1. ENTRANO IN SCENA I SENTIMENTI

 

 

 

 

 

ENTRANO IN SCENA I SENTIMENTI

I sentimenti - di dolore, di piacere o di qualità intermedia fra questi estremi - sono il fondamento della nostra mente. Spesso non ci rendiamo conto di questa semplice realtà perché le immagini mentali degli oggetti e degli eventi intorno a noi, insieme a quelle delle parole e delle proposizioni che li descrivono, assorbono gran parte della nostra attenzione già sovraccarica. Ciò nondimeno, eccoli lì, i sentimenti di miriadi di emozioni e stati affini, incessante accompagnamento musicale della nostra mente, inarrestabile mormorio della più universale delle melodie: una melodia che si spegne solo nel sonno, un mormorio che si trasforma in un coro di trionfo quando siamo pervasi dalla gioia, o in un requiem malinconico quando a prendere il sopravvento è il dolore.1

Data l’ubiquità dei sentimenti, si sarebbe indotti a pensare che tutti i loro aspetti scientifici - natura, funzionamento, significato - siano stati necessariamente chiariti molto tempo fa; la realtà, però, è ben diversa. Di tutti i fenomeni mentali passibili di una descrizione, i sentimenti e i loro ingredienti essenziali - il dolore e il piacere - sono i meno compresi in termini biologici e, più specificamente, neurobiologici. Tutto questo è ancor più sconcertante se si considera che le società avanzate coltivano i sentimenti in modo spudorato e dedicano ampie risorse alla loro manipolazione mediante alcol, droghe, farmaci, cibo, sesso - reale o virtuale che sia - e ogni sorta di consumo e di pratiche sociali e religiose in grado di generare sensazioni positive di benessere e ottimismo. Noi adulteriamo i nostri sentimenti con pillole, alcolici, appositi soggiorni in centri del benessere, allenamenti ed esercizi spirituali: nonostante ciò, finora né la gente comune né la scienza hanno cercato seriamente di chiarire quale sia, in senso biologico, la loro autentica natura.

Questo stato di cose in realtà non mi sorprende, se solo mi soffermo a riflettere sulle convinzioni con cui io stesso sono cresciuto in materia di sentimenti. La maggior parte di esse è falsa. Per esempio, io pensavo che - a differenza degli oggetti che possiamo vedere, udire o toccare - i sentimenti fossero impossibili da definire in modo specifico. A differenza di quelle entità concrete, essi erano intangibili. Quando cominciai a riflettere sul modo in cui il cervello crea la mente, accettai l’opinione radicata secondo la quale i sentimenti si troverebbero fuori dal contesto della scienza. Potevo studiare, questo sì, il modo in cui il cervello ci fa muovere. Potevo studiare i processi sensoriali - visivi e di altra natura - e comprendere come vengono assemblati i pensieri. Ancora, potevo studiare le modalità con cui il cervello apprende e memorizza le idee. Potevo addirittura studiare le reazioni emozionali con cui rispondiamo a oggetti ed eventi diversi e mutevoli. Ma i sentimenti - che, come vedremo nel prossimo capitolo, sono distinguibili dalle emozioni - rimanevano elusivi, destinati a restare per sempre avvolti nel mistero. Privati e inaccessibili. Non era possibile spiegarne il come - i meccanismi - né identificarne il dove - la localizzazione. Semplicemente, non era possibile arrivare a scrutare «dietro» ai sentimenti.

Come la coscienza, i sentimenti si trovavano oltre i confini della scienza, messi fuori della porta non solo da quanti temevano che la neurobiologia riuscisse davvero a spiegare un qualsiasi fenomeno mentale, ma anche da neuroscienziati convinti, i quali sostenevano l’esistenza di limitazioni a parer loro insormontabili. La mia stessa disponibilità a prendere per buona questa versione è dimostrata dai molti anni durante i quali ho studiato di tutto tranne che i sentimenti. Mi ci volle del tempo per capire quanto fosse ingiustificata quella proibizione e per rendermi conto che una neurobiologia dei sentimenti non era meno possibile di quella della visione o della memoria. Alla fine però vi arrivai - principalmente, a conti fatti, perché dovetti confrontarmi con la realtà di pazienti neurologici i cui sintomi, letteralmente, mi costrinsero a indagare le loro condizioni.

Immaginate, per esempio, di incontrare qualcuno che, in seguito a una lesione subita in una particolare regione del cervello, sia diventato incapace di provare compassione o imbarazzo - là dove compassione e imbarazzo siano reazioni appropriate -, ma che possa provare felicità, tristezza o paura esattamente come prima dell’incidente. Una cosa del genere non vi farebbe riflettere? Oppure, immaginate una persona che, in seguito a una lesione cerebrale localizzata altrove, perda la capacità di sperimentare la paura quando essa fosse la reazione appropriata alla situazione, conservando tuttavia quella di provar compassione. La crudeltà della patologia neurologica può essere un abisso senza fondo per le sue vittime - i pazienti e coloro che sono chiamati ad assistere alla devastazione. D’altra parte, il bisturi della malattia è responsabile anche dell’unico aspetto capace di riscattarla: dissezionando e isolando le normali operazioni del cervello umano, e dando spesso prova di una prodigiosa precisione, la patologia neurologica ci offre una via d’accesso unica a quelle vere e proprie roccaforti che sono il cervello e la mente dell’uomo.

La riflessione sulla situazione di questi pazienti, e di altri che versavano in condizioni simili, sollevava ipotesi affascinanti. Tanto per cominciare, lesioni cerebrali localizzate in aree ben definite e circoscritte potevano inibire particolari sentimenti; in altre parole, la perdita di una porzione specifica dei circuiti cerebrali era associata alla scomparsa di un evento mentale altrettanto specifico. In secondo luogo, sembrava chiaro che sentimenti diversi fossero controllati da sistemi cerebrali pure diversi; il danno che colpiva un’area dell’anatomia cerebrale non causava la scomparsa, in un sol colpo, di tutti i tipi di sentimento. In terzo luogo, e questo era più sorprendente, quando i pazienti perdevano la capacità di esprimere una certa emozione, perdevano anche quella di provare il sentimento corrispondente. Non era però vero l’opposto: alcuni pazienti che perdevano la capacità di sperimentare certi sentimenti potevano, ciò nondimeno, esprimere le emozioni corrispondenti. Ma allora, non poteva darsi che - sebbene emozioni e sentimenti fossero gemelli - l’emozione fosse nata per prima, e il sentimento si ritrovasse a seguirla sempre come un’ombra? A dispetto della loro stretta affinità e dell’apparente simultaneità, a ben guardare sembrava che l’emozione precedesse il sentimento. Come vedremo, la comprensione di questa specifica relazione aprì nuove possibilità all’indagine sui sentimenti.

Con l’aiuto delle tecniche di scansione che oggi ci consentono di visualizzare l’anatomia e l’attività del cervello umano fu possibile verificare tutte queste ipotesi. Passo per passo, dapprima in pazienti e poi anche in individui che non presentavano alcuna patologia neurologica, io e i miei colleghi cominciammo a disegnare la mappa della geografia cerebrale dei sentimenti. Nostro scopo era quello di delucidare la rete dei meccanismi che consentono ai nostri pensieri di indurre stati emozionali e generare sentimenti.2

Emozione e sentimento hanno avuto un ruolo importante, ma molto diverso, in due dei miei libri precedenti. Nell’Errore di Cartesio ho affrontato il loro ruolo nell’attività decisionale. In Emozione e coscienza ho descritto quel ruolo nella costruzione del sé. In questo libro, invece, intendo concentrarmi sui sentimenti stessi: su ciò che sono, e su ciò che offrono. Gran parte dei dati che discuterò qui non era disponibile quando scrissi i miei libri precedenti, e oggi la nostra comprensione dei sentimenti può fondarsi su una base più solida. Lo scopo principale di questo libro, allora, è di presentare un rapporto sui progressi compiuti nel comprendere la natura e il significato dei sentimenti e dei fenomeni a essi affini nell’uomo, descrivendoli così come io li vedo adesso, sia nella mia veste di neurologo e neuroscienziato, sia nei panni di un essere umano che li sperimenta abitualmente.

L’essenza della mia attuale concezione è che i sentimenti siano l’espressione del benessere o della sofferenza umani, così come essi hanno luogo nella mente e nel corpo. I sentimenti non sono meri orpelli aggiunti alle emozioni - qualcosa, per intenderci, che si possa prendere o lasciare. Essi possono essere, e spesso sono, rivelazioni dello stato in cui versa la vita all’interno dell’organismo nella sua interezza - un sollevare il velo, nel senso letterale del termine. Giacché la vita è un atto finemente calibrato, in massima parte i sentimenti sono espressione di una lotta per l'equilibrio: idee relative a regolazioni e correzioni sottili in assenza delle quali un solo errore sarebbe di troppo e l’atto intero collasserebbe. Se nell’esistenza dell’uomo c’è qualcosa che può al tempo stesso rivelarne grandezza e meschinità, si tratta proprio dei sentimenti.

Oggi la scienza sta cominciando a chiarire le modalità con cui quella rivelazione si presenta alla mente. Il cervello usa un certo numero di regioni appositamente dedicate che lavorano di concerto per rappresentare, sotto forma di mappe neurali, una miriade di aspetti delle attività dell’organismo. Questa rappresentazione è un quadro composito e in continuo mutamento della vita colta al volo, nel suo svolgimento. I canali chimici e neurali che portano al cervello i segnali con i quali comporre questo ritratto della vita sono esattamente idonei allo scopo, proprio come lo sono i substrati fatti per riceverli: la tela su cui dipingere il quadro. Oggi il mistero di come «sentiamo» è, in effetti, un poco meno misterioso.

È ragionevole chiedersi se il tentativo di comprendere i sentimenti abbia un qualsiasi valore al di là di quello legato alla soddisfazione della curiosità. Per un certo numero di ragioni, io credo che sì, lo possieda. Il chiarimento della neurobiologia dei sentimenti, e delle emozioni che li precedono, giova alle nostre concezioni sul problema mente-corpo: un problema essenziale per comprendere chi siamo. L’emozione e le reazioni affini sono schierate sul versante del corpo, mentre i sentimenti si trovano su quello della mente. Lo studio del modo in cui i pensieri inducono le emozioni - e viceversa le emozioni fisiche diventano quel genere di pensieri che noi chiamiamo sentimenti - ci permette di osservare mente e corpo, manifestazioni evidentemente diversissime di un organismo umano unico e senza soluzioni di continuità, da una prospettiva privilegiata.

Questo sforzo presenta tuttavia anche vantaggi di natura più pratica. Una spiegazione della biologia dei sentimenti e delle emozioni correlate ci aiuterà probabilmente a trovare cure più efficaci per alcune delle principali cause di sofferenza umana: per esempio la depressione, il dolore e le tossicodipendenze. Inoltre, la comprensione della natura, del funzionamento e del significato dei sentimenti è indispensabile per arrivare a disporre, in futuro, di una visione dell’essere umano più accurata di quella attualmente in nostro possesso, che tenga in considerazione i progressi nelle scienze sociali, cognitive e biologiche. Perché mai tutto ciò dovrebbe avere una qualche utilità pratica? Perché il successo o il fallimento dell’umanità dipende in larga misura dal modo in cui la gente e le istituzioni incaricate di governare la vita pubblica includono nei propri princìpi e nelle proprie politiche una visione corretta dell'uomo. La comprensione della neurobiologia dell’emozione e dei sentimenti è una chiave per arrivare a formulare princìpi e politiche in grado di ridurre la sofferenza dell’umanità favorendone nel contempo il rigoglio. In effetti, le nuove conoscenze riguardano anche il modo in cui gli esseri umani affrontano la tensione irrisolta fra interpretazioni sacre e profane della propria esistenza.

Ora che ho delineato il mio scopo principale, è tempo di spiegare perché il titolo di un libro dedicato alle nuove idee sulla natura e il significato dei sentimenti umani debba invocare Spinoza. Poiché non sono un filosofo e questo libro non si occupa della filosofia spinoziana, è ragionevole chiedersi: perché Spinoza? La spiegazione più breve è che il suo pensiero ha una grande rilevanza ai fini di qualsiasi descrizione delle emozioni e dei sentimenti umani. Spinoza considerava pulsioni, motivazioni, emozioni e sentimenti - che denominava, nel loro insieme, affetti - come un aspetto centrale dell’umanità. Gioia e dolore erano due concetti importanti nel suo tentativo di comprendere gli esseri umani e di indicare come la loro vita potrebbe essere vissuta meglio.

Quanto alla spiegazione più lunga, essa è anche più personale.



L’AIA

1° dicembre 1999. Il portiere dell’Hotel des Indes, un tipo molto cordiale, insiste: «Non dovrebbe andare a piedi con questo tempo, signore; lasci che le chiami un taxi. C’è un brutto vento, signore, quasi di uragano. Guardi le bandiere». E vero, le bandiere sventolano e nuvole veloci corrono verso oriente. Sebbene il viale delle Ambasciate sembri sul punto di spiccare il volo, declino l’offerta. Preferisco camminare, gli dico. Andrà benissimo. E poi, ha visto quanto è bello il cielo, là fra le nubi? Il mio portiere non ha idea di dove io stia andando, né io ho intenzione di dirglielo. Che penserebbe?

Ha quasi smesso di piovere, e con un po’ di determinazione è facile vincere il vento. Riesco a camminare speditamente e a seguire la mia mappa mentale del luogo. Alla fine della passeggiata di fronte all’Hotel des Indes, sulla mia destra vedo il Binnenhof, l’antico palazzo di Governo, e il Mauritshuis, impavesato col volto di Rembrandt - nel museo all’interno è esposta una collezione dei suoi autoritratti. Oltrepassata la piazza del museo, le strade sono quasi deserte, sebbene questo sia il centro della città, e oggi sia un normale giorno lavorativo. Devono aver raccomandato alla gente di rimanere in casa. Tanto meglio così. Arrivo allo Spui senza essere costretto a farmi largo tra la calca. Una volta arrivato alla Nieuwe Kerk, la strada non mi è più familiare, ed esito per un secondo; la scelta, tuttavia, è ben presto chiara: svolto a destra in Jacobstraat, poi a sinistra in Wagenstraat, e infine di nuovo a destra in Stille Veerkade. Cinque minuti dopo sono in Paviljoensgracht. Mi fermo davanti al numero 72-74.

La facciata della casa è proprio come me l’ero immaginata, un piccolo edificio a tre piani, largo lo spazio di tre finestre: una versione, più modesta che ricca, della tipica casa di città lungo i canali. E ben tenuta e non molto diversa da come doveva essere nel diciassettesimo secolo. Tutte le finestre sono chiuse, e non c’è segno di attività. La porta è in buone condizioni e ben verniciata; accanto a essa c’è, incorniciato, un campanello di lucido ottone, con la parola spinozahuis incisa sul bordo. Risoluto, ma senza farmi illusioni, premo il pulsante. Dall’interno non proviene alcun suono, né scorgo muoversi le tende. Prima, quando avevo cercato di telefonare, non c’era stata risposta. spinozahuis è chiusa.

casa

Questo è il luogo in cui Spinoza trascorse gli ultimi sette anni della sua non lunga vita, e dove morì nel 1677. Il Trattato teologico-politico che aveva portato con sé al suo arrivo fu pubblicato da qui, in forma anonima. Anche l'Etica fu completata qui e pubblicata dopo la sua morte, in forma quasi altrettanto anonima.

Non ho alcuna speranza di riuscire a vedere la casa oggi, ma non è detto che sia venuto per niente. Nella curatissima aiuola centrale che separa le due corsie della strada, giardino urbano inatteso, scopro lo stesso Spinoza, seminascosto dal fogliame spazzato dal vento, seduto - silenzioso e assorto - in una bronzea, solida, perpetuità. Sembra compiaciuto e assolutamente incurante del tumulto meteorologico - proprio come ci si aspetterebbe, del resto, giacché ai suoi tempi resistette a forze ben più violente.

Negli ultimi anni mi sono messo sulle tracce di Spinoza, a volte inseguendolo nei libri, a volte nei luoghi, ed è per questo che oggi sono qui. Come potete vedere, si tratta di un curioso passatempo, al quale non avrei mai immaginato di dedicarmi. La ragione che mi ci spinse ha molto a che fare con le coincidenze. Mi accostai a Spinoza per la prima volta da adolescente - non c’è età migliore per leggere i suoi scritti sulla religione e la politica -, ma devo dire che, mentre alcune delle sue idee produssero in me un’impressione duratura, la reverenza che sviluppai per lui era alquanto astratta. Da un lato egli esercitava su di me tutto il suo fascino; dall’altro era invece, al tempo stesso, ostico e inaccessibile. In seguito non ritenni il suo pensiero particolarmente rilevante per il mio lavoro, e la mia conoscenza delle sue idee rimase frammentaria. Da tempo, tuttavia, apprezzavo particolarmente una sua frase sulla nozione del sé, tratta dall’Etica; fu quando pensai di citarla e dovetti quindi controllarne accuratezza e contesto, che Spinoza rientrò nella mia vita. Reperii il passo - perfetto! La citazione corrispondeva al contenuto del foglio di carta ingiallito che un tempo avevo appeso a una parete con una puntina da disegno. Poi, però, cominciai a leggere quel che precedeva e quel che seguiva il brano particolare al quale ero approdato e - semplicemente - non potei più fermarmi. Spinoza era sempre lo stesso, ma io no. Gran parte di ciò che un tempo mi era parso impenetrabile adesso mi era familiare - stranamente familiare, in realtà - e appariva molto importante ai fini di diversi aspetti del mio lavoro recente. Certo, non avrei sottoscritto tutto, questo no. Tanto per cominciare, alcuni suoi passaggi erano ancora oscuri, e fra alcuni concetti esistevano conflitti e incoerenze che rimanevano irrisolti anche dopo molte letture. Ero ancora sconcertato, perfino esasperato. Il più delle volte, tuttavia, nel bene o nel male, mi sentivo in una piacevole condizione di risonanza con le sue idee, un po’ come il protagonista dell'Uomo di Kiev di Bernard Malamud, che dopo aver letto alcune pagine di Spinoza aveva continuato, quasi che fosse stato incalzato da qualcuno: «Non l’ho capito parola per parola, ve l’ho detto, ma quando si ha a che fare con pensieri come quelli par di volare a cavallo di una scopa».3 Spinoza trattava gli argomenti che più mi interessavano come scienziato: la natura delle emozioni e dei sentimenti e il rapporto fra mente e corpo - gli stessi che sono stati al centro dell’interesse di molti altri pensatori del passato. Ai miei occhi, però, egli sembrava aver anticipato le soluzioni che i ricercatori stanno proponendo oggi per alcuni di tali problemi. Era sorprendente.

Per esempio, quando Spinoza diceva che «l’amore non è niente altro che la "letizia accompagnata dall’idea di una causa esterna», stava separando in modo chiarissimo il processo del sentimento da quello di avere un’idea su un oggetto che può causare un’emozione.4 La gioia (laetitia) era una cosa; l’oggetto che la causava, un’altra. Naturalmente, la gioia o il dolore finivano per unirsi, nella mente, all’idea degli oggetti induttori, ma all’inizio si trattava di processi distinti nel nostro organismo. Spinoza aveva descritto un dispositivo funzionale che la scienza moderna sta rivelando essere un dato di fatto: gli organismi viventi hanno la capacità di reagire emozionalmente a oggetti ed eventi diversi. La reazione è seguita da una particolare modalità di sentimento; una certa variazione del piacere o del dolore rappresenta una componente necessaria del sentimento.

Secondo Spinoza, inoltre, il potere degli affetti è tale che l’unica speranza di poterne superare uno controproducente - una passione irrazionale - sta nel sopraffarlo con un affetto positivo più forte, indotto dalla ragione. «Un affetto non può essere impedito né tolto se non mediante un affetto contrario e più forte dell’affetto da impedire».5 In altre parole, Spinoza raccomandava di combattere un’emozione negativa contrapponendogliene un’altra, ancor più forte, ma positiva, indotta dal ragionamento e da uno sforzo dell’intelletto. Il punto essenziale nel suo pensiero era l’idea che il dominio delle passioni dovesse essere realizzato non solo dalla ragione pura, ma da un’emozione da essa indotta. Questo non è assolutamente un obiettivo facile; d’altra parte Spinoza non trovava grandi meriti nelle cose semplici.

Di grande importanza, ai fini di ciò che intendo discutere qui, era la sua idea che mente e corpo fossero attributi paralleli (chiamiamoli manifestazioni) della stessa, identica sostanza.6 Come minimo, con il rifiuto di fondare mente e corpo su sostanze diverse, Spinoza stava notificando la propria opposizione alla concezione prevalente ai suoi tempi, elevando una voce di dissenso su un mare di conformismo. Più interessante, tuttavia, era un altro suo concetto, e cioè che «l’oggetto dell’idea costituente la mente umana è il corpo».7 Questa sua idea sollevava una possibilità straordinaria. Può darsi infatti che Spinoza avesse intuito i princìpi alla base dei meccanismi naturali responsabili delle manifestazioni parallele della mente e del corpo. Come discuterò in seguito, io sono convinto che i processi mentali trovino il proprio fondamento nelle mappe del corpo presenti nel cervello - insiemi di configurazioni neurali nei quali sono rappresentate le risposte agli eventi che causano emozioni e sentimenti. Nulla avrebbe potuto essere più confortante, per me, di imbattermi in questa affermazione di Spinoza e interrogarmi sul suo possibile significato.

Tutto questo sarebbe stato più che sufficiente ad alimentare la mia curiosità su di lui; e comunque, a sostenere il mio interesse c’era anche dell’altro. Secondo Spinoza, gli organismi si sforzano naturalmente, per necessità, di persistere nel proprio essere; e la loro reale essenza è costituita proprio da quel necessario sforzo. Gli organismi entrano in essere con la capacità di regolare i processi vitali e quindi di consentire la propria sopravvivenza. In modo ugualmente naturale, essi cercano di raggiungere una «maggior perfezione» funzionale, che Spinoza identifica con la gioia. Tutti questi sforzi e queste tendenze sono intrapresi inconsciamente.

A quanto pare, attraverso le sue proposizioni prive di sentimentalismi e abbellimenti, Spinoza aveva misteriosamente messo insieme i frammenti di un’architettura della regolazione della vita - e l’aveva fatto muovendosi lungo le stesse linee seguite poi, due secoli dopo, da William James, Claude Bernard e Sigmund Freud. Inoltre, rifiutando di riconoscere un disegno intenzionale nella natura, e immaginando corpo e mente costituiti da componenti che potevano essere associate in configurazioni diverse nelle diverse specie, le idee di Spinoza erano compatibili con il pensiero evoluzionista di Charles Darwin.

Forte di questa sua concezione rivisitata della natura umana, Spinoza passò a collegare i concetti di bene e di male, come pure quelli di libertà e salvezza, agli affetti e alla regolazione dei processi vitali. Secondo Spinoza, le norme che governano la nostra condotta personale e sociale dovrebbero esser forgiate su una più profonda conoscenza dell’umanità, una conoscenza che stabilisca un contatto con il Dio e la Natura dentro di noi.

Alcune idee di Spinoza sono parte integrante della nostra cultura, ma per quanto ne so, i moderni sforzi per comprendere la biologia della mente non fanno mai riferimento a lui.8 Questa assenza è di per se stessa interessante. Considerando la sua celebrità, Spinoza non è ben conosciuto. A volte egli sembra emergere dal nulla in un solitario e inspiegato splendore, ma in realtà si tratta di un’impressione falsa, giacché - nonostante la sua originalità intellettuale - fu comunque senz’altro figlio dei suoi tempi. E poi, in modo altrettanto improvviso, sembra che si dissolva senza lasciar eredi - un’altra falsa impressione, se si pensa che l'essenza di alcune delle sue idee proibite è ravvisabile nell’Illuminismo e ben oltre, nel secolo che seguì alla sua morte.9 Una possibile spiegazione dello status di Spinoza come celebrità sconosciuta sta nello scandalo che egli diede ai suoi tempi. Come vedremo (nel capitolo 6), le sue parole furono ritenute eretiche; messe al bando per alcuni decenni, le sue opere, con rare eccezioni, furono citate solo per essere censurate. Tali attacchi paralizzarono moltissimi tentativi, messi in atto dagli ammiratori di Spinoza, di discuterne pubblicamente le idee. Sebbene la naturale continuità che caratterizza il riconoscimento intellettuale dell’opera di un pensatore fosse stata quindi interrotta, alcune idee spinoziane vennero comunque usate senza riconoscerne la paternità. E d’altra parte, questo stato di cose non spiega come mai il pensiero spinoziano sia rimasto sconosciuto perfino dopo che personaggi della statura di Goethe e Wordsworth ebbero cominciato a farsene paladini, e nonostante la fama del filosofo fosse andata costantemente aumentando. Forse una spiegazione migliore c’è, ed è che conoscere Spinoza non è impresa facile.

Le difficoltà cominciano col fatto che occorre fare i conti con diversi Spinoza - almeno quattro, stando alle mie stime. Il primo è lo Spinoza più accessibile, l’erudito su posizioni religiose radicali, in contrasto con le Chiese del suo tempo, che presenta una nuova concezione di Dio e propone una nuova via verso la salvezza umana. Poi c’è lo Spinoza architetto politico, il pensatore che descrive le caratteristiche di uno Stato democratico ideale popolato da cittadini felici e responsabili. Il terzo Spinoza, il meno accessibile del gruppo, è il filosofo che si serve di fatti scientifici, di un metodo di dimostrazione geometrica e dell’intuizione per formulare la propria concezione dell’universo e degli esseri umani.

Già riconoscere questi tre Spinoza e la rete delle loro reciproche dipendenze basta a mostrare quanto egli sappia essere complicato. Ma c’è anche un quarto Spinoza: il protobiologo, il pensatore che riflette sui temi della biologia, nascondendosi dietro infinite proposizioni, assiomi, dimostrazioni, lemmi e corollari. Poiché molti dei progressi compiuti nella scienza che studia emozioni e sentimenti sono in armonia con idee che lo stesso Spinoza cominciò a formulare allora, il mio secondo scopo, qui, è di collegare questo Spinoza meno conosciuto a una parte dell’odierna neurobiologia. Desidero tuttavia sottolineare ancora una volta che questo non è un libro sulla filosofia di Spinoza. Non intendo affrontare il suo pensiero al di fuori degli aspetti che ritengo pertinenti alla biologia. Il mio obiettivo è più modesto. Uno dei meriti della filosofia è che, nel corso della sua storia, ha prefigurato la scienza. E io credo che si renda un buon servizio anche alla scienza riconoscendo quello storico sforzo.



ALLA RICERCA DI SPINOZA

Nonostante le sue riflessioni sulla mente dell’uomo scaturissero da un interesse più ampio per la condizione umana, il pensiero spinoziano è importante per la neurobiologia. Spinoza era soprattutto interessato al rapporto fra esseri umani e natura. Egli cercò di delucidarlo, in modo da poter proporre dei mezzi realistici per la salvezza umana. Alcuni di essi erano di natura personale, sotto l’esclusivo controllo dell’individuo, mentre altri facevano affidamento sull’aiuto che l’individuo stesso riceve da certe forme di organizzazione sociale e politica. Il pensiero spinoziano discende da quello aristotelico; qui però le fondamenta biologiche sono più salde, il che non sorprende. Molto prima di John Stuart Mill, Spinoza sembra aver colto una relazione tra felicità personale e collettiva da un lato, e salvezza umana e struttura dello Stato dall’altro. Almeno limitatamente alle sue conseguenze sociali, il pensiero spinoziano sembra aver avuto un notevole riconoscimento.10

Spinoza prescrisse uno Stato democratico ideale, i cui caratteri distintivi fossero la libertà di parola - «si conceda a ognuno sia di pensare ciò che vuole sia di dire ciò che pensa» -,11 la separazione fra Stato e Chiesa e un generoso contratto sociale che promuovesse il benessere dei cittadini e l’armonia del governo. Spinoza prescriveva tutto questo con più di un secolo di anticipo sulla Dichiarazione di Indipendenza e il Primo Emendamento. Il fatto che, nel contesto dei suoi sforzi rivoluzionari, egli avesse anticipato anche alcuni aspetti della moderna biologia è quanto mai interessante.

Chi era dunque quest’uomo, capace di pensare alla mente e al corpo in un modo che non solo si contrapponeva profondamente al pensiero della maggior parte dei suoi contemporanei, ma che più di trecento anni dopo è ancora straordinariamente attuale? Quali furono le circostanze che produssero uno spirito tanto controcorrente? Per cercare di rispondere a queste domande, dobbiamo considerare ancora un altro Spinoza, l’uomo che si cela dietro ai suoi tre nomi di battesimo - Bento, Baruch, Benedictus -, una persona al tempo stesso coraggiosa e prudente, intransigente e accomodante, arrogante e modesta, distaccata e gentile, ammirevole e irritante, attenta a quanto era osservabile e concreto, e ciò nondimeno animata da un’irriducibile spiritualità. I sentimenti personali di quest’uomo non emergono mai direttamente nei suoi scritti né affiorano dal suo stile, e il suo carattere dev’essere ricostruito da mille indizi indiretti.

Quasi senza accorgermene, cominciai a cercare l’uomo: la persona celata dietro la singolarità della sua opera. Desideravo incontrarlo nella mia immaginazione e chiacchierare un po’ con lui - magari fargli autografare la mia copia dell’Etica. Raccontare la mia ricerca di Spinoza e la storia della sua vita ha così finito per diventare il terzo scopo di questo libro.

Spinoza nacque nella prospera città di Amsterdam nel 1632, al culmine dell’epoca d’oro olandese. Quello stesso anno, a quattro passi dalla casa degli Spinoza, un Rembrandt van Rijn ventitreenne stava dipingendo La lezione di anatomia del dottor Tulp,

statua


il quadro che l’avrebbe reso famoso. Il mecenate di Rembrandt, Constantijn Huygens, statista e poeta, segretario del principe d’Orange e amico di John Donne, era da poco divenuto padre di Christiaan, che sarebbe diventato uno dei più celebri astronomi e fisici di tutti i tempi. Cartesio, il filosofo più importante dell’epoca, aveva trentadue anni e abitava anch’egli ad Amsterdam lungo il Prinsengracht, e in quel periodo si preoccupava dell’accoglienza che le sue nuove idee riguardanti la natura umana avrebbero ricevuto in Olanda e all’estero. Presto avrebbe cominciato a insegnare algebra al giovane Christiaan Huygens. Il luogo che vide la nascita di Spinoza era di una ricchezza intellettuale e materiale persino eccessiva, addirittura tale - per riprendere l’immagine quanto mai appropriata di Simon Schama - da provocare disagio.12

Bento era il nome che Spinoza ricevette dai suoi genitori, Miguel e Hanna Debora, ebrei sefarditi portoghesi emigrati ad Amsterdam. Nella sinagoga e fra gli amici, mentre cresceva nella ricca comunità dei mercanti e degli eruditi ebrei di Amsterdam, era noto invece come Baruch. A ventiquattro anni, dopo essere stato bandito dalla sinagoga, adottò il nome di Benedictus. Spinoza abbandonò le comodità della sua casa natale di Amsterdam e cominciò quel vagabondaggio, sereno e tranquillo, di cui le stanze in Paviljoensgracht avrebbero rappresentato l’ultima tappa. Il nome portoghese Bento, quello ebreo Baruch e quello latino Benedictus, significano tutti la stessa cosa: benedetto. Ma dunque, che cosa racchiude un nome? Moltissimo, direi. In superficie le parole possono anche essere equivalenti, ma il significato profondo di ognuna di esse era drammaticamente diverso.



STA’ ATTENTO!

Devo vedere l’interno della casa, ma per il momento la porta è chiusa. Tutto quel che posso fare è di immaginare qualcuno che emerga da un barcone ormeggiato lì vicino, si accosti e chieda di Spinoza (ai suoi tempi Paviljoensgracht era un ampio canale; in seguito venne riempito e trasformato in un viale, come è del resto accaduto a moltissimi canali, ad Amsterdam e a Venezia). Ecco: l’ottimo Van der Spijk, proprietario della casa e pittore, apre la porta. Poi, con amabile cortesia, fa accomodare il visitatore nel suo studio - il locale con le due finestre che si aprono sulla facciata, accanto alla porta principale -, lo invita ad aspettare e va a riferire a Spinoza, suo pensionante, che è arrivato qualcuno per lui.

Le stanze di Spinoza erano al terzo piano e per arrivare nello studio egli doveva scendere la scala a chiocciola - una di quelle terribili scale strettissime per le quali l’architettura olandese è tristemente famosa. Spinoza era elegantemente vestito nel suo abbigliamento da fidalgo - né nuovo, né troppo usato, tutto in perfetto ordine: un colletto bianco inamidato, calzoni alla cavallerizza neri, un panciotto di pelle nera, una giacca di pelo di cammello nero portata con eleganza sulle spalle, scarpe di pelle nera ben lucidate con grosse fibbie d’argento e un bastone di legno, forse, per aiutarsi sulle scale. Spinoza aveva una segreta passione per le scarpe di pelle nera. Spiccavano, nel suo aspetto, il volto armonioso e ben rasato, e in particolare i grandi occhi scurissimi che brillavano di intelligenza. Neri erano pure i capelli, come le lunghe sopracciglia; la pelle era olivastra; la statura media e la corporatura leggera.

Con un fare educato, perfino affabile, ma al tempo stesso con pratica immediatezza, il visitatore era esortato a venire al punto. Nelle sue ore di lavoro, questo generoso maestro poteva intrattenere i suoi ospiti con discussioni sull’ottica, la politica e la fede religiosa. Veniva servito il tè. Van der Spijk continuava a dipingere, in linea di massima restando silenzioso, ma con un’aria di sana, democratica, dignità. I suoi sette figli, bambini turbolenti, se ne rimanevano alla larga, nel retro della casa. La signora Van der Spijk cuciva. La domestica sfacchinava in cucina. Sembra di vedere la scena.

Spinoza fumava la pipa. L’aroma del tabacco entrava in conflitto con la fragranza della trementina - e intanto, mentre la luce andava scemando a poco a poco, Spinoza soppesava le domande e dava loro una risposta. Riceveva moltissimi visitatori - dai vicini e dai parenti dei Van der Spijk, ai giovani studenti avidi di imparare e alle fanciulle impressionabili; o, ancora, da Gottfried Leibniz e Christiaan Huygens a Heinrich Oldenburg, presidente della neofondata Royal Society. A giudicare dal tono della sua corrispondenza, Spinoza era molto benevolo con la gente semplice, e meno paziente con i suoi pari. Evidentemente, tollerava gli stupidi, purché fossero modesti.

Riesco anche a immaginare - in un’altra giornata grigia, il 25 febbraio del 1677 - un corteo funebre che marcia lentamente verso la Nieuwe Kerk, distante solo qualche minuto dalla casa: è il semplice feretro di Spinoza, seguito dai Van der Spijk e «da molti uomini illustri, sei carri in tutto». Torno sui miei passi, ripercorrendo il probabile cammino del corteo. So che la tomba di Spinoza è nel cimitero annesso alla chiesa, e ora che ho visto la casa del vivo posso benissimo visitare la dimora del morto.

Il camposanto è delimitato da cancelli che però sono tutti spalancati. Non c’è un vero e proprio cimitero, in realtà, ma solo arbusti, erba, muschio e vialetti fangosi fra alberi ad alto fusto. La tomba è proprio dove pensavo che fosse, nella parte posteriore del cimitero, dietro la chiesa, esposta a sud e a est: si


campos

tratta di una pietra piatta a livello del suolo con una lapide verticale, disadorna ed erosa dalle intemperie. Oltre a dirci chi è il proprietario della tomba, l’iscrizione recita: caute!, che in latino significa «Sta’ attento!». E un consiglio un po’ deprimente se si pensa che i resti di Spinoza non sono davvero nella tomba, perché il suo corpo fu trafugato, nessuno sa da chi, qualche tempo dopo la sepoltura, quando le spoglie del filosofo riposavano all’interno della chiesa. Spinoza aveva detto che ogni uomo dovrebbe pensare ciò che vuole e dire ciò che pensa - sì, ma non così precipitosamente, non ancora. Sta’ attento. Bada a quel che dici (e scrivi), altrimenti nemmeno le tue ossa si salveranno...

Nella sua corrispondenza, Spinoza utilizzava il motto Caute! impresso proprio sotto il disegno di una rosa. Ed è innegabile che gli scritti degli ultimi dieci anni della sua vita abbiano un carattere strettamente «confidenziale». Per il suo Tractatus theolologico-politicus, pubblicato ad Amsterdam senza nome nel 1670,13 diede indicazioni false per l’editore e il luogo di edizione («Hamburgi, Apud Henricum Künrath»). Come altre sue opere, il libro era scritto in latino, un modo per selezionare ulteriormente la cerchia dei lettori e non esporsi alle reazioni del «vulgus» - la gente comune, ma anche i fanatici religiosi. Ben presto, tuttavia, Spinoza venne identificato come l’autore e dovette subire i violenti attacchi di calvinisti e cattolici. Com’era prevedibile, il Santo Uffizio vide nell’opera un attacco integrale contro la religione organizzata e il potere politico e incluse l’opera nell’ Indice dei libri pericolosi. Ma le reazioni si spinsero oltre. Nel 1674 le Corti d’Olanda proibivano il Tractatus e con esso il Leviatano di Hobbes e il Philosophia Sacrae Scripturae interpres di Meyer. In seguito Spinoza si astenne del tutto dal pubblicare i propri lavori, e la cosa non sorprende. Il giorno della morte, il 21 febbraio 1677, i suoi scritti erano ancora nel cassetto dello scrittoio; Van der Spijk, però, sapeva già cosa fare e inviò tutto il mobile ad Amsterdam, dove esso venne consegnato al vero editore di Spinoza, Jan Rieuwertsz. L’opera postuma - comprendente, oltre all'Ethica, più volte rivista, il Tractatus politicus, rimasto incompiuto, il Tractatus de intellectus emendatione, le Epistolae,14 e il Compendium Grammatices Linguae Hebreae - fu pubblicata in quello stesso anno, ancora in forma anonima. Dovremmo ricordarcene, quando descriviamo le Province Unite come un’isola felice, rifugio della libertà intellettuale. Senza dubbio lo erano, ma la tolleranza aveva i suoi limiti.

Durante gran parte della vita di Spinoza, l’Olanda fu una repubblica, e negli anni della maturità del filosofo, Jan de Witt, Gran Pensionano d’Olanda, dominò la vita politica del Paese. De Witt era un uomo ambizioso e dispotico, ma anche illuminato. Non è chiaro se conoscesse bene Spinoza, ma sicuramente sapeva di lui e probabilmente contribuì a contenere le ire dei politici calvinisti più conservatori quando il Tractatus, di cui possedeva una copia già dal 1670, cominciò a dare scandalo. Si dice che de Witt avesse richiesto l’opinione del filosofo su questioni di natura politica e religiosa e che Spinoza si fosse compiaciuto della sua stima. Quand’anche queste voci non fossero vere, non c’è dubbio che de Witt era interessato al pensiero politico di Spinoza e quanto meno tollerante nei confronti delle sue concezioni religiose. Spinoza si sentiva giustificatamente protetto dalla presenza di de Witt.

Questo relativo senso di sicurezza gli venne bruscamente a mancare nel 1672, in quello che fu uno dei momenti più cupi dell’epoca d’oro olandese. In un improvviso volgere degli eventi - caratteristico di quel periodo politicamente instabile -, de Witt e il fratello furono linciati da una folla sulla base del sospetto, peraltro infondato, che avessero tradito la causa olandese nella guerra in corso contro la Francia. Gli assalitori colpirono i de Witt con mazze e coltelli mentre li trascinavano alla forca, così che quando vi arrivarono non ci fu più bisogno di impiccarli. Svestirono i corpi e li appesero a testa in giù, come in una macelleria; poi li squartarono. I pezzi furono venduti come souvenir, e mangiati crudi o cotti nel più disgustoso sfogo di allegria. Tutto questo ebbe luogo non lontano da dove mi trovo io ora, proprio dietro l’angolo della casa di Spinoza, e con ogni probabilità fu anche per lui il momento più nero. Questi eventi sconvolsero molti pensatori e politici del tempo. Leibniz ne fu inorridito, proprio come l’imperturbabile Huygens, al sicuro a Parigi. Spinoza, però, ne fu devastato. Quella barbarie gli aveva mostrato la natura umana nella sua forma peggiore e più vergognosa, riscuotendolo dalla serenità d’animo che tanto s’era ingegnato a conservare. Preparò un cartello che intitolò Ultimi Barbarorum (I peggiori fra i barbari) e voleva metterlo vicino ai resti dei de Witt. La saggezza di Van der Spijk, sulla quale si poteva sempre contare, fortunatamente prevalse: egli chiuse la porta di casa e trattenne la chiave, impedendo così a Spinoza di uscire e trovar morte certa. Spinoza pianse, e fu l’unica volta, a quanto si dice, in cui fu visto da altri dare sfogo a un’emozione fuori controllo. Il porto sicuro degli intellettuali, ammesso che tale fosse stato in passato, aveva ormai cessato di esistere.

Guardo ancora la tomba di Spinoza e mi viene in mente l’iscrizione preparata da Cartesio per la propria: «Bene visse chi ben si nascose».15 Solo ventisette anni separano le date di morte di questi due personaggi, parzialmente contemporanei (Cartesio morì nel 1650). Entrambi trascorsero la maggior parte della loro vita nel paradiso olandese - Spinoza per diritto di nascita, Cartesio per scelta: avendo capito ben presto che le sue idee sarebbero probabilmente entrate in conflitto con la Chiesa cattolica e la monarchia della madrepatria francese, era silenziosamente partito alla volta dell’Olanda. Ciò nondimeno, entrambi dovettero nascondersi e fingere e, nel caso di Cartesio, forse anche distorcere il proprio pensiero. E la ragione dovrebbe essere chiara. Nel 1633, un anno dopo la nascita di Spinoza, Galileo era stato processato dalla Santa Inquisizione e messo agli arresti. Lo stesso anno, sebbene avesse rimandato la pubblicazione del Traité de l’homme, Cartesio dovette rispondere a veementi attacchi rivolti alla sua concezione della natura umana. Nel 1642, ritrattando il proprio pensiero, forse come disperata contromisura volta a prevenire ulteriori attacchi, Cartesio postulava ormai un’anima immortale, separata dal corpo effimero. Se quella era effettivamente l’intenzione, la strategia alla fine funzionò, ma non durante la sua vita. Più tardi, Cartesio si recò in Svezia come mentore della regina Cristina, nota per la sua trasgressività. Morì cinquantaquattrenne, a metà del primo inverno passato a Stoccolma. Ringraziando il destino, viviamo in tempi diversi, ma c’è da rabbrividire a pensare come queste libertà, conquistate a così caro prezzo, siano anche oggi minacciate. Forse il monito di Spinoza - Caute! - vale ancora.

Mentre esco dal cimitero, i miei pensieri vanno al bizzarro significato di questo luogo di sepoltura. Come mai Spinoza - nato ebreo - è sepolto accanto a questa potente chiesa protestante? La risposta è complicata, come qualsiasi cosa abbia a che fare con Spinoza. E sepolto qui - forse - perché essendo stato rinnegato dagli ebrei, poteva essere automaticamente considerato cristiano: di certo non avrebbe potuto essere accolto nel cimitero ebraico di Ouderkerk. Ma forse non è qui, perché non divenne mai cristiano - protestante o cattolico -, e agli occhi di molti era ateo. E straordinario come tutto questo combaci. Il Dio di Spinoza non era ebreo né cristiano. Era ovunque, non gli si poteva rivolgere la parola, non rispondeva alle preghiere, era in ogni particella dell’universo, senza principio e senza fine. Sepolto e dissepolto, ebreo e non ebreo, portoghese ma non fino in fondo, olandese ma non troppo - Spinoza non apparteneva a nessun luogo, o forse a tutti.

Quando rientro all’Hotel des Indes il portiere è felice di vedermi tutto intero. Non posso resistere. Gli racconto che sono sulle tracce di Spinoza, che sono stato a casa sua. Il solido olandese è colto di sorpresa. Si ferma perplesso e, dopo una pausa, dice: «Lei intende ... il filosofo?». Bene, dunque sa chi era Spinoza... dopotutto l’Olanda è uno dei paesi che vantano il miglior livello di istruzione al mondo. Però non immagina che Spinoza visse l’ultima parte della sua vita all’Aia, non sa che finì qui i suoi lavori più importanti, che morì qui e che sempre qui - si fa per dire - è sepolto; non sa che qui ha una casa, un monumento e una tomba in suo onore, a poco più di un chilometro. Onestamente, sono in pochi ad averne idea. «Di questi tempi non se ne parla molto» dice il mio affabile portiere.



PAVILJOENS GRACHT

Due giorni dopo, torno al numero 72 di Paviljoensgracht e stavolta i miei cortesi ospiti hanno organizzato una visita alla casa. Il tempo è ancora peggiore dell’altro giorno, e dal Mare del Nord spira un vento d’uragano.

Lo studio di Van der Spijk è appena un poco più tiepido dell’esterno, e di sicuro è più buio. Mi rimane nella mente una mescolanza di grigio e di verde. E un ambiente piccolo, facile da memorizzare, e con il quale è anche facile giocare d’immaginazione. Mentalmente, ridispongo i mobili, ridò luce alla stanza e la riscaldo. Me ne sto seduto abbastanza a lungo per riuscire a vedere i movimenti di Spinoza e di Van der Spijk in questo scenario limitato - e per concludere che nessun intervento di restauro trasformerà mai questa stanza nell’ambiente confortevole che Spinoza avrebbe meritato. E una lezione di modestia. In questi pochi metri Spinoza ricevette i suoi innumerevoli visitatori, tra i quali Leibniz e Huygens. Qui - quando non era troppo distratto dal suo lavoro e dimenticava del tutto di mangiare - Spinoza pranzava e cenava, e parlava con la moglie di Van der Spijk e con i suoi numerosi figli. E qui crollò, sconvolto dalla notizia del linciaggio dei de Witt.

Come poté, Spinoza, sopravvivere a questo confino? Senza dubbio liberandosi nell’infinita estensione della propria mente: un luogo più ampio e non meno raffinato della reggia di Versailles e dei suoi giardini, dove proprio allora Luigi XIV, di sei anni più giovane ma destinato a sopravvivergli per altri trenta, passeggiava con il suo gran seguito di cortigiani.

Emily Dickinson aveva proprio ragione, quando disse che un solo cervello, essendo più vasto del cielo, può comodamente contenere un intelletto umano e, insieme, l’intero universo.