarsi efficace. La contemplazione della natura, la riflessione sulla scoperta scientifica e l’esperienza della grande arte possono essere, in un contesto appropriato, stimoli emozionalmente adeguati ed efficaci per il dispiegarsi della spiritualità. Si pensi alla facilità con cui la musica di Bach, Mozart,
Schubert o Mahler può portarci in una tale dimensione. Proprio come raccomandava Spinoza, la loro arte è un’opportunità per generare emozioni positive là dove altrimenti insorgerebbero quelle negative. E chiaro, tuttavia, che il tipo di esperienza spirituale a cui sto alludendo non è equivalente a una religione. Qui manca la cornice, e di conseguenza anche la portata e la grandiosità che attirano tanti esseri umani verso la religione organizzata. I rituali e la condivisione con la comunità creano effettivamente una gamma di esperienze spirituali diverse da quelle di tipo privato.
Passiamo ora alla delicata questione della «localizzazione» della dimensione spirituale nell’ organismo umano. Io non credo che esista un centro cerebrale per la spiritualità secondo i dettami della buona, vecchia, tradizione frenologica. Possiamo tuttavia descrivere come possa aver luogo, dal punto di vista neurobiologico, il processo di realizzazione di uno stato spirituale. Poiché si tratta di un particolare stato di sentimento, io lo considero dipendente - in termini neurali - dalle strutture e dalle operazioni delineate nel capitolo 3, e soprattutto dalla rete costituita dalle regioni somatosensitive del cervello. La spiritualità è uno stato particolare dell’organismo, una delicata combinazione di determinate configurazioni corporee e mentali. Il mantenimento di tali stati dipende da un’abbondanza di pensieri riguardanti la condizione del proprio sé e di quello altrui; il passato e il futuro; e idee concrete e astratte sulla nostra natura.
Collegando le esperienze spirituali alla neurobiologia dei sentimenti, non intendo ridurre il sublime al meccanico e, così facendo, sminuirne la dignità. Il mio scopo è invece quello di suggerire che la natura sublime della spiritualità sia inclusa in quella, pure sublime, della biologia, e che sia possibile cominciare a comprendere il processo in termini biologici. Per quanto riguarda i risultati del processo, non c’è alcun bisogno di spiegarli, né la spiegazione avrebbe valore alcuno: l'esperienza spirituale è più che sufficiente.
Spiegare il processo fisiologico alla base della spiritualità non serve a chiarire il mistero del processo vitale a cui quel particolare sentimento è connesso. Esso svela il rapporto con il mistero: non il mistero. Spinoza - e i pensatori che accolgono nelle proprie idee elementi spinoziani - riportano i sentimenti al punto di partenza: dalla vita in atto, che è la loro origine, alle fonti della vita, verso cui essi puntano.
Prima ho detto che la vita spirituale deve esser completata da un atteggiamento combattivo. Che cosa significa? Se la consideriamo in termini oggettivi, la natura non è né crudele né benevola; tuttavia, la nostra prospettiva pratica può essere giustificatamente soggettiva e personale. La biologia moderna sta oggi rivelando che la natura è ancor più crudele e indifferente di quanto pensassimo in precedenza. Sebbene gli esseri umani abbiano uguale probabilità di cadere vittima della malvagità non premeditata, casuale, della natura, non sono tuttavia obbligati ad accettare la situazione senza reagire. Possiamo cercare di trovare il modo di contrastare quella che apparentemente è crudeltà e indifferenza. La natura non ha un piano per promuovere la piena espressione degli esseri umani: questi ultimi, d’altra parte, possono mettere a punto quel piano. Un atteggiamento combattivo, forse ancor più della nobile illusione della beatitudine nutrita da Spinoza, sembra prometterci che non ci sentiremo mai soli finché il nostro interesse sarà concentrato sul benessere altrui.
E a questo punto sono in grado di rispondere alla domanda posta all’inizio del capitolo: conoscere le emozioni, i sentimenti e i loro meccanismi è effettivamente importante ai fini del nostro modo di vivere. A livello personale, questo è certo. Entro i prossimi vent’anni, e forse anche prima, la neurobiologia delle emozioni e dei sentimenti consentirà alle scienze biomediche di sviluppare trattamenti efficaci per il dolore e la depressione fondati su una comprensione radicale sia del modo in cui i geni vengono espressi in particolari regioni cerebrali, sia del modo in cui tali regioni cooperano per scatenare le emozioni e farcele esperire. Più che limitarsi ad aggredire genericamente i sintomi, le nuove cure saranno mirate a correggere specifiche compromissioni di un normale processo. Combinate a interventi psicologici, esse rivoluzioneranno la cura della malattia mentale. A quel punto, i trattamenti oggi disponibili ci sembreranno grossolani e primitivi proprio come oggi ci appare la chirurgia senza anestetici.
La nuova conoscenza è ugualmente rilevante a livello sociale. In questo caso, dovrebbe essere utile la relazione, discussa in precedenza, fra omeostasi e regolazione della vita sociale e personale. Alcuni dispositivi regolatori oggi a disposizione degli esseri umani - per esempio gli appetiti e le emozioni - sono stati perfezionati nel corso di milioni di anni di evoluzione biologica. Altri - come i sistemi giuridici codificati e l’organizzazione sociopolitica - esistono solo da qualche migliaio di anni. I primi hanno raggiunto una notevole perfezione: scolpiti nel genoma, certamente non immutabili, ma solidi come sa esserlo la biologia. Gli altri appartengono ancora alla categoria dei lavori in corso: un calderone di procedure provvisorie volte al miglioramento delle relazioni umane, ma assolutamente lontane dalla stabilità necessaria per un armonioso equilibrio di vita. Proprio qui sta la nostra opportunità di intervenire e migliorare la sorte dell’uomo.
Non sto suggerendo di cercare di gestire gli affari sociali con la stessa efficienza con cui il nostro cervello mantiene in funzione i processi vitali elementari: questo, probabilmente, sarebbe impossibile. I nostri obiettivi dovrebbero essere più realistici. Senza contare che i ripetuti fallimenti di tali tentativi, nel passato come nel presente, ci rendono giustamente inclini al cinismo. In effetti, la tentazione di rifuggire da qualsiasi sforzo concertato di gestire i problemi umani - la tentazione di annunciare la morte del futuro - è un atteggiamento comprensibile. E d’altra parte, nulla può garantire la sconfitta con maggior certezza del ritrarsi in un isolamento autoconservativo. Per quanto possa sembrare ingenuo e utopistico, soprattutto dopo aver letto i quotidiani o aver guardato il telegiornale, proprio non c’è alternativa al credere che il nostro intervento possa fare la differenza. Tale convinzione ha le sue brave fondamenta. Il controllo di problemi specifici come la dipendenza dagli stupefacenti e la violenza, per esempio, avrà una maggiore probabilità di successo se si ispirerà alle nostre nuove conoscenze scientifiche sulla mente umana, comprese quelle sulla regolazione dei processi vitali emergenti dalla scienza dell’emozione e dal sentimento. Lo stesso si applica probabilmente a un’ampia gamma di politiche sociali. Senza dubbio il fallimento dei passati esperimenti di ingegneria sociale è dovuto, in una certa misura, all’ assurdità di quei piani o a difetti della loro realizzazione, ma può anche essere stato causato da una visione errata della mente umana cui si ispiravano quei tentativi. Fra le altre conseguenze negative, quelle errate concezioni hanno dato luogo a un tributo di sacrifici umani che la maggior parte di noi trova difficile o impossibile da accettare; a un disinteresse, dettato dall’ignoranza, nei confronti di quegli aspetti della regolazione biologica che stanno oggi diventando scientificamente trasparenti e che Spinoza aveva intuito nel suo conatus; e, infine, a una cecità nei confronti del lato oscuro delle emozioni sociali che trova espressione nel tribalismo, nel razzismo, nella tirannia e nel fanatismo religioso. Ma tutto ciò appartiene al passato: ora siamo avvisati e abbiamo diritto a un nuovo inizio.
Io credo che le nuove conoscenze possano cambiare lo scenario in cui l’umanità sta giocando la sua partita. Ed è proprio per questo, tutto considerato, che in mezzo a molto dolore e a un poco di gioia possiamo comunque conservare la speranza: un affetto per il quale Spinoza, nella sua audacia, non aveva la considerazione che noi comuni mortali dovremmo avere. Egli la definiva così: «La speranza è letizia incostante, sorta dall’idea di una cosa, futura o passata, del cui evento in una certa misura dubitiamo».17